
Tra le conseguenze più prevedibili della vittoria del No, con questo scarto, al referendum costituzionale, c’era la nascita di un nuovo governo sostenuto da una incerta maggioranza parlamentare. Poiché però la bocciatura è stata determinata statisticamente più per ragioni politiche inerenti all’azione di governo che non per una consapevole riflessione sulle possibili conseguenze che avrebbe apportato, molti suoi elettori sono rimasti fortemente delusi da questo abbastanza prevedibile esito della votazione; ovviamente tra le lamentele tipiche torna in auge il tormentone del “governo non eletto”, ma c’è un fondo di verità?
Ormai grazie alle spiegazioni dei giuristi ci è noto il famoso art. 92 della Costituzione (ricordiamo: comunque non era sottoposto a modifica da parte della riforma oggetto di referendum), secondo il quale è il Presidente della Repubblica a nominare il Presidente del Consiglio, cioè appunto il Capo del Governo; dall’altra parte si lamenta che questa operazione abbia espropriato i cittadini della loro sovranità espressa tramite il voto referendario. Ora se è indubbio che ci sia stato questo moto di protesta nel voto è altrettanto indubbio che i risultati tengono poco conto delle motivazioni, il Capo di Stato non può decidere sulla base di sondaggi elettorali, ma di dati concreti.
Quello che bisogna tenere conto qui è di una importantissima differenza, vale a dire il rapporto tra la Costituzione formale, cioè il testo scritto, e quella materiale, cioè la sua applicazione consuetudinaria. In merito a quest’ultimo punto, in particolar modo, abbiamo assistito a partire dal primo governo Berlusconi a una distorsione nella nomina del Presidente del Consiglio: anche grazie all’avvento del bipolarismo è stato ben più facile individuare uno schieramento vincente con un leader di coalizione che avrebbe poi verosimilmente assunto la carica di guida del Governo (Berlusconi e Prodi). È indubbio anche che 20 anni non siano pochi e sembra che gli italiani si siano affezionati a questo sistema, forse per poter scaricare speranze e responsabilità su persone determinate, e fu proprio il terzo governo Berlusconi, nel 2005, ad emanare la legge che invitava il Presidente della Repubblica a tenere conto del ruolo di leader della campagna elettorale al momento della scelta della persona da nominare.
Potremmo sintetizzare la disputa tra “formalisti e materialisti”: i primi restano molto attaccati al mero dettato costituzionale, i secondi sono invece molto influenzati dalla prassi recente. È difficile dire chi dei due abbia ragione, perché se sicuramente il punto di vista dei primi è corretto, i secondi constatano lo scarto tra i programmi delle liste elettorali e le scelte di governo; sbagliano però a parlare di “governi non eletti”, a maggior ragione se sanno come si forma e quindi dell’errore che stanno commettendo: anche perché l’elezione della carica comporterebbe maggiori poteri e tendenzialmente la non rimovibilità fino a fine mandato. È d’altronde legittimo però pensare che sia un modo per approfittare della situazione per ricercare lo status quo, in modo da mantenere anche i rapporti internazionali soprattutto in Europa, se non proprio attuare tutte quelle riforme impopolari iniziate col governo Monti.
Sarebbe però il caso di fare una accurata riflessione su ciò, perché se è vero che il dato formale consente questi cambi di governo, l’insofferenza che ciò provoca nel corpo elettorale, la frustrazione per l’idea di non essere ascoltati, che ci sia dietro una classe politica che fa lo gnorri e continua, forse anche peggio di prima (Alfano spostato agli Esteri e Fedeli all’Istruzione), crea un’ondata di malcontento che poi non si può sapere che ripercussioni abbia.
Nel merito di questo sentimento si potrebbe pensare ad una revisione della forma di governo (appena dopo aver bocciato proprio una riforma costituzionale!) che se non debba passare alla forma presidenziale, tipica americana, o semi presidenziale, tipica francese, almeno riveda un ruolo più marcato per il Presidente del Consiglio, perché ci sia davvero un nesso tra il leader vincente e il Capo del Governo. Molti degli attuali formalisti sono effettivamente più propensi a mantenere questo status, decisamente utopistico, ma forse non si considera l’instabilità di governo come un problema.
Un paradosso finale in rapporto al referendum: chi ha votato Sì oggi sostiene maggiormente il governo Gentiloni (forse perché quasi fotocopia del precedente), in continuità con un sistema che si cercava di cambiare; chi ha votato No e si voleva illudere di tornare subito alle urne oggi rimane tanto più deluso. Chi ha votato Sì sembra sentirsi rassicurato dal procedimento di nomina (art. 92 Cost.), chi ha votato No effettivamente sembra voler riformare la Costituzione sulla prassi.