“Avete sentito tutti cosa ha detto il presidente Barack Obama. Stiamo valutando se prolungare di un altro anno la nostra presenza in Afghanistan, come ci è stato chiesto dall’amministrazione americana. Se l’impegno americano in Afghanistan prosegue, penso sia giusto anche da parte nostra ci sia un impegno”. Con queste parole Matteo Renzi, durante il discorso tenuto all’università di Venezia nella giornata di giovedì annuncia il proseguo della missione italiana in Afghanistan.
Parole che fanno il paio con quelle di Obama, che 3 giorni fa ha dichiarato che “l’impegno degli Stati Uniti verso l’Afghanistan e la gente afghana va avanti,” aggiungendo che “5.500 truppe resteranno nelle basi Usa del Paese”.
Che l’Afghanistan, per l’amministrazione Obama possa risultare un pantano a tutti gli effetti e la fotografia di una politica decisamente inefficace è sotto gli occhi di tutti, soprattutto sotto gli occhi dell’opinione pubblica americana che ultimamente ha evidenziato un non più tanto nascosto malessere verso la missione afghana. Ma, nonostante queste premesse, gli Usa non possono permettersi un ritiro dal paese in questione. Per quale motivo?
Perché il mantenimento di un’instabilità politica in Afghanistan, per quanto dispendiosa per le casse statunitensi, è di vitale importanza per le politiche di Washington.
Nel 2004, Lynn Pascoe (vice segretario del dipartimento di stato americano per l’Europa e l’Eurasia), ricordava che gli obiettivi della missione in Afghanistan erano la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e lo sviluppo di un libero mercato energetico aperto a investitori stranieri. Che tradotto, sanciva la metamorfosi dall’originaria guerra al terrorismo alle ben nota guerra economica.
In questa fase, la missione afghana si può inserire in un terzo step, che possiamo denominare “guerra strategica”. Gli Stati Uniti non possono permettersi una “Saigon asiatica” in Afghanistan, stato che collega le due regioni che rappresentano passato e futuro dell’interesse americano: Medio-Oriente e Asia.
Un disinteresse verso Kabul potrebbe accelerare il processo di inserimento sino-russo nel paese, spostando inevitabilmente gli interessi dell’Afganistan verso l’Asia.
Un governo afghano indipendente, al netto dei risultati a dir poco insufficienti ottenuti dalle politiche Usa, rischierebbe di incontrarsi con gli interessi (specialmente russi) di creazione di un “Grande spazio Euroasiatico”, unito geograficamente con l’inserimento della casella afghana nel puzzle continentale.
Quindi, un mantenimento di un avamposto in Eurasia e di uno spazio aereo, anche se dispendioso, è fondamentale per la politica americana proiettata dagli enormi interessi nella regione asiatica.
Per un’Italia che si trova all’interno del sistema Nato diventa quindi impossibile smarcarsi dalla missione in Afghanistan.
Solo una presa di coscienza politica, che comporterebbe scelte diplomatiche certamente coraggiose, può portare il nostro paese a concentrarsi su scenari realmente vitali per il nostro interesse nazionale: il faro della nostra politica estera deve fermarsi sul Mediterraneo, nostro “giardino di casa” e regione nella quale l’Italia deve tornare a svolgere un ruolo di primaria importanza.
Lorenzo Zacchi