Si presume che in presenza di una festività, vi sia anche il relativo festeggiamento. Chiediamo scusa per la ripetizione, cacofonica, ma trattasi delle ultime due ricorrenze laiche che il nostro calendario prevede: 25 aprile, quale festa della liberazione, e primo maggio, festa internazionale dei lavoratori.
La nostra riflessione su questa giornata e quel che è diventata, parte dalla rilettura di alcune righe di quel rettore che lanciò il celebre appello agli studenti dell’Università di Padova, nel 1943, per resistere al fascismo.
“La via che va dalla scuola all’officina, dai laboratori scientifici alla zolla arata e seminata, è oggi certamente assai più larga e diritta che prima non fosse; per quella via giungono di continuo i sussidi della scienza indagatrice e creatrice alle mani dell’operaio e del contadino; ma quelle mani non si tendono ancora abbastanza né si stringono ancora in quel vincolo solidale che nasce dal senso fraterno di una comune necessità.
C’è ancora da costituire nel mondo la vera e grande e umana parentela che renderà più sicura quell’altra che si estende pei rami delle discendenze e delle affinità. La società moderna che apparisce così enormemente complicata rispetto all’antica è invece – non vi sembri eresia – enormemente semplificata nella sua attività spirituale.
Questo miracolo di chiarificazione e semplificazione ha operato un fattore di prodigioso potere: il lavoro. Il lavoro c’è sempre stato nel mondo, anzi la fatica, una fatale dannazione. Ma oggi il lavoro ha sollevato la schiena, ha liberato i suoi polsi, ha potuto alzare la testa e guardare attorno e guardare in su; e lo schiavo di una volta ha potuto anche gettare le catene che avvincevano per secoli l’anima e l’intelligenza sua.
Non solo una moltitudine di coscienze è entrata nella storia a chiedere luce e vita a dare luce e vita. Oggi da ogni parte si guarda al mondo del lavoro, al regno atteso della giustizia. Tutti si protendono verso questo lavoro per uscirne purificati. E a tutti verrà bene, allo Stato è all’Individuo: allo Stato che potrà veramente costituire e rappresentare la unità politica e sociale dei suoi liberi cittadini; all’individuo che potrà finalmente ritrovare in se stesso l’unica fonte del proprio indistruttibile valore”.
La citazione meritava di essere riportata integralmente. Concetto Marchesi, Rettore dell’Università di Padova, tra i massimi dirigenti comunisti dell’epoca, clandestinamente, e nel dopoguerra, aveva questa visione del lavoro. Sembra di parlare di secoli fa, e oltretutto, è un personaggio con diverse ombre, tra le quali, l’implicazione nella morte di Giovanni Gentile.
Eppure, la società che rappresentava il mondo del lavoro, quello che Pasolini definiva “dei campi, delle officine e dei cantieri”, aveva questa visione del mondo.
Settantadue anni dopo, sembra tutto perduto. Non solo la schiavitù e le catene sono tornate, sotto ben altre spoglie, ma è il lavoro stesso ad essere sparito. C’è da chiedersi a cosa servano i boicottaggi lanciati dalla CGIL, il più importante sindacato italiano, invitanti al non andare in futuro a fare acquisti nei negozi che osservano apertura il primo maggio. Sarebbe questo il problema del mercato del lavoro italiano?
Le aperture selvagge, sono state acconsentite in Italia da una serie di governi, per arrivare al 2011 con la sferzata finale. Nessun altro paese europeo tiene i suoi negozi aperti di domenica, di festa, senza osservare regolamenti ben precisi. La CGIL sembra aver perso il passo dei tempi.
C’è da chiedersi inoltre dove siano finiti tutti coloro che dovevano difenderci dalle bordate liberiste che ci hanno portato alla distruzione del mondo del lavoro italiano. Perché nessuno si sia mai opposto a tanti sfaceli. Poiché, è pur vero, nell’ultimo referendum ha vinto la costituzione. Non certo però per dei nuovi padri costituenti che abbiano voluto ricostruire il paese, ma solamente poiché la popolazione, quando è chiamata alle urne, quelle poche volte concesse, boccia ogni politica messa in atto da questi governi non legittimati.
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Ripartire dall’articolo 1 della Costituzione significa non solo riprendere in mano lo Statuto dei Lavoratori e reintrodurre con urgenza l’articolo 18, cancellando la politica dei licenziamenti indiscriminati. Vuol dire cancellare le forme di precariato e caporalato, premiare la meritocrazia e la ricerca, l’eccellenza e la sana competizione. Vuol dire intervenire sulle fasce deboli, tentando di arginare la forbice sociale tra ricchi e poveri.
Lavoro, per chi manifesterà oggi, dovrebbe voler dire garanzie per il futuro: casa, famiglia, figli, per una Nazione sana e proiettata nel futuro. Non può esistere un 53% di disoccupazione giovanile, poiché quelle persone, private della loro possibilità di offrire il loro contributo alla società, o si annulleranno, o emigreranno, lasciando un vuoto colmato da migranti, coinvolti nel nostro Paese da persone senza scrupoli.
Tanti dovrebbero capire che non serve l’ennesimo partito che si è scisso dal principale accusandolo delle peggiori nefandezze, poiché se si è agito con esso fino al giorno prima, si è parti integranti dei danni che affliggono questo nostro sventurato Paese.
Possiamo scegliere di vivere e consumare l’ultima parte di civiltà che ci è stata consegnata dai padri, o di cancellarla del tutto, in nome del mercato. O ancora peggio, dei nostri capricci edonistici.
Buon primo maggio ad ogni lavoratore e lavoratrice. Che la festa riprenda, tuttavia, quando il lavoro tornerà ad essere davvero il centro della nostra visione.
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