Come apprendiamo dal giornale cremonese La Provincia, ultimamente i social più noti al grande pubblico come Facebook e Twitter hanno rimosso una serie di pagine pubbliche e di profili personali accusati di diffondere “bufale” o “fake news”, oppure d’istigare all’odio ideologico o razziale con contenuti non ammessi dalle piattaforme che li ospitavano. Ciò, del resto, è ormai un fatto di conoscenza comune, ma il giornale lombardo scende ancor più nei dettagli facendo degli esempi ben precisi: ad esempio una rete di falsi profili, tutti a favore di Trump, erano stati messi in piedi dal giornale della setta cinese Falun Gong, “The Epoch Times”. Di questo giornale, molto popolare soprattutto nel mondo anglosassone ma ormai presente anche da noi, avevamo già parlato in passato, come del resto avevamo raccontato anche di questa tattica basata su profili falsi che addirittura aveva fruttato ai redattori di “Epoch Times” e al Falun Gong una buona considerazione da parte dello staff dell’influencer politico ed ideologico Steve Bannon (in cui, d’altronde, anche personalità del Falun Gong sono presenti in qualità di membri e consiglieri veri e propri).
Se 88mila profili rimossi erano collegabili all’Arabia Saudita, e quindi probabilmente estranei al Falun Gong, gli altri invece facevano capo ad una società legata a “The Epoch Times”, chiamata “The BL” (“The Beauty of Life”), parte quindi della galassia del Falun Gong, e che da sola aveva realizzato 610 account, 89 pagine, 156 gruppi e 72 profili Instagram (altro social oggi estremamente popolare, di proprietà di Facebook e a quest’ultimo direttamente gemellato). In un momento in cui, negli Stati Uniti, ferve la campagna elettorale ed ancor prima il processo politico e mediatico a Trump da parte dei democratici, la lotta avviene anche per mezzo dei social, il nuovo e più efficace strumento di comunicazione dei tempi moderni. Il Falun Gong, che con l’Amministrazione Trump condivide l’approccio aggressivo verso le autorità di Pechino, non può quindi esimersi dal prendere posizione a favore del “suo” Presidente, mettendo a disposizione sua e del suo staff le proprie migliori armi di propaganda e convincimento. Del resto, nel far ciò, il Falun Gong e le sue varie diramazioni (“The Epoch Times” ma anche, perché no, “Shen Yun”), tirano fuori quella nota retorica sul rispetto dei “diritti umani” che è molto utile anche a far proseliti nel mondo dei democratici e a tacitare molti di loro che, a quel punto, non possono certo accusare Trump d’avere verso la Cina un atteggiamneto più morbido di quello che aveva avuto Obama o che al suo posto avrebbe avuto la Clinton.
Nel frattempo, anche la crociata ormai non più soltanto americana ma di fatto estesa a tutto l’Occidente contro Tik Tok sta prendendo sempre più piede. Anche di questo fatto, tempo fa, avevamo avuto modo di parlare, sospettando che la nota app social di provenienza cinese sarebbe ben presto stata messa all’indice non soltanto dalle autorità statunitensi ma anche europee e, prima ancora, da ampi settori del mondo politico e mediatico occidentale. Così, in effetti, è stato, ed oggi abbiamo modo di notare come il governo degli Stati Uniti abbia cominciato a vietarne l’uso ai membri delle proprie forze armate. Del resto ormai Tik Tok è la più popolare app, fra i giovanissimi, per visualizzare e scambiare video personali e collettivi, e tanto è stato il suo successo da portarla ad una quotazione sul mercato pari a 75 miliardi di dollari. Una dimensione abbastanza chiara della posta in gioco è espressa dal sito HWUpgrade:
“Dopo che l’app è caduta sotto la lente d’ingrandimento del direttore dell’intelligence americano Joseph Maguire, lo stesso Mark Zuckerberg è intervenuto sostenendo che l’app stava bloccando i contenuti realizzati dagli utenti americani in sostegno dei cittadini di Hong Kong in protesta contro il regime cinese. Secondo successive inchieste, l’algoritmo di TikTok impedirebbe a certi tipi di contenuti di diventare virali e frequentemente ricorrenti nei news feed dei suoi utenti. In particolare le menzioni della Protesta di Piazza Tiananmen, dell’indipendenza tibetana o del gruppo religioso del Falun Gong sembrerebbero accuratamente evitate dall’algoritmo. Parliamo di un’app la cui popolarità è in rapida crescita, con circa 800 milioni di utenti in tutto il mondo (si pensi che WhatsApp, il cui successo è di molto antecedente, è a 1,5 miliardi di utenti). In alcune nazioni, come la popolosa India, TikTok è già più popolare di Instagram. L’app è in grado di sfruttare pienamente le funzionalità dello smartphone per ricreare un’esperienza immersiva e molto immediata. Facebook sta già prendendo delle contromisure con la funzionalità Reels, che verrà introdotta a breve all’interno di Instagram. Reels mostrerà i contenuti in video realizzati dagli utenti nel news feed di Instagram, andando a copiare la funzionalità di maggior successo di TikTok”.
L’app, per farla breve, è stata accusata dapprima di censurare determinati contenuti sempre in odor di “diritti umani” (un tema che, come sappiamo, scatena in molti ambienti intellettuali, culturali, politici e mediatici occidentali delle vere e proprie “reazioni pavloviane”) e quindi di rappresentare un grave problema per la sicurezza e la privacy dei suoi utenti, uno strumento con cui le autorità di Pechino spierebbero la loro vita personale a proprio vantaggio (anche questo un discorso già sentito, se ci ricordiamo bene: venne fatto, e tuttora viene ripetuto, quando si parla dei cellulari Huawei, ma anche in quel caso senza mai addurre prove davvero convincenti o concrete).
Fateci caso: si parla di Piazza Tienanmen, di Tibet e di Falun Gong. Tre temi che, ormai, insieme a quelli della Chiesa di Dio Onnipotente e delle repressioni sugli Uiguri, vengono sempre proposti tutti insieme, nel medesimo calderone, indistintamente. Se nelle nostre piazze, in Occidente, c’è una manifestazione di un gruppo che ha a cuore una di queste tematiche, automaticamente vi partecipano anche tutti coloro che fanno parte di gruppi che hanno a cuore le altre, e viceversa. Si coordinano fra di loro, per darsi manforte e fare più numero, secondo uno schema del resto comune anche in tanti altri ambiti politici e di associazionismo e che già avveamo evidenziato in passato, in altri articoli. Cercano così di farsi notare e di risultare più convincenti al grande pubblico che, però, ha problemi molto più reali e concreti da vivere ogni giorno, e che proprio di fronte ad un simile comportamento, tanto aggressivo e coalizzato ma anche disordinato e ridondante, tende piuttosto a farsi ancor più diffidente od estraneo di prima.