Sarà il campionato più ricco d’Europa, ma la Premier League inglese sta attraversando un periodo d’impasse dopo i fasti dei primi anni Duemila. I soldi spesi a profusione in sede di mercato da sceicchi e paperoni, gli stadi che sembrano sempre di più dei centri commerciali, i prezzi troppo elevati che penalizzano sempre di più la working class a discapito dei ceti medi e dei soliti giapponesi muniti di macchina fotografica, hanno un po’ offuscato nell’immaginario popolare quello che è considerato, assieme al rugby, lo sport popolare per eccellenza. Chiaro, il fascino della Premier e del calcio inglese resiste e resisterà ancora a lungo, però il successo che sta riscuotendo nell’opinione pubblica britannica il “miracolo Leicester”, trascinato dai gol del bomber proletario Jamie Vardy, sta forse ad indicare che i calciofili inglesi hanno un bisogno disperato di favole e miracoli. Del resto, nella patria della democrazia parlamentare, è normale che una formula come quella della Premier League anni Novanta-Duemila, tutta incentrata sul monopolio di quattro/cinque big (negli ultimi cinque anni Manchester United, Arsenal, Manchester City, Chelsea), sia entrata un pochino in crisi non appena è diminuita la competitività inglese delle squadre di Sua Maestà. Nella vecchia First Division, infatti, l’equilibrio e l’egualitarismo erano un dogma: favole come quelle dell’Ipswich Town di Alf Ramsey, che in quattro anni passò dalla terza serie fino al titolo nel 1962 o come quella più celebre del Nottingham Forest di Brian Clough, club che vanta più Coppe dei Campioni (due) che campionati vinti (uno nel 1977/78), sono casi quasi impossibili da concepire in paesi meno egualitari e dalle tradizioni più autoritarie come quelli del Continente.

Ecco perché, la favola del Leicester di Claudio Ranieri, club che lo scorso anno si salvò per il rotto della cuffia e che ora guarda tutti dall’alto verso il basso, profumi d’antico e allo stesso tempo, si riveli quasi un rivelatore dell’incertezza in cui si trova il campionato inglese. I risultati, tutt’altro che esaltanti, maturati dalle squadre di Sua Maestà negli ultimi anni nelle competizioni europee hanno gettato seri dubbi sull’effettiva bontà del prodotto Premier League. L’unica squadra che ci sembra davvero forte e attrezzata, il Chelsea, sta attraversando una fortissima crisi d’identità e (lo testimoniano gli ultimi asfittici mercati) è molto probabile che  il paperone Abramovich stia facendo più di un pensierino per disfarsi del suo costoso giocattolo. Per il resto abbonda la mediocrità e l’incertezza: le due di Manchester spendono e spandono ma in maniera scriteriata, forse l’idea di affidare la panchina a due top-manager come Guardiola e Mourinho, va ricollegata proprio con l’intento di ottimizzare i profitti; del resto gli inglesi non amano gli sperperi, sono un popolo pragmatico e realista e non è un caso che in ambito calcistico abbiano trapiantato dall’industria la figura del manager, figura volta appunto ad ottimizzare al massimo le risorse della propria squadra/azienda! Il glorioso Liverpool potrebbe tornare agli antichi fasti sotto la guida di un capopopolo carismatico come Jürgen Klopp (simile per il suo carattere istrionico al grande Shankly), ma per ora deve accontentarsi di tanta mediocrità ed incertezza. L’Arsenal è sempre… l’Arsenal, l’eterna incompiuta, la squadra che a mio avviso rappresenta al meglio l’immagine tronfia e arrogante della nuova Premier dei magnati in antitesi a quella nazional-popolare dell’antica First Division. Infine abbiamo le cosiddette outsiders, quelle squadre di seconda fascia che hanno approfittato del periodo non felice delle big per issarsi in prima classe. Il Tottenham di Pochettino è una squadra molto organizzata, con qualche giocatore interessante (Eriksen, Kane) ma nel complesso non trascendentale. Un bel discorsetto infine lo merita la capolista Leicester, squadra che terribilmente ricorda il miracolo Hellas Verona targato 1984/85. Anche allora, il calcio italiano stava attraversando complessivamente una fase di transizione, tra il clima “autarchia & Anni di Piombo” degli Anni Settanta e quello da “NBA del calcio & Milano da Bere”  della seconda metà degli anni Ottanta. In quell’anno, infatti, il Verona riuscì a restare in testa dalla prima all’ultima giornata profittando di un momento di assestamento delle big. La grande Juventus di Platini snobbò apposta il campionato per dedicare anima e corpo alla conquista della Coppa Campioni (cosa che avverrà nella nefasta serata all’Heysel), la pur forte Roma era in una fase di assestamento dopo l’addio di Liedholm e di Falcão, il Milan stava vivendo uno dei periodi più bui della sua storia sotto Giussy Farina (Berlusconi arriverà l’anno dopo), l’Inter era l’Arsenal degli Anni Ottanta oppure… sempre la solita Inter a seconda dei punti di vista! L’unica differenza tra quella Serie A e questa Premier League sta nella qualità generale dei campioni: nell’anno dello storico scudetto del Verona di Bagnoli  l’Udinese aveva in rosa Zico, la Fiorentina Socrates, la Sampdoria quel Trevor Francis che, dopo il miracolo Forest, decise di approdare nell’NBA del calcio, cioè la Serie A, quando oggi sarebbe finito ad ammuffire sulla panchina del Real Madrid o del Paris Saint Germain! Oggi invece i club di Premier spendono milioni di Sterline, spesso su suggerimenti tutt’altro che disinteressati di procuratori e faccendieri, per panchinari e scarti di presunte big; il caso paradossale di Mangala, un palo della luce spacciato per centrale difensivo, pagato dal City 40 milioni di Euro che trent’anni fa avrebbe fatto fatica a giocare nella nostra Serie B è troppo eclatante per essere omesso! La differenza tra questa Premier League e quella Serie A però è anche dovuta dalla diversa piega che ha subito il calcio dopo la caduta del Muro di Berlino: se negli Anni Ottanta, seguendo il modello di sviluppo socialdemocratico keynesiano, la ricchezza ed i talenti erano equamente distribuite all’interno dei rispettivi campionati nazionali, negli ultimi vent’anni si è fermata una vera e propria piramide con poche squadre che hanno tutto e molte che hanno poco. In più, la fine del calcio di strada e il trionfo di un agonismo esasperato che riflette il carattere individualista e iper-competitivo della nostra società, hanno portato ad una drastica riduzione di talenti naturali. Ecco perché l’Inghilterra, se vuole tornare agli antichi fasti, deve smetterla di sperperare soldi a vanvera e tornare a produrre talenti. In questo senso, le Academy (speriamo solo che i nostri giornalai idioti quanto scioccamente esterofili non si mettano a chiamare i prodotti dei vivai nostrani “accademici” dopo la grande fortuna incontrata dal termine “canterano”!), si sono mosse bene nell’’ultimo lustro e ora la Nazionale di Roy Hodgson può vantare alcuni talenti molto interessanti (Kane, Wilshere, Sterling, Stones) che potrebbero rappresentare un ottimo trampolino di lancio per il futuro, malgrado i difetti d’impostazione del movimento calcistico britannico (ritmi monotonamente sempre alti, calendario troppo fitto) rimangano sempre atavici e difficilmente superabili.