
Il 22 gennaio Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, annunciò il Quantitative Easing (Qe), cioè l’acquisto massiccio di titoli di stato da parte della BCE. Una misura straordinaria allo scopo di rilanciare l’economia dell’Eurozona immettendo liquidità nel sistema creditizio. L’obiettivo era quello di ridurre i tassi dei titoli di stato dell’Eurozona e di conseguenza (almeno nelle intenzioni) contrastare la deflazione, cioè il calo dei prezzi al consumo che si registra oggi in diversi paesi del Vecchio Continente, riesumando l’antica logica secondo cui l’inflazione sia direttamente proporzionale alla massa monetaria in circolazione.
Oggi, pur sorvolando sulle discutibili modalità e tempistiche con cui è stato attuato il piano, è possibile affermare con certezza che questo tentativo si sia rivelato un fallimento, nonostante la prematura celebrazione di Draghi come salvatore della Patria da parte di molti attori del mondo politico e finanziario.
Com’era ampiamente prevedibile e come dimostrato dai fatti, il bazooka di Draghi ha sparato a salve, ed i dati italiani ne sono una conferma. Dai recenti dati pubblicati dall’OCSE si evince che il Pil italiano nel secondo trimestre è cresciuto dello 0,2% su base congiunturale, contro lo 0,3% del primo trimestre. Un incremento del tutto insoddisfacente, considerando la fortunata combinazione di euro debole e prezzo del petrolio ai minimi, elementi favorevoli alla nostra manifattura e ai costi di produzione.
Nel frattempo si riporta ai minimi da 6 mesi il tasso ‘forward breakeven’, l’indicatore privilegiato dalla Bce per valutare le aspettative di inflazione1, che contribuisce ad attestare l’inutilità del QE di fronte alla deflazione. Anche per quanto riguarda il credito non ci sono cambiamenti positivi. Bankitalia ha comunicato che il mese di giugno ha visto un calo dell’1% su base annua dei prestiti delle banche al settore privato. In maggio il risultato era stato pari a -1,2%.
Come descritto da un recente paper firmato dal vice presidente della FED di St. Louis, Stephen D. Williamson, non ci sono evidenze empiriche che dimostrino che il QE possa dare impulso all’economia2, né tantomeno risollevare i consumi nel bel mezzo in una crisi di domanda qual è la nostra. In tempi non sospetti, i medesimi dubbi sorsero anche a Friedman e Galbraith, due pesi massimi della disciplina economica.
Un effetto secondario ma comunque significativo del QE sarebbe stato il deprezzamento dell’Euro rispetto al dollaro, che a detta di molti avrebbe arginato la crisi che imperversa soprattutto nei paesi del Sud d’Europa. Chi pensava che una svalutazione dell’Euro potesse avere effetti positivi sull’export, dovrà però fare i conti con la realtà dei fatti.
Innanzitutto, considerando l’Eurozona nel suo complesso, l’Euro non avrebbe ragione di svalutarsi dal momento che il saldo delle partite correnti è in ampio attivo; se però si scorporassero i dati della Germania da quelli del resto dell’area, si scoprirebbe che la prima esporta ormai più della stessa Cina, mentre molto meno entusiasmanti sono le performance degli altri Paesi dell’eurozona.
Detto ciò, il deprezzamento della moneta unica potrà portare benefici alle esportazioni solo verso i Paesi che non condividono la nostra valuta. Se ad esempio consideriamo il nostro Paese (ma analogo discorso varrebbe per Spagna, Grecia ecc), la maggior parte degli scambi commerciali avvengono con gli altri partner dell’Euro Zona, verso i quali una svalutazione dell’Euro non comporta alcun effetto (a differenza di quanto accadrebbe se a svalutare fosse una Lira). Come se non bastasse, dal momento che le nostre importazioni seguono con buona approssimazione l’andamento dei redditi, l’eventuale maggior export verso i Paesi extra europei provocherebbe un aumento delle importazioni, peggiorando quindi la bilancia dei pagamenti del sistema paese ed innescando una nuova crisi di debito estero come avvenne nel 2011.
Quello che Draghi ignora e che i fatti dimostrano, è che non basta introdurre denaro nel sistema per aumentare l’inflazione, ma è necessario che questo venga speso. Avendo le banche tenuto ben chiuso il rubinetto del credito, l’unica soluzione che rimane ad uno Stato per essere sicuro che l’immissione di liquidità arrivi a destinazione è spendere lui stesso quel denaro. Tuttavia, con i dogmi dell’austerity, del pareggio di bilancio, del fiscal compact e così via, questo rimane un miraggio, così come la fuga dalla stagnazione che sta opprimendo l’Eurozona.
Luca Caselli
1. https://it.reuters.com/article/itEuroRpt/idITL5N10Z1EI20150824
2. https://research.stlouisfed.org/wp/2015/2015-015.pdf