Previsioni rispettate. Nicola Zingaretti ha stravinto le primarie ed è stato incoronato nuovo segretario del Partito democratico. Affluenza oltre il milione e settecentomila votanti e quasi il 70% per il governatore del Lazio, che ha raccolto oltre un milione di preferenze, ben al di sopra della maggioranza necessaria del 50% più uno.
Il dato relativo alla partecipazione, ricalca quello del 2017, le ultime primarie vinte da Matteo Renzi con il 69% ed 1 milione e 850mila votanti. Il fratello del “commissario Montalbano” è il settimo segretario del Pd, nei suoi dodici anni di vita. Due, invece, sono stati i “reggenti” (Epifani e Martina).
Numeri ben lontani da quelli delle primarie del debutto (era il 2007) con oltre 3 milioni e mezzo di votanti e una percentuale di oltre il 75% per Walter Veltroni. Saldo negativo anche rispetto al 2013, l’anno dell’ascesa renziana: 2 milioni e 800mila votanti e 67,5% per il neo segretario.
Dem e gazzettieri tifosi parlano di “straordinaria partecipazione popolare”, fingendo di dimenticare non solo il passato ma anche il carattere “aperto” della consultazione che ne impedisce la conversione in consenso elettorale. Per votare alle primarie, infatti, basta avere almeno 16 anni, essere cittadino italiano o comunitario (solo se residente in Italia) o anche extracomunitario con regolare permesso di soggiorno. Se si è iscritti al Pd, per votare occorre esibire documento di identità, tessera del partito o copia della ricevuta di pagamento per avere la tessera. I non iscritti devono versare anche il contributo minimo previsto di 2 euro.
“Io non mi intendo capo, ma leader di una comunità in campo per cambiare la storia della democrazia italiana” e “il Pd sarà unità e ancora unità, cambiamento e ancora cambiamento”. Queste le prime parole del neo segretario, stipendiato dalla politica fin dal 1992 (con l’elezione al Consiglio Comunale di Roma) e non in possesso di una laurea.
Sarà interessante leggere e sapere cosa diranno a tal proposito i tanti appiccicatori di etichette di “nullafacente” ed “analfabeta” quando si tratta di Di Maio o di altri non appartenenti alla loro stessa “parrocchia”.
Anche se siamo certi che il curriculum non conterà più di tanto per il nuovo leader non capo (parole sue) sostenuto da Roberto Benigni, Paolo Virzì, Nanni Moretti, Francesco Guccini, Renzo Arbore e Stefania Sandrelli.
Vip da richiamo per i tanti con la puzza sotto il naso che sognano il ritorno del Partito democratico all’età aurea del pre-renzismo, quando ancora era viva l’illusione di trovarsi al cospetto di una forza politica di sinistra. Quella stagione in cui, per capirci meglio, i dem hanno nell’ordine: permesso l’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio (leggasi austerità) all’interno della nostra Costituzione, varato manovre lacrime e sangue spacciate come necessarie perché “ce lo chiedeva l’Europa”, distrutto il più avanzato sistema di welfare mai esistito in Occidente per compiacere i mercati, chiuso più di un occhio di fronte alle scalate bancarie da parte di famelici avventurieri, ceduto ai ricatti di manager di aziende beneficiarie di cospicui contributi pubblici, sfasciato l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, falciato il mondo della Scuola e della Sanità e privato della pensione migliaia di cittadini con la scellerata Legge Fornero.
Un’epoca di benessere e di illuminate riforme, non c’è che dire, distrutta da Matteo Renzi il cattivone, dipinto quasi come un alieno piombato per caso e all’improvviso nel dorato mondo piddino per guastare la festa e rovinare il fidanzamento con l’elettorato.
Quel Renzi di cui Nicola Zingaretti (sostenitore del nefasto Jobs Act e della riforma costituzionale bocciata dagli italiani con il voto referendario), rappresenta una sorta di clone solo mediaticamente più incisivo e pompato, rispetto agli sfidanti-sconfitti Maurizio Martina e Roberto Giachetti.