Oggi guardando alla Regione Autonoma del Tibet si aprono scenari di sviluppo sociale ed economico: sostegno all’istruzione, alla sanità pubblica e all’occupazione, progetti di infrastrutture, nuove strade e ferrovie, valorizzazione di beni culturali, tutela delle molte minoranze etniche… Stime reali ci consegnano, rispetto agli anni ultimi decenni del ‘900, l’immagine di un paese in grande decollo con molte opportunità, un PIL in aumento e le diseguaglianze in recessione.

Ma, per non accontentarci dei risultati attuali e per conoscere da dove nascono sia le propagande che i problemi, è bene approfondire come stavano le cose fino a qualche decennio fa.  Vale quindi la pena leggere “Tibet libero? Rapporti sociali e ideologia nel Paese del lamaismo reale” dello studioso lussemburghese Albert Ettinger. Un libro che, senza mezzi termini definito “revisionista” dalla vulgata dell’opinione pubblica occidentale, specie francese, si basa invece sulle esperienze e gli scritti di testimoni che hanno vissuto il contesto tibetano nella prima metà del XX secolo. In particolare le testimonianze di Alexandra David Neel[i], prima donna europea a esplorare il Tibet (dal 1924) raccontate in “Viaggio di una parigina a Lhassa”, e di Heinrich Harrer[ii], alpinista e atleta olimpico nel 1939, nazista, tibetologo negazionista (così definito da Ettinger) tutor e amico del Dalai Lama, conosciuto anche in Italia per aver ispirato il film “Sette anni in Tibet”.

Il Tibet definito come “Inferno in terra” è la formula usata, spesso e volentieri, sia dal Dalai Lama che dal Governo cinese. Ma ognuno dà un significato diverso all’espressione: secondo Sua Santità il Dalai Lama ad essere un “inferno” e una “grande prigione” è il nuovo Tibet cinese che egli lasciò nel 1959, dopo aver assunto atteggiamenti ambigui e manovrato da pessimi consiglieri. Invece, dal punto di vista cinese, a rappresentare un “inferno in terra“ è proprio la società feudale, disumana, tirannica e corrotta rappresentata dal Dio-Re fuggito all´estero e dalla vecchia élite legata alle tradizioni lamaiste del Tibet. Quel Tibet che, dal VII secolo e poi sotto l’influenza mongola (1207 – 1720), dominato dalle Grandi Scuole del buddhismo e del Sarma (Lignaggio dei Lama), era stata una potenza mondiale, un impero aggressivo che aveva inglobato gli stati himalayani vicini, e in grado di competere con l’Impero Cinese. Successivamente il Tibet era stato ‘risucchiato’ dall’esperienza del colonialismo britannico e aveva tentato di gestire, indipendentemente dal potere centrale di Pechino, la propria autonomia.

Ettinger nel suo libro sostiene: “Ormai da decenni una lobby buddista-tibetana, sostenuta da alcuni attori e registi famosi, utilizza il soft power della fabbrica dei sogni americani per destare nel pubblico occidentale interesse e simpatia per questa religione orientale … Centinaia di centri tibetani-buddisti che negli ultimi decenni in Europa occidentale e negli Stati Uniti sono spuntati come funghi: un notevole successo di proselitismo per una religione che nega di voler raccogliere nuovi fedeli”. Denuncia la tendenza elitaria del buddhismo tibetano, diviso in caste di Lignaggi, e soprattutto critica le dichiarazioni del Dalai Lama che i tibetani siano un “popolo eletto” e predestinato. Perché da tale status speciale il popolo non ha mai tratto alcun vantaggio.

Ettinger insieme all’analisi dei fondamenti filosofici del buddhismo tibetano, ci fornisce le prove di  come i vertici della struttura sociale dominante prima della liberazione cinese fossero costituiti da 25-30 ricche e potenti famiglie aristocratiche che occupavano le cariche del potere statale.

Uno studio del 1940 riportato nel testo riassume la situazione: nel Tibet orientale il 38% dei nuclei familiari non aveva mai bevuto tè ma solo acqua bollente, il 51% dei nuclei familiari non poteva permettersi il burro e il 75% era periodicamente sotto-nutrito e costretto a cibarsi di erba con l’aggiunta di soli ossi di bovini per preparare una zuppa. L’assenza di qualsiasi sistema sanitario, la denutrizione cronica e la promiscuità diffusa nelle fasce più povere della popolazione generava malattie veneree e provocava vittime in ogni famiglia. Studi più recenti hanno confermato che il Tibet contava il più alto tasso di tubercolosi e mortalità infantile nel mondo. Per il contadino medio la vita era breve e molto misera: la vita media si aggirava sui 30 anni. il Tibet era dunque una teocrazia feudale basata su agricoltura, servitù della gleba e schiavitù, dove i figli dei servi erano registrati  fra le proprietà del loro signore. Una  regione sottosviluppata, senza sistema viario, dove le sole piste praticabili erano quelle della preghiera. Non c’erano scuole, eccetto i monasteri in cui alcuni giovani privilegiati studiavano, l’educazione per le donne era inesistente. Un centinaio di famiglie nobili e gli abati dei monasteri possedevano tutto, e il  Dalai Lama, scelto tra i giovani delle famiglie più potenti, viveva sotto il controllo dei notabili nelle 1000 stanze del palazzo di Potala. La stragrande maggioranza dei tibetani viveva in piccoli insediamenti o in tende nomadi, Lhasa prima del 1959 contava solo 10.000 abitanti.

Secondo Ettinger il mancato sviluppo va attribuito ad un clero e un ceto parassitario, i quali inculcarono nella popolazione l’idea di non poter migliorare la propria vita modificando l’ordine sociale e politico esistente, bensì esortavano all’accumulazione di Karma positivo (meriti/azioni buone) in vista di una successiva vita, attribuendo la colpa del destino infelice alla sfuggente categoria religiosa del Karma. La superstizione e il dogmatismo, oltre a condizionare sia la vita comune che il dibattito religioso, giustificavano spesso torture e punizioni corporali per i contadini e i monaci dissidenti; mentre per alcuni discepoli, privilegiati dai rapporti sessuali tra insegnanti e studenti, rigorosamente segreti come contemplato nel Tantra tibetano, la situazione era diversa.

Riportata nel libro è l’emblematica vicenda di Gendun Choepel, che nel 1939 aveva fondato un Partito progressista del Tibet per stringere legami con il Governo di Pechino. Nel 1947, accusato di essere “comunista” Choepel  venne picchiato, torturato, arrestato e tenuto in prigione; rilasciato dopo due anni e mezzo, nel 1949, morì poco dopo. La stessa sorte di persecuzione e tortura era comunque toccata agli oppositori del Dalai Lama dopo la rivolta del 1913.

[i] Alexandra David Neel Parigi, 1868 – 1969 fu la prima donna europea a esplorare il Tibet. Va ricordata per i suoi studi sulle religioni orientali e per essere stata una iniziatrice della conoscenza e relazione tra buddhismo e Occidente. Alexandra si introduce illegalmente a Lhasa, nel 1924, all’età di 56 anni, sotto forma di khadoma, spirito tibetano femminile che a volte assume parvenze umane; accetta infatti la promozione a divinità femminile, offertale da eruditi lama incontrati nelle sue precedenti tappe in India, Cina e Sikkim. Grazie a questa “maschera” viaggia senza pericoli e viene ospitata dalla gente, che chiede benedizioni e protezione. Lei si presta a questo ruolo in vista del suo più importante obiettivo: riformare il buddismo, depurandolo da superstizioni, stregonerie e rituali magici derivanti dall’antica tradizione Bon. Lontana da dilettantismo e superficialità, Alexandra apprende il pali, il sanscrito e il tibetano per conoscere direttamente i testi, studia testi buddisti e induisti, insieme a tre compagni di viaggio e di spirito: il principe Sidkeong Tulku Namgyal (1879-1914), il maestro eremita di Lachen, Gomchen Rinpoché (1867-1947), e il monaco Aphur Yongden (1899-1955), conosciuti intorno al 1912 durante il suo secondo viaggio in Oriente.

[ii] Heinrich Harrer (1912-2006): Alpinista e atleta olimpico, nel 1939 partecipò a una spedizione austro-tedesca sul Nanga Pàrbat, la più occidentale tra le vette himalayane sopra gli ottomila metri. L’impresa terminò proprio allo scoppio della Seconda guerra mondiale, e così Harrer e gli altri scalatori furono arrestati dagli inglesi e incarcerati in un campo di prigionia indiano. Harrer riuscì a fuggire raggiungendo Lhasa, in Tibet, dove rimase per diversi anni, durante i quali diventò “maestro di cultura occidentale” e amico personale del Dalai Lama.

Opere: Sette anni nel Tibet (Sieben Jahre in Tibet) Milano, Garzanti, 1953; Ritorno al Tibet (Wiedersehen mit Tibet) Milano, Mondadori, 1998.

Per una posizione critica su Harrer vedansi articoli di Ettinger “Harrer, il nazista preferito del Dalai Lama e tibetologo negazionista”

Maria Morigi