Il tifo politico o ideologico è cosa ben diversa dall’analisi dei fatti, che dovrebbe sempre poggiare su una “fotografia” senza filtri della realtà. L’abbiamo scritto più volte su questa testata, senza presunzione o ambizioni da pulpito. Quanto abbiamo letto in queste settimane sull’Etiopia, ci induce a proseguire per la nostra strada con ancora maggiore convinzione.

Da buoni pignoli quali siamo, rivolgiamo subito una domanda a quelli “autorevoli” e “bene informati”: ad Addis Abeba, dopo la caduta, come vanno le cose? Il buon Getachew Reda, portavoce del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf), ha provveduto già ad aggiornarvi o credete ancora alla celebre mucca Carolina? E Jeffrey Feltman, inviato speciale degli Usa per il Corno d’Africa, che dice?

La fantomatica presa della capitale da parte delle milizie del Tplf, data più volte per imminente, non c’è stata. I tigrini, vezzeggiati sia dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America che dalla sinistra più o meno radicale, dopo aver assunto il controllo di Dessie e Kombolcha, hanno dovuto fare i conti con l’ostracismo della popolazione e con i propri limiti militari e strategici.

Chi dava già per fatto il taglio dei collegamenti tra Addis Abeba e Gibuti, porto strategico sul Mar Rosso che garantisce all’Etiopia l’accesso ai mercati internazionali, si è svegliato tutto sudato in una realtà ben diversa rispetto a quella dei suoi sogni di gloria notturni. Peggio ancora è andata a chi si è esaltato ascoltando i proclami di Jaal Maroo, comandante dell’Oromo liberation army (Ola) – formazione armata alleata del Fronte popolare di liberazione del Tigray. Le sue truppe, annunciate “a soli 40 chilometri” da Addis Abeba già oltre dieci giorni fa, fino a questo momento non hanno espugnato proprio niente.

La verità, che piaccia o meno a certi “pacifinti”, è che il Tplf ha lasciato un ricordo molto negativo nella capitale etiope, dopo aver detenuto il potere con durezza e arroganza per quasi 30 anni con il primo ministro Meles Zenawi. Quello che quasi nessuno ha il coraggio di dire, è che durante le manifestazioni popolari ad Addis Abeba, sono stati esposti striscioni e intonati slogan in favore dell’unità dell’Etiopia e contro l’offensiva del Tplf e dei suoi nuovi alleati dell’Esercito di liberazione Oromo.

Il premier Abiy Ahmed (per metà di etnia amhara, per l’altra metà di etnia oromo), insignito nel 2019 del premio Nobel per la Pace per aver siglato una storica tregua con l’Eritrea, paga mediaticamente anche la colpa di essersi smarcato a suo tempo dal TPLF. Un ostacolo per chi ha tratto vantaggi dalla tensione continua tra Etiopia ed Eritrea.

Sfuggito più volte agli attentati, Abiy sta rintuzzando da tempo con fermezza le provocazioni del TPLF, in primis gli attacchi all’esercito federale che è di istanza nella zona che confina con l’Eritrea. Fiutata la trappola, Etiopia ed Eritrea stanno cooperando e collaborando lealmente per arginare i miliziani tigrini, inseriti nella lista dei gruppi terroristici dal governo etiope.

Gli Stati Uniti pressano affinché Abiy si decida a trattare con il TPLF, gran parte della stampa diffonde notizie a senso unico e tanti presunti osservatori indipendenti vedono milizie ovunque e suonano la fanfara. Intanto i giorni passano e Addis Abeba non è caduta.