
Partiamo da un dato: se escludiamo i minuti di recupero la nazionale italiana non marca un punto su azione in partita ufficiale da ben 377 minuti. Ben più di quattro partite. L’ultimo gol segnato dalla nazionale escludendo le palle inattive, è quello di Candreva contro l’Albania. Uno striminzito 1-0 alle qualificazioni per i mondiali di Russia, per i quali come è noto, non ci siamo qualificati.
Puntualmente da qualche anno a questa parte, i talenti migliori del calcio italiano vengono messi in discussione dagli scarsi risultati della nazionale. La frase più gettonata è che i nostri giocatori siano sopravvalutati, esaltati dal contesto tattico dei club di appartenenza e dal livello più basso della Serie A rispetto ad altri campionati europei. La morale della favola è che in Italia non nascono più i campioni di un tempo.
Questa critica ha un fondo di verità, ma non spiega del tutto gli scarsi risultati della nazionale degli ultimi anni. Anche all’ultimo mondiale abbiamo visto come nazionali non del tutto eccelse abbiano fatto risultati migliori dell’Italia. Dal Portogallo alla Svezia. Due sono le vie di solito se non hai grandi fuoriclasse: un gioco ben consolidato che dà una forte identità alla rappresentativa calcistica di quel paese, l’esperienza calcistica dei singoli.
L’Italia attualmente manca di entrambe le componenti. I nostri calciatori sono ottimi elementi in alcuni casi, ma che faticano a trovare dei club che puntino su di loro a un livello alto. Verdi è arrivato in una squadra come il Napoli a 26 anni suonati, dopo essere stato scartato dal Milan, Belotti è restato un altro anno a Torino, Berardi a 24 anni milita ancora nel Sassuolo, Caldara fatica a togliere il posto a Musacchio nel Milan, Darmian e Zappacosta non hanno trovato squadre italiane che credano in loro, e fanno fatica a trovare spazio nei club di Premier League. Pochi dei calciatori di ieri tra campo e panchina hanno visto in maniera regolare una partita di Champions League.
Non a caso tenendo da parte l’esperienza Conte, la nostra nazionale riesce a produrre nient’altro che un lento e prevedibile giropalla, sperando che qualche attaccante si inventi poi la giocata vincente. Ma il possesso palla nel calcio di oggi senza ritmo è abbastanza inutile e i nostri calciatori non sono abituati a giocare ai ritmi in cui si gioca in altri campionati. Ieri è bastato un Portogallo sufficiente a mettere in risalto i difetti della nazionale, che a volte non sembra né carne né pesce. Né gli atteggiamenti prudenti, né quelli pseudoffensivi come il 433 funzionano.
Con Conte qualche risultato si è ottenuto tornando all’antico contropiede, ma oggi il contropiede vecchio stampo non è sufficiente, e l’Italia pur giocando un europeo soddisfacente si è fermata nel 2016 contro una Germania non certo imbattibile, fallendo la lotteria dei rigori. Infatti oggi, lo si vede con il Liverpool di Klopp, il gioco di contrattacco funziona se si posseggono le capacità di saper attaccare l’avversario nella propria metà campo, ed esser capaci di crearsi gli spazi adatti per i propri contropiedisti.
Il movimento calcistico italiano, a partire dal massimo dirigente federale, dovrebbe dunque chiedersi quale identità dare alla propria tradizione calcistica. L’Italia è sempre stata la patria di grandi difensori e portieri e di stupendi attaccanti, che interpretavano in modo ottimale il calcio all’italiana. Oggi il calcio è cambiato, ma l’Italia può ancora avere un futuro se riesce a fare un mix tra tradizione e calcio moderno. Per farlo però ci vuole la collaborazione dei club professionistici. Troppo pochi sono i nostri talenti che vengono valorizzati dalle grandi della Serie A, ed è forse questo il primo aspetto da correggere, pur tenendo presente le regole europee sulla libera circolazione dei lavoratori. Almeno un terzo della rosa di ogni squadra dovrebbe essere composta, a nostro avviso, da calciatori italiani.
Il secondo accorgimento da fare, sarebbe quello di valorizzare il ruolo del commissario tecnico. Non ha senso che la nazionale pratichi un tipo di calcio che non è in linea con le abitudini e le conoscenze tecniche dei club italiani. La Serie B e i club medio-piccoli della A dovrebbero lavorare con più sintonia con la Federazione. Come si è visto nel caso del ciclo della Spagna, avere conoscenze tecnico-tattiche acquisite nei club, consente alla nazionale di bruciare le tappe dal punto di vista del gioco. Alcuni club italiani, vedasi ad esempio l’Atalanta, che da anni sforna giovani calciatori dal proprio vivaio, che poi si contendono le grandi, possono essere un’importante scuola calcio per i nostri talenti.
Il problema purtroppo è nel manico. Viviamo in Italia un’epoca calcistica anarchica, nella quale la federazione è più ostaggio di procuratori e interessi particolari, piuttosto che essere capace di far progredire un movimento. E dalla fine del periodo di commissariamento del CONI, non sta uscendo nulla di buono.