abdel salam el Danaf

Se nel 2016 un operaio 53enne, padre di 5 figli, viene travolto e poi ucciso a Piacenza, da un tir durante un picchetto di fronte all’azienda in cui lavora, bisogna solo chiedersi come si sia arrivati ad una situazione così assurda e degenerata del mercato del lavoro. A quanto sembra, nel 2016, in Italia, non v’è nemmeno più spazio per il diritto di sciopero o di semplice protesta. Il sindacato da anni avrebbe abdicato alla sua funzione, ed in Italia chi detta le leggi è e sarà solamente il mercato ultraliberista.

Il modello liberista applicato al mercato del lavoro

Interrogandoci, è lapalissiano riconoscere che non è sempre stato così, anzi. La progressiva mutazione del mercato del lavoro italiano, ha visto, nel tempo, un unico modello vincitore: il liberismo senza confini. Quest’ultimo non conosce ostacoli, anche perché il modello social-democratico degli anni ’70, non esiste più. La sinistra, o cosiddetta tale, tradendo la sua storica tradizione, ha “abbracciato” il libero mercato, senza opporvi un modello vincente da contraltare. Nessun partito o movimento politico che si richiami alla sinistra social-democratica ha come obiettivo la tutela e salvaguardia del lavoro, e questo dato è facilmente constatabile dai dati di fatto: il Jobs Act è una politica liberista, non assomiglia per nulla allo Statuto dei Lavoratori.

Dagli anni ’90 all’ingresso nell’Euro

Molti concordano nel vedere il 1992 come l’annus horribilis delle sorti del nostro Paese. Svendita degli asset strategici del Paese, perdita di sovranità e cancellazione del Partito Socialista, aumento spropositato del debito pubblico, trattativa Stato-Mafia, speculazione contro la Lira italiana. Eppure per il momento, il mercato del lavoro teneva. Chiunque, avesse avuto una ventina d’anni nel 1990-1995, riusciva ad accedere al mercato del lavoro in maniera stabile, tutelato anche da leggi salvifiche e previdenziali.

Il grande salto nel vuoto del nostro Paese è stato l’ingresso nell’Euro. Antonio Fazio, Governatore della Banca, di fronte ad una Commissione Parlamentare così dichiarava: “Sentite, noi entriamo, ma il problema è come restare nell’euro. Quando si perde la manovra del cambio, si dovrebbe riacquistare una flessibilità del costo del lavoro e della finanza pubblica che ci permetta di rimanere competitivi”. Sostanzialmente, il Governatore di Bankitalia sapeva perfettamente che l’Italia non era pronta all’ingresso nella moneta unica, né tantomeno il nuovo conio sarebbe stato un vantaggio. L’Euro, come poi il tempo ha dimostrato, conviene alla Germania, al massimo dei suoi estremi mercantilistici, e non all’Italia, ridotta progressivamente allo spoglio delle sue ricchezze. L’Euro è il successo dei tecnocrati, dei vari Ciampi, Draghi e Monti, che continuano (tranne il defunto Carlo Azeglio) a ripetere ossessivamente, come un mantra, che la moneta unica rappresenta l’unica soluzione, un grande successo, ed oltretutto gli scenari in caso di uscita sarebbero catastrofici ed imprevedibili.

Eppure, il Governatore Fazio, ancora una volta, ha raccontato a posteriori la verità: “Affermo in Parlamento: ‘Non avremo più i terremoti monetari, ma avremo una sorta di bradisismo. Sapete cos’è? È il terreno che si abbassa sotto il livello del mare gradualmente, come a Pozzuoli. Ogni anno perderemo qualcosa in termini di crescita rispetto agli altri Paesi’ “. Il Governatore aveva ragione. Secondo lui, l’Italia avrebbe questi risultati in termini di competitività. Il Clup, il costo del lavoro per unità di prodotto, aumenta in Italia tra 2000 e 2003 del 9,9%; in Germania e Francia, i nostri maggiori partner e competitori, rispettivamente dell’1,7 e 1,5%. La produzione industriale in Italia tra il 2000 e il 2004 scende del 2,8%, in Germania sale del 3%, in Francia del 2%; nell’Europa dei 12 (Italia inclusa) cresce del 3%.

Mentre la produzione europea sale, quella italiana scende, Dal 2006 ad oggi, il Pil in questi 9 anni è calato in Italia del 5,5%, -0,6% all’anno; nel resto dell’Europa dell’euro, che comprende anche Slovacchia, Estonia, Spagna, Portogallo e Grecia, cresce dello 0,8% annuo. Questo è lo sprofondamento evidenziato: l’1,4% all’anno. Come se non bastasse, gli investimenti produttivi sono diminuiti in Italia tra 2006 e 2014 del 27%, parimenti nel resto d’Europa sono aumentati. Le esportazioni sono salite in Italia dal 2006 del 14,6%. ma esse crescono molto più rapidamente dell’economia e nel resto dell’Europa sono aumentate del 35%.

In queste condizioni, il mercato del lavoro, assassinato da politiche finanziarie e liberiste, non poteva che subire un tracollo. L’occupazione diviene progressivamente un lusso, e le riforme del mercato compiute da destra o sinistra simultaneamente, hanno ridotto il lavoro ad un colabrodo. Come?

Dal Pacchetto Treu alla Legge Biagi, un unico filo conduttore

Parola d’ordine flessibilità. Per la prima volta, sentiamo parlare di lavoro interinale, ossia la possibilità, per le aziende, di assumere manodopera per il tempo desiderato, sia come orario che come durata nel tempo. Verranno istituite privatamente apposite agenzie di intermediazione che potranno assumere i lavoratori con contratti a tempo determinato o indeterminato e avviarli poi alle imprese utilizzatrici.

Il lavoro temporaneo nasce quindi con la Legge 24 giugno 1997, n. 196 ossia “Norme in materia di promozione dell’occupazione”, denominata anche “Pacchetto Treu”. Il nome deriva da Tiziano Treu,  Ministro del lavoro e della previdenza sociale nel Governo Dini e nel Governo Prodi I (1995-1998).

Grazie al lavoro interinale/temporaneo, e ad un Ministro di formazione “di sinistra”, abbiamo la nascita del fenomeno mai sentito prima del precariato. Se infatti guardiamo al periodo antecedente a questa legge, non esisteva un lavoro interinale, salvo forse per il settore dell’agricoltura. Si è assistiti, impassibili, ad un ribaltamento di una realtà che durava da quasi vent’anni: il garantismo dei diritti è ormai assicurato non più ai lavoratori ma ai padroni e al profitto. Il tutto tradotto in una sola parola che ha dominato questi anni: il mercato. Qualche analista ha tentato di spiegare che il mercato si regola da sé, eppure, abbiamo visto che non è così. Per inseguirlo, bisogna essere flessibili, dinamici, pronti ad entrare ed uscire nel mondo del lavoro senza vincoli di sorta. E questo ha comportato la perdita inesorabile di diritti sociali conquistati con anni di lotte nei campi, nelle officine e nei cantieri.

Eppure, dal 1980 al 2000, la fabbrica ha perso la sua centralità nella visione del lavoro. In un processo (costruito) di de-industrializzazione, di produzione di servizi tecnologici e politiche terziarie (vedansi il turismo come fenomeno globale), si pensava alla stoccata finale. Se l’Italia, negli anni ’60 era seconda solo alla Germania come produzione industriale in Europa, dal 2000 – 2016 le politiche anti-industriali hanno portato ad una grossa perdita di lavoro. Un’emorragia inestinguibile.

Correva l’anno 2003, altro Governo, ma stesso pensiero. La coalizione di Centro-Destra presieduta da Silvio Berlusconi approva la cosiddetta “Legge Biagi”, in memoria del suo promotore, Marco Biagi, giuslavorista assassinato dalle Brigate Rosse. Sulla scia di quella norma (legge del 5 febbraio 2003 n. 30), in perfetta sintonia col Pacchetto Treu, è fortemente aumentata la flessibilità «in entrata», quella che concerne le nuove assunzioni. L’introduzione di nuove forme contrattuali (lavoro interinale, a progetto, a part time, nuovo apprendistato, contratto d’inserimento, contratto a chiamata (!)) ha sì consentito l’ingresso nelle imprese a nuove generazione di giovani, che assai difficilmente avrebbero trovato un posto fisso, e contemporaneamente, li ha resi i precari del ventunesimo secolo.

Fra il 2003 e il 2007 la disoccupazione giovanile scese di sei punti dal 26,3% al 20,3%. Molti dei neo assunti sono tuttavia finiti nella trappola delle cosiddette «porte girevoli»: sono entrati nel mondo del lavoro in velocità, quanto ne sono usciti. Un mercato a doppio binario, che ha ulteriormente indebolito le fasce economiche più deboli.

La paralisi berlusconiana, i Governi tecnici, il Jobs Act

Lo “ius murmurandi” racconta che Berlusconi chiamasse le tre sigle sindacali nazionali, CGIL, CISL e UIL la “Trimurti”. Mercato più libero ed agevole voleva, e il tutto si è avverato con la Legge da lui licenziata. Nel suo ventennio, la paralisi parlamentare era incentrata per lo più sulla sua persona, sebbene anche i suoi Governi abbiano visto diverse ombre (riforma dei licenziamenti, tagli a sanità e pensioni, tagli alle imposte dirette sui redditi più alti (!), non controllo dei prezzi post euro, Legge Gasparri, privatizzazioni, vendita beni demaniali). Queste ombre citate sono comunque imputabili anche a sinistra, si badi bene.

Nel 2008 l’Italia entra ufficialmente nell’anno zero della grande crisi finanziaria provocata oltreoceano. Come se un gigantesco maremoto avesse spazzato via un’isola, il nostro Paese si trova improvvisamente spiazzato: cancellazione del tessuto economico, il nord-est, “California” del Paese, in profonda crisi, centri storici svuotati, speculazione finanziaria, emigrazione giovanile di massa (ora ai massimi picchi).

Il 2011, secondo annus horribilis della storia d’Italia vede, dopo un ultimo tentativo di reazione alla piovra, tramite accordi commerciali energetici favolosi con Russia e Libia da parte di Berlusconi, la fine del suo mandato (dimissionario) e il termine di tutti i governi italiani democraticamente eletti.

La tecnica e la finanza hanno imposto al nostro Paese i vari Mario Monti, Enrico Letta e per ultimo, il conquistatore Matteo Renzi. Quest’ultimo, presentatosi come un rivoluzionario, ha presentato le sue riforme del lavoro e delle riforme sociali. Ha applicato, grazie alla maggioranza parlamentare del Partito Democratico (nata ibridamente, grazie ad elezioni vinte praticamente senza maggioranza) la cancellazione dell’articolo 18, che impediva i licenziamenti indiscriminati nelle aziende. Ha promosso una nuova riforma del lavoro, chiamata Jobs Act, promettente contratti a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, forma quasi del tutto disattesa dalle aziende.

Come se non bastasse, è risorto una sorta di “nero legalizzato”, promosso da voucher e lavoro a chiamata. Entrambi non costituiscono alcun futuro lavorativo. Se prendiamo il primo caso, non vi sono contributi per una futura visione pensionistica, ma solo una copertura assicurativa, e una paga in denaro da ritirare presso gli enti accreditati (al netto delle spese). Questa è la metodistica più applicata dalle aziende, che siano grandi o piccole.

Un piccolo esempio. Nella mia città, Padova, si è appena inaugurato un grande supermercato Conad. I selezionati hanno ottemperato ai corsi di formazione, sicurezza e haccp. Verranno muniti di divisa e accompagnati nell’inserimento. Sono trenta, e dopo un mese, dieci verranno scartati. Ma quei trenta, il primo mese verranno pagati in voucher. Il futuro contrattuale dei venti passanti la prova, dopo il mese canonico, non è ancora certo. Una cosa, tuttavia, è chiara: Conad, non è in crisi, e questo marchio, così come i migliaia (catene o aziende, privati o non) che non lo sono ed utilizzano questi metodi precarizzanti, fomentano solo la voglia di scappare via da questa realtà da incubo.

Dal passato delle certezze, delle prospettive, della voglia, tramite il lavoro sicuro di realizzare progetti quali casa, famiglia e figli, si è passati all’essere dipendenti dei redditi di genitori e nonni, i quali sottraggono parte della loro “ricchezza” per consentire un minimo di “futuro” ai venti – trentenni attuali. È il mercato, bellezza. Con questo, non ci si può affatto meravigliare che la morte di un operaio non faccia nemmeno notizia nei telegiornali o nella carta stampata. Sono stati accettati passivamente troppi diktat, in Italia ed anche in Europa. Ora, restituire dignità al lavoratore, sarà veramente una grande impresa.

Valentino Quintana

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