Per i risultati del vertice di Hanoi le aspettative erano molto alte, ma alla fine sono naufragate davanti alla dichiarazione ufficiale emanata dalla Casa Bianca: “Nessun accordo è stato raggiunto”. A questo laconico resoconto è comunque seguita una più rassicurante precisazione sulla volontà di tenere nuovi vertici in futuro fra Kim e Trump, alla ricerca di quel punto d’intesa che stavolta, malgrado i tanti auspici, proprio non s’è palesato.
Kim Jong-un ha lasciato il Metropole Hotel, luogo convenuto per il grande summit, con un leggero anticipo rispetto ai tempi previsti: già questo ha fatto serpeggiare fra gli osservatori l’ipotesi che non tutto fosse andato secondo le previsioni. Poco dopo, infatti, è arrivata la “doccia fredda”, con oltretutto l’ufficializzazione della notizia secondo cui non ci sarebbe stato il pranzo fra i due leader e men che meno la successiva cerimonia della firma congiunta, evento che avrebbe dovuto concludere in grande stile il summit di Hanoi.
Donald Trump, in un secondo momento, ha cercato di rassicurare gli animi spiegando durante la conferenza stampa che “Abbiamo avuto un tempo molto produttivo c’erano diverse opzioni ma questa volta abbiamo deciso che non era una buona cosa firmare una dichiarazione congiunta al summit”. Ha quindi fornito qualche dettaglio in più, precisando d’aver “rifiutato la richiesta di togliere le sanzioni” e che le “differenze sono state ridotte”, sebbene Kim abbia “una certa visione che non coincide con la nostra”.
Dal punto di vista dei nordcoreani, e dei loro principali partner strategici ed internazionali, cinesi in primo luogo, gli Stati Uniti dovrebbero fare qualcosa di più, anziché pretendere che sia solo Pyongyang a disarmarsi o cedere unilateralmente senza che dall’altra parte s’intenda, in nome del rispetto e della reciprocità, fare ugualmente un passo indietro. La Corea del Nord è disponibile a chiudere il proprio capitolo nucleare, ma a ciò deve corrispondere il ritiro degli armamenti nucleari statunitensi dalla Corea del Sud, come primo passo verso una piena smilitarizzazione di tutta la Penisola di Corea. Solo in questo modo, secondo i nordcoreani, sarà possibile parlare di una vera e propria pacificazione di tutta la Penisola, propedeutica ad una sua successiva e graduale riunificazione politica ed economica. Viceversa, sarebbe come chiedere a Pyongyang di ripetere il copione già avvenuto per la Germania Orientale, ovvero chiederle di suicidarsi nell’esclusivo interesse della controparte, senza chiaramente ottenere niente in cambio.
In questo senso, anche la rimozione delle sanzioni indette dagli Stati Uniti alla Corea del Nord da decenni e poi rafforzate anche di recente è un altro passaggio indispensabile, a cui Washington deve dar corso in cambio dell’adozione da parte di Pyongyang di una politica di pace e di denuclearizzazione. L’esito dell’incontro di Hanoi, risoltosi in un nulla di fatto, è frutto proprio dell’approccio unilaterale degli Stati Uniti alle questioni internazionali e ai suoi vari interlocutori o rivali. Pensare di sedersi al tavolo senza rinunciare a niente, ma al contrario pretendendo che l’altro rinunci a tutto, è ben lontano dall’essere un atteggiamento costruttivo. Ancor meno costruttivo, poi, è pensare di sedersi a quel tavolo con la pretesa di poter decidere anche per la controparte, oltre che per sé stessi.
Se Trump ha abbandonato Hanoi con l’immagine di un leader che ha perso una buona occasione per dimostrare maggior coraggio politico nella gestione dei rapporti internazionali, al contrario Kim se n’è andato confermando l’immagine di leader di un piccolo paese che non ha piegato la testa di fronte al comportamento “padronale” della principale superpotenza mondiale. Da un punto di vista politico, dunque, per Kim si tratta già di per sé di un importante successo, anche perché serve a cementare ancor di più la sua alleanza con Pechino.
Le sue recenti visite in Cina hanno confermato il buon clima che attualmente caratterizza i rapporti fra Pechino e Pyongyang, ed anche il viaggio di Kim attraverso l’immenso paese asiatico, per raggiungere in treno Hanoi, capitale del Vietnam, è stata un’ulteriore ed intelligente mossa di promozione personale. Partito da Pyongyang con lo stesso treno che suo nonno, Kim Il-Sung, aveva usato decenni fa per un viaggio analogo, il giovane Kim ha attraversato alcune fra le più importanti città cinesi, incrementando la propria presa sull’opinione pubblica della Cina Popolare. Un viaggio in aereo non avrebbe fruttato gli stessi risultati, in termini d’immagine e di consenso, anche se certamente sarebbe stato molto meno impegnativo e faticoso. Anche questo fatto, tutt’altro che irrilevante, testimonia la grande rimonta che la Corea del Nord, dopo anni d’isolamento, sta conoscendo nel vasto consenso asiatico, dalla Cina al Vietnam, fino alla piccola ma ricchissima ed importantissima Singapore, che ha ospitato il primo vertice fra Kim e Trump.
Trump, per contro, torna negli Stati Uniti con un’immagine molto meno granitica, anche perché messa alla prova da numerosi dossier di non facile risoluzione, dal famoso Muro col Messico fino alle costanti accuse che gli vengono rivolte per il “Russiagate”. Già nella conferenza stampa di Hanoi, infatti, ha dovuto difendersi da alcune domande che gli erano state rivolte dai giornalisti in merito alle accuse che, davanti al Congresso degli Stati Uniti, gli sono state lanciate dal suo ex legale Michael Cohen: un antipasto vegetariano, rispetto a ciò che gli verrà presentato in Patria. Anche per questa volta se la caverà con qualche messaggio su Twitter, ma di sicuro la breve “vacanza” vietnamita non gli è stata d’aiuto, e men che meno l’ha visto brillare.