Tutti quelli che lo hanno conosciuto – e questa è stata una fortuna – lo descrivono allo stesso modo. Un bell’uomo, elegante, dal portamento austero, dai modi squisiti, un carattere ferreo, e una mano delicata. Ma, soprattutto, come il caposcuola della chirurgia italiana o, comunque, una delle eccellenze nel suo campo, italiano e internazionale. Pietro Valdoni, però, è di più. Ben di più. Per gli appassionati di storia del nostro strano Paese, è l’uomo che, con un intervento chirurgico, ha evitato che lo Stivale cadesse nel baratro, a tre soli anni dalla conclusione del Secondo conflitto mondiale. Era l’anno 1948.
Quest’orgoglio tutto nostrano nasce a Trieste nel 1900, in un clima di netta dominazione asburgica, così rigorosa da influenzarne anche tutta la vita, la professione e l’insegnamento. Subito riesce a imporsi nell’ambito medico, e a 34 anni esegue, per la prima volta, una embolectomia polmonare, cioè la rimozione di un embolo occlusivo dell’arteria, fino ad allora incurabile e mortale.
Questo intervento, e tanti altri della stessa difficoltà e complessità (vedi quello compiuto nel 1939 di legatura del dotto di Botallo), fanno il giro del mondo ma, soprattutto, gli valgono la cattedra universitaria a Cagliari, Modena, Bologna, Firenze e Roma. In tutti questi luoghi, dimostra la sua immensa bontà d’animo e grande amore per gli alunni e gli allievi, ai quali insegnava davvero tutto affinché un giorno potessero essere più bravi di lui (“Nessuno può darmi ombra; solo i miei allievi potranno superarmi”, ripeteva come una litania). Valdoni, insomma, ha fatto suo il detto di Leonardo da Vinci, secondo cui “è tristo quel discepolo che non avanza il suo maestro”.
La capitale, allora, si diceva. E non immaginava neanche che dopo soli due anni dall’arrivo nella città eterna, gli sarebbe capitato qualcosa di incredibile. Un giorno, magari per lui ordinario, gli portano d’urgenza Palmiro Togliatti, il leader del Partito comunista italiano – leggasi, il più forte partito rosso del vecchio Continente – colpito da una serie di colpi di pistola da un fanatico. Tutta l’Italia è in subbuglio, pronta a una guerra civile nonostante le rassicurazioni del Segretario nazionale. Valdoni lo opera con successo, acquistando così ancora più fama e fortuna, e diventando di diritto l’uomo, il chirurgo, che ha salvato il Paese. Un ruolo, quello di salvatore della Patria, da condividere con Gino Bartali, che nel luglio di quell’anno, il 1948, trionfa al Tour de France.
Togliatti, però, non è stata l’unica persona eccellente a finire nelle mani sicure del chirurgo triestino. Opera alla prostata Paolo VI, e ancora prima, diagnostica, ma senza poter far nulla, un tumore a Giovanni XXIII. Cura, quasi sempre con successo, migliaia di malati anonimi, che per ringraziarlo gli testimoniano un affetto smisurato quando gli arriva proprio quella fatale malattia che aveva sconfitto in tante altre persone.
Eccola, dunque, la famosa legge del contrappasso. Quella che non lascia scampo. Valdoni è aggredito proprio da un cancro ai polmoni, che diagnostica da solo e per il quale, sempre da solo, predispone un preciso piano di cura. Che, però, non riesce a salvarlo, facendolo morire nel 1976.
In realtà, però, questo padre della chirurgia italiana non è morto del tutto, perché non potrebbe (non sentite riecheggiare le parole di Orazio “exegi monumentum aere perennius?”) mai farlo. D’altronde, come può essere dimenticato un uomo che ha costruito una scuola di eccellenza nella ricerca e nella interventistica? Come si fa a mettere da parte una persona che ha lasciato in eredità una disciplina sistematica, un rigore professionale e una etica incondizionata?
Perché per certi uomini tutto quello che fanno in vita, riecheggia nell’eternità.