Nel 1991 Aung San Suu Kyi, che si batteva contro la giunta militare che aveva disconosciuto il risultato elettorale ad essa sfavorevole, venne insignita del Premio Nobel. Per l’Occidente era divenuta un’eroina, mentre molti suoi compatrioti la consideravano la degna figlia del Padre della Patria Aung San, l’uomo che aveva battezzato l’indipendenza del Myanmar, allora ancora Birmania.

“Man mano che si fece chiaro che avevo vinto il Nobel cominciai a capire cosa questo significasse”, ha spiegato successivamente, raccontando l’emozione di quando le venne consegnato il Nobel. “Mi ha resa viva ancora un volta e mi ha riportato nella comunità umana, ma la cosa più importante di tutte è stato che il Nobel ha risvegliato l’attenzione del mondo sul dramma del Burma”.

Per molti anni Aung San Suu Kyi è stata sostenuta dall’Occidente soprattutto in funzione anticinese, perché si riteneva che la giunta militare birmana fosse per Pechino l’unico referente, possibile ed immaginabile e quindi anche insostituibile, che le garantisse un rapporto fedele col Myanmar. Quando, a seguito di lunghe e complesse trattative, la giunta militare ha gettato la spugna e nel paese si sono tenute nuove elezioni vinte da Aung San Suu Kyi, in tanti hanno perciò creduto che per il Myanmar si aprisse una nuova epoca, vicina a Washington e lontana da Pechino.

Invece non è stato proprio così, anche perché è piuttosto difficile pensare che due nazioni confinanti non possano comunque avere dei rapporti che le leghino insieme, e ciò naturalmente vale anche per tutti gli altri paesi dell’Indocina. Anche il Vietnam, il Laos e la Thailandia, per ragioni diverse, hanno con la Cina un rapporto importante, nel bene così come nel male, e i tentativi del passato di allontanarli da Pechino o di metterli addirittura in collisione con essa sono alla fine stati superati dal buon senso degli affari e della geopolitica.

In molti in Occidente, delusi dal comportamento di Aung San Suu Kyi, o se preferiamo dal suo buon senso politico o ancora dalla sua volontà di salvaguardare l’interesse nazionale evitando di fare del Myanmar un avamposto anticinese, hanno così cominciato a voltarle le spalle e ad attaccarla. Una delle prime motivazioni con cui farle politicamente e mediaticamente guerra è stata la questione della minoranza Rohingya, di culto musulmana, da tempo presentata in Occidente come soggetta a “discriminazioni e massacri”.

Ad Aung San Suu Kyi, addirittura, è stato chiesto di restituire il Nobel ricevuto nel 1991. La cosa appare piuttosto curiosa, se pensiamo che per esempio nessuno ha chiesto ad Obama di restituire lo stesso premio, ricevuto nel 2009, quando due anni dopo ha deciso di attaccare militarmente la Libia. E’ stato un altro celebre Premio Nobel, l’afghana Malala Yousafzai, a chiedere ad Aung San Suu Kyi spiegazioni sul suo comportamento attraverso Twitter, accusandola addirittura d’ignorare il “genocidio” dei Rohingya.

Parole davvero molto dure quelle di Malala: “Negli ultimi anni ho più volte condannato questo tragico e vergognoso trattamento e mi aspetto che la mia collega Premio Nobel Aung San Suu Kyi faccia lo stesso. Il mondo aspetta e i musulmani Rohingya stanno aspettando”. “Se la loro patria non è il Myanmar, dove vivono da generazioni, qual è? Il popolo Rohingya dovrebbe avere la cittadinanza del Myanmar, Paese dove sono nati”. E ancora: “Oggi abbiamo visto immagini di bambini piccoli uccisi dalle forze di sicurezza del Myanmar. Questi bambini non hanno attaccato nessuno, ma la loro casa è stata bruciata e abbattuta”.

Aung San Suu Kyi ha risposto che sulla questione dei Rohingya si sta facendo troppa “cattiva informazione”, bollando come “fake news” le cose che vengono attualmente dette sul Myanmar in Occidente e a suo giudizio prese per buone anche da Malala e da altre importanti figure internazionali. “Dobbiamo preoccuparci dei nostri cittadini e di chiunque è nel nostro paese. Non importa che siano connazionali o no. Vogliamo fare di tutto per proteggerli e che restino sotto la protezione della legge”, ha infatti dichiarato.

Nel frattempo i media occidentali sostengono che un numero variabile fra le 125mila e addirittura le 270mila persone, appartenenti al gruppo Rohingya, avrebbe ormai abbandonato il Myanmar per scampare alle persecuzioni, trovando riparo in Bangladesh. In una telefonata al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, suo principale accusatore, Aung San Suu Kyi ha affermato che il suo governo sta difendendo “tutti i cittadini” dello Stato occidentale del Rakhine. Successivamente ha spiegato come il vicepremier turco Mehmet Simsek abbia postato foto di Rohingya morti non collegabili alla crisi in atto.

Questa disinformazione, ha quindi ammonito, aiuterebbe a promuovere gli interessi dei “terroristi” di matrice fondamentalista che da sempre operano nel paese, facendo una chiara allusione all’attentato del 25 agosto rivendicato dai ribelli dell’Esercito Arakan per la salvezza dei Rohingya (ARSA), a cui i militari birmani hanno reagito inasprendo la repressione e il controllo. Le “fake news” diffuse sul Myanmar sarebbero, sempre per usare le sue parole, “semplicemente la punta di un iceberg di cattiva informazione per creare problemi tra diverse comunità e con l’obiettivo di promuovere gli interessi dei terroristi”.

“L’ARSA vuole uno stato islamico indipendente dalla nostra nazione a forte maggioranza buddhista. Le forze armate stanno usando il massimo della moderazione nelle operazioni militari contro di loro, cercando di salvaguardare i civili innocenti”, ha sottolineato il Consigliere per la sicurezza nazionale Thaung Tun.

Comunque, che la Turchia cerchi in qualche modo d’inserirsi in questa crisi è reso evidente anche dalle ultime mosse di Erdogan e del suo governo. Dopo una prima spedizione di generi di prima necessità, Ankara invierà altre 10mila tonnellate nei campi allestiti nelle zone di confine in Bangladesh. Oltre agli aiuti, nei campi profughi arriveranno la moglie di Erdogan, Emine, e il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu.