L’Algeria continua a oscillare tra passato e futuro, nel vento del cambiamento che soffia incessante sui paesi del MENA (Middle East and North Africa). Dalle splendide vestigia romane di Tigmad alla Pentapoli mozabita, con il fascino e le suggestioni di Ghardaia, all’estremo sud sahariano ho deciso di percorrere un itinerario storico – culturale alla riscoperta delle radici di questo paese antico, illustrando le sue diversità sospese tra cultura mediterranea, berbera e ibadita.
A differenza di quello che sostennero i colonialisti francesi, che per 130 anni la colonizzarono annettendola al territorio francese, l’Algeria è un paese ricchissimo di storia. Colonia fenicia (Ikosim), divenne colonia romana e quindi Mauretania cesarea e Numidia: prima del cristianesimo gli antichi soldati romani erano dediti al culto di Mitra. Sant’Agostino, che era originario di Bona (l’attuale Annaba) vi condusse la sua campagna contro il donatismo. Gli arabi che la invasero dall’Oriente la chiamarono Djezira el-Maghreb (Isola dell’Occidente), entità che infatti non poteva essere confusa con le due ali estreme del Maghreb, il Marocco e la Tunisia. Intorno all’anno Mille, gli Ibaditi trovarono rifugio nella valle dello Mzab, attingendo coi loro ingegnosi sistemi idraulici alle preziose fonti idriche sotterranee e impiantando meravigliosi palmeti. Nel Medio Evo si parlò di Berberia. Si giunse in seguito alla Reggenza di Algeri e all’appellativo di Algeria, al colonialismo francese e alla successiva cruenta guerra di liberazione. Guerra civile, richieste inevase di democrazia e terrorismo hanno segnato da ultimo la travagliata storia recente di questo paese complesso e grande, il più vasto di tutta l’Africa.
L’Algeria attraversa oggi una fase molto delicata. L’economia è stata gravemente danneggiata dalla caduta dei prezzi del petrolio, che ora appare tuttavia in ripresa, mentre le autorità stanno cercando di affrontare la crisi “stampando denaro”, contrariamente al parere del FMI. Ma ancor più che economico, il problema dell’Algeria è soprattutto politico e sociale. Il paese è ancora amministrato dalla famiglia del presidente Abdelaziz Bouteflika e da un entourage ristretto e clientelare. La disillusione degli algerini riguardo alla possibilità di un cambiamento radicale ai vertici del regime resta molto diffusa, così come la speranza che possa realizzarsi un’effettiva apertura democratica. La possibilità di una rivolta aperta degli algerini nei confronti del regime attuale resta comunque bassa.
Indipendentemente dalla pervasività dei controlli dei militari e dell’intelligence, gli algerini sono infatti ancora negativamente condizionati dal Decennio nero e dai traumi psico-sociali degli eccidi, dagli orrendi crimini contro l’umanità subiti e dal fatto che molti dei criminali hanno goduto in seguito dell’impunità e dell’amnistia. E’ stata ristabilita la pace interna ma non la verità di quegli anni terribili. Di positivo c’è che i giovani, che sono nati dopo il citato Decennio nero, sono oggi molto attivi e stanno ricostruendo il tessuto culturale necessario per la rinascita del paese. L’augurio è che in Algeria l’islam wahabita e integralista d’importazione non riporti il paese nel baratro dell’oscurantismo e dell’isolazionismo come in altre parti del mondo.
Va comunque detto che le infiltrazioni del terrorismo islamico faticano alquanto a radicarsi in Algeria, non tanto e non solo per la presenza dei militari e delle forze di polizia ma soprattutto perché il popolo algerino ha già pagato sulla propria pelle gli effetti di detto terrorismo, e si è nel frattempo immunizzato alla febbre terroristica. Sul fronte esterno il paese continua comunque ad essere circondato da un arco d’instabilità che, passando per il Sahel, si estende fino alla Libia e al Mali. Emmanuel Macron vorrebbe coinvolgere l’Algeria nell’ambito dei suoi interventi sulla sicurezza e la lotta al terrorismo, ma gli algerini non intendono interferire in alcun modo con gli affari interni dei paesi confinanti, preferendo limitarsi a difendere i propri confini. Le rotte delle migrazioni verso il Mediterraneo mutano in continuazione, e l’Algeria sta diventando un’alternativa ai flussi che si indirizzano verso le galere libiche.
La pressione migratoria che muove dal continente africano verso il Mediterraneo sta riattivando rotte minori e secondarie. Con la diminuzione delle partenze dalla Libia i traffici di esseri umani hanno cominciato a riversarsi in altre tratte alternative a quella libica, interessando anche l’Algeria. Ne sono una dimostrazione i fatti riportati in merito ai migranti deportati in Mali e in Niger dalle autorità algerine, le quali, lo scorso 27 aprile 2018, hanno annunciato di temere una nuova ondata migratoria di rifugiati dall’Africa sub-sahariana.
Gli eventi ambientali e i cambiamenti climatici sono spesso ritratti dai media come i driver di migrazione e conflitto. Sotto questo punto di vista, il Sahel è considerato un ground zero per la sua critica esposizione geografica. Non è sicuramente agevole esplorare il multiforme nesso intercorrente tra cambiamento climatico e mobilità. Piuttosto che come causa principale, il cambiamento climatico si presenta spesso come un moltiplicatore di minacce già esistenti e come un supplementare fattore di stress che mescola realtà già difficili: governance debole, infrastrutture limitate e instabilità politica sono solo alcune delle strutture socio-politiche che amplificano gli effetti del cambiamento climatico e aumentano la propensione delle persone a migrare, sia all’interno dell’Africa sia verso l’Occidente.
La migrazione è un fenomeno complesso e sfaccettato. Il più delle volte l’Occidente preferisce ricorrere a spiegazioni semplici, banali, utilizzando comode scorciatoie interpretative (abilmente orchestrate dai politici locali) che alla fine finiscono con lo stravolgere la verità o far prevalere interpretazioni del reale alquanto discutibili. Questa complessità solo molto raramente viene compresa e si riflette nelle scelte politiche adottate dai paesi riceventi. Posizionando continuamente i riflettori sulla protezione del confine ed enfatizzando la necessità di porre delle barriere di contenimento,le società europee che cercano solo di interrompere questi i flussi migratori alla fine non fanno altro che produrre ulteriori effetti negativi. Le politiche migratorie europee sempre più restrittive costringono i migranti a modificare e a ricorrere a rotte sempre più rischiose e a pratiche irregolari, rendendo difficile ai migranti le possibilità di rientro nei rispettivi paesi di origine.
L’Algeria è paese più vesto ed esteso dell’Africa, e condivide ben 2.500 km di confine con il Mali e il Niger: dal 2015 ha speso 20 milioni di dollari per gestire i flussi di rifugiati che abbandonavano i paesi di origine nella regione del Sahel. L’Africa e il riscaldamento globale sono diventati gli emblemi delle disuguaglianze della nostra epoca: sono i paesi ricchi a produrre gran parte dei gas serra, ma è l’Africa – soprattutto quella sub-sahariana, e il poverissimo Sahel – a subirne le conseguenze più gravi, determinando quel processo di desertificazione che poi è una delle principali concause di migrazione verso Occidente.
Particolarmente vulnerabile appare proprio il Sahel, quella striscia di terra semi-arida posta appena sotto il deserto del Sahara che caratterizza anche la massima parte del territorio algerino. Il cambiamento climatico agisce inoltre su un quadro politico ed economico già di per sé molto precario. Vastissimo – si estende dalla Mauritania all’Eritrea – e in forte crescita demografica, il Sahel conta oggi 135 milioni di abitanti, ma potrebbe averne 330 milioni nel 2050 e quasi 670 milioni nel 2100. Ogni anno, centinaia di migliaia di migranti attraversano queste aree instabili e impoverite per raggiungere il Nord Africa, e poi, eventualmente, l’Europa. Secondo un documento dell’African Institute for Development Policy, l’aumento medio delle temperature potrebbe causare un ulteriore sensibile calo della produzione agricola. Il Washington Post ha addirittura ipotizzato che il Sahel, a causa di una reazione a catena innescata dallo scioglimento dei ghiacci artici, rischia di inaridirsi completamente, costringendo ad emigrare centinaia di milioni di persone entro la fine del secolo. Anche le politiche di Trump sulla “negazione” dei mutamenti climatici in realtà potrebbe sottendere a una precisa scelta politica: destabilizzare l’Europa attraverso l’arma delle migrazioni africane.
In Algeria ci sono inoltre forti minoranze etniche che cercano di preservare la propria identità. Circa la metà della popolazione berbera dell’Algeria (6-10 milioni di abitanti) vive in prevalenza nella regione della Cabilia, un’area montuosa ed aspra che pur annoverando un grande patrimonio culturale e naturalistico è quasi completamente ignorata dal turismo e soffre per le condizioni del suo isolamento, esacerbato dalla presenza passata di islamisti che hanno portato anche alla militarizzazione forzata di parte del suo territorio. L’eredità di molti algerini riflette sia le influenze berbere che quelle arabe, ma lo Stato algerino ha perseguito e persegue politiche di arabizzazione nell’educazione nazionale e nella politica che sono viste da alcuni berberi come svantaggiose e ingiuste. I gruppi berberi nella regione della Cabilia stanno pertanto ancora difendendo i propri diritti linguistici e culturali, e i disordini periodici sono stati alimentati dalla discriminazione e dalla negligenza ufficiali nei loro confronti. Le superpotenze occidentali stanno probabilmente ancora oggi cercando di destabilizzare l’Algeria proprio facendo leva sulle istanze autonomistiche dei berberi della Cabilia, che rischiano di fare la stessa fine dei Hmong del Vietnam e del Laos.
Anche i Tuareg sono una tribù berbera nomade che abita le sconfinate lande sahariane. Oggi la situazione di Tamanrasset è più tranquilla ma la zona dell’Hoggar appare ancora instabile. Storicamente, i Tuareg sono stati meno impegnati nelle pratiche religiose rispetto ai popoli arabi e le donne tuareg hanno sempre avuto maggiore libertà rispetto alle islamiche. Tuttavia, la comunità tuareg si sente ancora delusa dall’indipendenza algerina, e ha iniziato a vedere negli arabi una sostituzione dei colonizzatori francesi. Questa insoddisfazione ha portato alle ribellioni dei Tuareg in Mali e Niger. In Algeria questo conflitto ha contribuito ad aumentare la religiosità tra i Tuareg. La modernità è percepita da molti di loro come la distruzione del tessuto sociale. Anche i Tuareg in Algeria sono sempre più arabizzati. Il potenziale della loro radicalizzazione è tuttavia più basso nel sud dell’Algeria rispetto al Mali e al Niger: i Tuareg in Algeria sono infatti mediamente più ricchi di quelli degli altri due paesi, e questo sicuramente ha diminuito i rischi di una loro appartenenza ai movimenti radicali islamici.
Diversi gruppi nomadi nel sud della Libia e in Algeria (principalmente Tuareg e Tebu) alimentano infatti un movimento transfrontaliero attraverso le antiche vie carovaniere di transito, rendendo sempre vive le connessioni etniche. Questi gruppi hanno strutture di clan, che si estendono su gran parte del Maghreb e travalicano i confini internazionali. Spesso questi gruppi bypassano i punti di confine ufficiali per trasportare merci ad altre comunità, ripercorrendo le antiche vie carovaniere e sfuggendo ai controlli governativi.
Come aveva scritto Giampaolo Calchi Novati nell’aprile 2016[1], “[…] l’elemento più vivace di contestazione, e quasi di antitesi agli stati costituiti, è rappresentato dai nomadi o semi-nomadi, berberi ma non solo, che non accettano i confini e i principi di convivenza regolata propri di stati espressi da società, contadine o urbanizzate, che si fondano sulla stabilità e una giurisdizione teoricamente valida per tutti in un territorio definito e difeso come tale. La prova di forza del jihadismo, alleato agli autonomisti in loco, ha avuto il suo apice nella creazione nel 2012 dello Stato indipendente di Azawad nel Mali settentrionale, poi teatro, all’inizio del 2013, dell’Operazione Serval diretta dalla Francia. Fra gli stati saheliani, il Ciad si distingue per aver anticipato di venti – trent’anni l’ascesa al potere dell’élite musulmana del Nord a scapito della classe dirigente cristiana del Sud”.
Il governo algerino è inoltre il principale sostenitore della Repubblica araba democratica sahariana (SADR) e del suo braccio armato, il Fronte Polisario. Il gruppo ha sede nella provincia algerina di Tindouf dalla metà degli anni 1970. E questo tradizionalmente è un aspetto che rende difficili i rapporti tra Algeria e Marocco. Anche per queste ragioni il confine tra Marocco e Algeria resta un’area insicura e da evitare.
L’Algeria, il paese più esteso di tutta l’Africa, appare ancora oggi un enigma, un mistero culturale e politico. Assurge raramente agli onori delle cronache, pur essendo un paese chiave, una vera e propria cerniera territoriale tra mondo occidentale, Mediterraneo e Maghreb, un territorio strategico per i rifornimenti di gas e petrolio e per il loro sfruttamento. Questo mio personale diario algerino è fatto di memorie e di suggestioni, di dolori e fascinazioni, ripercorrendo territori fertili, rovine, città e deserti. Non ci sono eventi sensazionali, non ci sono notizie da sbattere in prima pagina ma solo una paziente ricerca sotto traccia: la storia dell’Algeria spesso sprofonda nelle viscere dei deserti o si nasconde tra montagne inaccessibili e tra le dune costiere dei suoi litorali. Il mio approccio è sempre lo stesso: parto dalla convinzione che il presente non derivi inevitabilmente dal passato, ma che il passato non cessa del tutto di essere presente.
Una visione di Mediterraneo allargato e un’istintiva simpatia per il popolo algerino, che ha resistito a 130 anni di colonialismo francese, alla guerra d’indipendenza e al terrorismo degli anni Novanta, accompagnata alla rilettura degli scritti di Frantz Fanon, mi hanno portato anche a considerare la Rivoluzione algerina come una lente attraverso la quale è ancora possibile leggere il mondo del Nord Africa ben oltre il conflitto con la Republique, evidenziando soprattutto le contraddizioni e le ingiustizie di una geografia economica ancora incentrata sul ruolo dell’Europa nel mondo. Il confine tra Parigi e Algeria è diventato così il catalizzatore delle istanze di lotta e di liberazione che riguardano l’intera Africa, un continente che ancora cerca di liberarsi da antichi e nuovi colonialismi.
Lo stesso Giampaolo Calchi Novati, nella sua prefazione del 1988 al suo Storia dell’Algeria indipendente , affermava che “[…] le sofferenze dell’Algeria stavano modificando i rapporti di forza nel mondo a favore della giustizia e della libertà aiutando i popoli arabi e africani ma anche noi in Europa a capire i problemi del colonialismo e dell’anticolonialismo. La scoperta di Fanon era parte di quella rivelazione. La stessa opposizione alla guerra della Francia migliore, degli intellettuali che firmavano i manifesti e dei soldati che disertavano, era di conforto per chi non voleva rassegnarsi all’idea che l’Europa dovesse identificarsi necessariamente con l’oppressione e l’arroganza razziale. Poi, a consacrare l’epopea, sarebbe venuta la fiction realistica o neorealistica di Gillo Pontecorvo, con quei volti giusti, le case, le passioni, che invano la Parigi ufficiale cercò di cancellare ignorando il film o proibendone la circolazione nei cinema francesi”[2]
Il destino ha riservato momenti di crudeltà per il popolo algerino. L’Europa festeggiava l’8 maggio 1945 la liberazione dall’occupazione nazifascista e a Setif i manifestanti venivano violentemente repressi dai colonialisti francesi: ne seguirono stragi feroci che fecero ripiombare l’Algeria nell’oscurantismo. Gli algerini avevano combattuto per la liberazione della Francia e dovettero nuovamente subire l’umiliazione del giogo coloniale. Dal popolo algerino dobbiamo imparare il valore della resilienza: esso ha saputo resistere ai torti del colonialismo, dell’autoritarismo militare e del fondamentalismo islamico. A questo popolo e alla sua cultura dedico questo volume e a tutti coloro che per amore di verità affrontano ancora la violenza e le insidie del mondo, credendo nel valore della testimonianza.
L’Algeria è purtroppo ancora oggi una sorta di buco nero nella mappa del Mediterraneo. Un luogo “non luogo”, che respinge e allo stesso tempo attira irresistibilmente. Che mette ancora paura per le evidenti ripercussioni psicologiche causate dai gravi eventi succedutosi nel corso della sua storia recente ma che al contempo genera curiosità per effetto della storia straordinaria, e soprattutto delle bellezze naturalistiche, archeologiche, storiche e antropologiche che può offrire ai suoi visitatori. L’Algeria, il paese più grande dell’Africa, è un territorio vastissimo e complesso, dove viaggiare è indubbiamente ancora complicato (i gruppi sono costantemente scortati – seppur in modo discreto – da un’unità della Polizia, che fa staffetta a ogni confine di provincia) ma dove si possono trovare così tanti spunti di interesse che della “blindatura” ci si dimentica presto. Anche perché i poliziotti al seguito sanno come rendersi gradevoli e rivelarsi alla lunga maestri di ospitalità. Visitare l’Algeria equivale a ripagarla dal lungo isolamento in cui è stata confinata per decenni.
Città romane perfettamente conservate, oasi con milioni di palme, i villaggi millenari della Pentapoli che ispirarono l’architetto Le Corbuisier e i deserti sahariani vi attendono. La capitale Algeri si affaccia sulla baia più bella del Mediterraneo e schiude ancora oggi i vicoli della sua misteriosa e trasandata Casbah, dove poco più di mezzo secolo fa iniziò la sanguinosa guerra combattuta dal popolo algerino per liberarsi dopo 132 anni dell’occupante francese.
L’Algeria era il granaio di Roma. Nell’età imperiale sono sorte città che tuttora lasciano senza fiato per la loro bellezza e la ricchezza dei reperti ritrovati. Città di estensioni ragguardevoli con tanto di archi, anfiteatri e terme, e dove è ancora possibile leggere perfettamente l’urbanistica del costruito. L’itinerario classico parte da Costantina, città sorprendente per gli eleganti palazzi e i ponti sospesi su una spettacolare fenditura naturale. I primi contatti con gli splendori della romanità si hanno a Tiddis, cittadina dapprima berbera e poi romana arroccata sulle pareti di una montagna, dove veniva coltivato il culto di Mitra e dove è ancora riconoscibile persino un bordello dell’epoca. A Setif sono invece conservati alcuni dei mosaici più grandi e più belli mai realizzati nelle regioni dell’Impero romano, primo fra tutti quello dedicato al Trionfo di Dioniso. Nella vicina Djemila (“la bella” in berbero) troviamo la romana Curculum fondata dall’imperatore Nerva, dove svettano l’arco di trionfo, l’anfiteatro, le terme e il foro. Ma il sito sicuramente più suggestivo e stupefacente è Timgad (Tamugadi), gioiello archeologico inserito in un contesto naturale di grande bellezza con le colline e monti dell’Aures a far da scenario. Una città romana perfettamente conservata con il suo castrum, le mura con le quattro porte, il foro con i templi, le terme, le fontane, i mercati e i templi del donatismo.
Proseguendo verso sud si susseguono continue sorprese. Si entra nella spettacolare gola dell’Abiod, un canyon che vide la colonizzazione romana e dove la Resistenza algerina tese molti agguati ai francesi. Il canyon conduce a una magnifica balconata che offre una vista stupenda sul villaggio berbero abbandonato di Ghoufi, le cui abitazioni sono scavate nella roccia della falesia. Dopo aver attraversato una zona di biancheggianti saline si raggiunge l’oasi di El Oued, antica capitale del Souf con le sue case bianche e le rose del deserto. Quindi, dopo la grande oasi di Ouargla, ecco apparire Touggourt con le singolari tombe dei re e un’oasi con oltre un milione di palme. Nella sua piazza del mercato c’è un monumento che ricorda la prima traversata transahariana realizzata nel 1922 da André Citroën con un mezzo a ruote e cingoli. Nella vicina Tamacine c’è una famosa moschea in adobe che resiste all’abbandono in un villaggio colpito da una grande inondazione e in seguito abbandonato.
Meta agognata verso il centro dell’Algeria è infine Ghardaia, la biancoceleste capitale della Pentapoli del Mzab, Patrimonio dell’Umanità Unesco la cui oasi sopravvive grazie a un ingegnoso sistema di distribuzione dell’acqua con 270.000 pozzi profondi 60 metri dai quali viene sollevata acqua 24 ore al giorno con l’opera di muli, asini e cammelli. La Pentapoli, abitata da fiere popolazioni berbere di religione ibadita sottoposte a un pressante processo di arabizzazione, è un piccolo mondo di tradizioni antiche che riporta alle tradizioni dell’Islam delle origini, dove le donne sono avvolte da un telo bianco che lascia scoperto solo un occhio. La visita di Melika, Beni Isguem, Bou Noura e El Atteuf (famosa quest’ultima perché il grande architetto Le Corbuisier vi trasse fonte di ispirazioni per i suoi rivoluzionari principi dell’architettura che rispetta la natura) offrono suggestioni storiche e architettoniche uniche.
Il Sahara algerino e il Tassili danno inoltre la possibilità di conoscere i numerosi aspetti del grande deserto. L’essenza e la bellezza del deserto, il contatto con i Tuareg e con le magnifiche pitture rupestri di questa Monument Valley sahariana vi lasceranno senza fiato.
Infine Algeri, la leggendaria Algeri con la sua baia considerata la più bella del Mediterraneo e la sua misteriosa Casbah dove si combatté la famosa battaglia per l’indipendenza del paese.
Alessandro Pellegatta, Dicembre 2018
[1] La debolezza degli stati saheliani di fronte alla sfida dello jihadismo, ISPI, 11 aprile 2016
[2] Giampaolo Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, Premessa all’edizione del 1998, Bompiani, Milano