L’Unione politica europea è storicamente stata sospinta dalla volontà e dalla visione di lungo periodo della Francia. L’Europa come federazione nasce dalla Rivoluzione e da Napoleone, dalla ragione e dall’esempio di un popolo. Schuman e il gradualismo di Monnet sono stati importantissimi contributi pratici e teorici all’implementazione di una formazione sociale che superasse i singoli stati europei in uno spirito di collaborazione.
Da qualche tempo la spinta propulsiva al progetto europeo della Francia sembra essere terminata. Una potenza che appare impaurita e politicamente incapace di reagire, che all’interno delle istituzioni europee non ha più il peso e l’autorevolezza di un tempo, e sullo scacchiere internazionale tenta di mantenere una posizione di prestigio attraverso un protagonismo spesso esagerato che la spinge in avventati interventi militari: Costa d’Avorio, Libia, e da ultimo la Siria per fare solo alcuni esempi.
I principali motivi della perdita di leadership europea della Francia sono ovviamente allo stesso tempo politici ed economici. A partire da Maastricht, progetto favorito dalla Francia di Mitterrand per contenere lo strapotere di una Germania appena riunificata, gli eventi sono cominciati a sfuggire al controllo delle classi dirigenti francesi. Già l’idea di controllare la Germania attraverso l’unione monetaria e l’istituzione di un’unica Banca centrale dell’eurozona, era piuttosto opinabile. Come è stato ampiamente dimostrato in questi anni in seno al board della BCE i paesi dell’ex area del marco hanno presto creato un blocco politicamente stabile e sufficientemente forte da dettare la linea (anche in fasi di crisi; anche se a capo dell’istituzione indipendente si trova un mediterraneo come Draghi). E la Germania (insieme ai paesi dell’area del marco) da controllato presto si è trasformato in controllore.
Il secondo autogol politico fu la vittoria del NO al referendum sulla ratifica della Costituzione europea. Sia Chirac, che la maggioranza dell’opposizione socialista dell’epoca erano favorevoli al trattato e si spesero per il SI, ma furono costretti a dover riconoscere un risultato inaspettato. Dopo la costatazione di questo scarso appeal verso le istituzioni europee da parte della società francese, i gaullisti così come la gauche non seppero ridare slancio e credibilità a progetti europei di una certa rilevanza.
Con lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, l’atteggiamento di subalternità nei confronti del “blocco del nord” divenne sfacciatamente evidente. Le risatine e le apparizioni tv del Presidente Sarkozy con Angela Merkel, erano diventate così frequenti da evidenziare quello che tentavano di nascondere: le debolezze strutturali dell’economia francese.
La Francia, da diversi anni, ha un livello di costo del lavoro per unità di prodotto troppo più alto rispetto proprio alla Germania, che l’ha notevolmente ridotto a partire dalle riforme Hartz IV dei primi anni duemila. In parte proprio questa politica di svalutazione del mercato interno tedesco (pacchetto Hartz) ha reso meno competitivi i prodotti francesi, per cui (stando alle ultime previsioni del FMI) il paese ormai da parecchio tempo registra un deficit strutturale in bilancia dei pagamenti che sembra derivare in gran parte da un deficit del conto delle partite correnti. Il 2013 è stato forse l’anno peggiore in termini assoluti, ma ci si attende (report su dati dell’FMI) che, in misura minore, il deficit rimanga pressoché costante fino ad oltre il 2020.
Per anni la Francia ha evitato di prendere di petto una questione spinosa come una riforma del mercato del lavoro, anche se bisogna notare come ultimamente sono stati fatti dei tentativi dall’esecutivo socialista, sia sul versante degli sgravi contributivi che attraverso la più completa “loi travail” in fase di approvazione – non senza le consuete difficoltà legate agli scioperi sindacali e studenteschi – proprio in questi giorni.
Durante questi ultimi anni i governi francesi si sono limitati ad ottenere rinvii su rinvii all’applicazione del tetto del 3% al rapporto deficit/Pil attraverso una sorta di tacito accordo che a livello comunitario suona più o meno come: io non metto in discussione le regole europee (firmate da tutti e bene ricordarlo) e l’intransigenza tedesca, ma voi mi permettete di non soffocare la mia economia lasciandomi sforare i parametri. Rinunciare ad una battaglia europea sulle regole di bilancio, sull’unione fiscale, sulle politiche monetarie, sugli investimenti a fronte di un occhio di riguardo verso i propri conti è il segno più macroscopico della subalternità della Francia, persa in provinciali atteggiamenti di difesa di interessi di breve periodo. Costretta ad una politica “alla giornata”, impaurita dai problemi interni e bloccata dalla mancanza di progettualità della sua leadership politica.
Il vertice dei partiti socialisti europei sul tema dell’immigrazione di qualche giorno fa a Parigi è stata l’ occasione per Hollande di rilanciare con nuovo vigore le proposte dei progressisti per un avanzamento dell’Unione: bilancio unico, più attenzione ad occupazione ed investimenti e meno al rigore sui conti. Purtroppo bisogna constatare almeno due problemi fondamentali in questo rinnovato slancio propositivo di livello europeo: avviene in maniera tardiva e poco convincente.
Misure straordinarie e non pianificate che sembrano sorreggersi soltanto sulla logica dell’emergenza. I congiunturali problemi dei migranti, del basso prezzo del petrolio e della sicurezza interna dovrebbero, infatti, fare addolcire per un attimo il rigorismo dei paesi del nord Europa (che è anche quello delle loro opinioni pubbliche) e far ripartire positivamente una fase di contrattazioni.
Dopo anni di acquiescenza non ci si poteva aspettare nulla di diverso. Chi continua a sperare in un cambio di passo farebbe meglio a rassegnarsi.
Ad ogni modo, la “loi travail”, che vuole garantire sgravi contribuitivi per le imprese, detassazione degli straordinari, maggiore flessibilità in uscita (limitazione del reintegro per motivi economici), indennità di licenziamento ridotta, e favorire la contrattazione decentrata in deroga al contratto nazionale; probabilmente riuscirà a mettere a posto i conti con l’estero della Francia, ma sempre proseguendo la strada suicida della svalutazione del lavoro dettata dalle politiche deflattive dei paesi a più alto livello di produttività. Per riacquistare competitività, infatti, è necessario che l’alta produttività del lavoro francese, venga sottratta alla remunerazione del lavoro attraverso una moderazione dei salari reali, a tutto vantaggio dei costi dell’impresa. Questi giorni di scioperi e manifestazioni intanto sembrano far vacillare la proposta dell’esecutivo socialista che seppur obbligata (all’interno di un sistema che non può contare sulla fluttuazione del cambio per proteggersi da shock esterni) rimane elettoralmente impopolare specie quando le presidenziali si fanno sempre più vicine.
In ultim’analisi la forza propulsiva e di visione della Francia in questi anni è venuta a mancare in modo clamoroso, cedendo il passo ad atteggiamenti di retroguardia se non addirittura provinciali. Bruxelles e Strasburgo sono saldamente sotto il controllo dell’ex area del marco e Parigi si è limitata a (in)seguire un’agenda che non è più capace di dettare solo per tentare di mantenere viva l’immagine della potenza centrale, fiera e indipendente.
L’astio nei confronti della Germania e della leadership che ha raggiunto all’interno di un sistema fatto a propria immagine e somiglianza, alla luce dell’incapacità di chi le avrebbe dovuto contrapporre altre visioni e altri progetti – in primo luogo i paesi che potevano vantare importanti rendite di posizione come la Francia – sembra così un atteggiamento ancora più miope e manicheo di quanto normalmente appaia.

UN COMMENTO

  1. I francesi hanno questa mentalità di sinistra che li sta uccidendo, del resto sono globalisti, terzo mondisti.

Comments are closed.