In questi giorni vediamo come, sulla scia del movimento “Black Lives Matter”, scatenato dalla morte di George Floyd, siano avvenuti e continuino ad avvenire non soltanto gravi episodi di saccheggio a danno di negozi ed attività, ma anche di vandalismo nei confronti di statue e monumenti, accusati di rappresentare una storia o un passato di cui bisognerebbe vergognarsi (o di cui, quantomeno, si vergognano gli autori di tali azioni). Questi episodi, come sappiamo, non sono avvenuti soltanto negli Stati Uniti ma anche altrove, ad esempio in Inghilterra dove ad essere bersagliato è stato il Memoriale dedicato a Winston Churchill, mentre anche altre statue dedicate a figure legate a doppio filo al colonialismo britannico venivano colpite o rimosse (quelle a Cecil Rhodes, ad Edward Colston e a Robert Milligan), a mano a mano che il nuovo movimento di protesta si espandeva anche al di fuori dei confini statunitensi. In Belgio, a farne le spese, prevedibilmente, sono stati i monumenti dedicati al famigerato Re Leopoldo II, il cui trattamento coloniale del Congo fu a dir poco predatorio, mentre a Milano il movimento de “I Sentinelli” ha chiesto la rimozione della statua ad Indro Montanelli, di cui è noto il comportamento moralmente non proprio esemplare tenuto in Etiopia.

Solitamente, la caduta o l’abbattimento di statue e monumenti fa sempre un’enorme impressione su coloro che vi assistano, sia di persona che da lontano, magari attraverso le riprese televisive. Molti di noi si ricorderanno, ad esempio, di ciò che capitò a numerosi monumenti del periodo comunista allorché quei regimi caddero, dal 1989 in avanti, in Europa dell’Est e, dal 1991, nell’ormai ex Unione Sovietica. Fece il giro del mondo, in quel periodo, l’immagine della deposizione della statua di Feliks Dzerzinskij, posta a Mosca nella piazza antistante alla Lubjanka, la sede dei servizi di polizia politica e spionaggio che proprio questi aveva fondato all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, inizialmente col nome di Ceka e poi col tempo evolutasi fino al più noto e temuto KGB. Fu indubbiamente un evento che colpì l’opinione pubblica quanto l’abbattimento del Muro a Berlino o l’ammainarsi della bandiera rossa sul Cremlino, e in tutti questi casi la portata simbolica oltre che pratica impattò enormemente su tutti coloro che ne furono testimoni, diretti o indiretti.

In quei casi, però, si parlava di abbattimenti “a caldo”, a regimi appena caduti o fatti cadere. In tal senso, qualcuno potrebbe far notare come anche in Italia, bene o male, dopo il 25 luglio 1943 non fosse andata diversamente, con la rimozione dei simboli fascisti dalle sedi istituzionali principali, e così via. Ma, quando si vanno a colpire simboli legati ad un certo passato (bello o brutto che sia stato) a distanze cronologiche e temporali molto lontane, per così dire “fuori tempo massimo”, allora il discorso cambia nettamente, perché in tal caso non si stanno più facendo i conti, per quanto brutalmente o persino goffamente, con la propria storia appena trascorsa ma con una memoria che invece andrebbe bene o male conservata anche solo come monito per il futuro e come quotidiano “ripasso” di quale sia la strada da cui siamo venuti (al di là che ciò ci possa piacere o meno). In tal senso, quanto avvenuto ad alcune statue a Cristoforo Colombo (una rimossa dal Campidoglio a Minneapolis, un’altra decapitata a Boston e la terza, infine, divelta e gettata in un lago a Richmond), ha davvero poco senso, soprattutto in un paese dove in altri momenti dell’anno si celebra da sempre il Columbus Day, festività che senza dubbio si continuerà a celebrare anche in futuro; e non consola, da questo punto di vista, che già in anni recenti, sempre negli Stati Uniti, altri monumenti dedicati a Cristoforo Colombo fossero stati colpiti o danneggiati in occasione di altre proteste simili a quelle di questi giorni. Peraltro, a far le spese di certa “iconoclastia” sono anche figure che, all’apparenza, potrebbero persino apparire “insospettabili” come, ad esempio, Frank Rizzo, figlio d’immigrati italiani che diventò commissario di polizia e successivamente sindaco carismatico di Philadelphia negli Anni ’70: poco amato dai neri e dagli omosessuali per i suoi metodi troppo severi, e per giunta colpevole di essere stato un poliziotto, ha visto la sua statua andar giù come un birillo, senza troppi complimenti.

Ora, molti di noi si ricorderanno dei Taliban che in Afghanistan, nel 2001, presero a cannonate i Buddha di Bamiyan; dell’ISIS che non volle essere da meno con monumenti, pure islamici, a Mosul (si pensi alla Moschea di Giona) o a Ninive o ancora con importanti rovine del mondo antico come quelle di Palmira in Siria (dove oltretutto venne barbaramente ucciso anche Khaled al-Asaad, l’archeologo che di quel sito ne curava la salvaguardia e la gestione); o ancora dei “ribelli libici” che razziarono e vandalizzarono i resti di Cyrene e di Leptis Magna, ecc. Del resto, risalendo indietro con la storia, qualcuno potrebbe ricordare i soldati Mamelucchi che in Egitto presero a cannonate il volto della Sfinge, oppure certi Papi che fecero strame delle antichità di Roma solo per odio verso l’Impero ed il passato pagano che rappresentava (si pensi a Papa Sisto IV, passato alla storia come uno dei più grandi distruttori di monumenti e simboli della Roma antica, anche se di certo non fu l’unico: col travertino del Ponte della Marmorata, o di Orazio Coclite, ovvero il Ponte Sublicio che in epoca imperiale era stato ricostruito in pietra in luogo del precedente in legno, ci fece “palle di cannone” e dalle cronache risulta che esse fossero così tante che, nel 1484, ne sparò persino 400 in un sol giorno). Ancora oggi, da noi, qualcuno vorrebbe continuare a fare simili barbarie: per esempio, qualche anno fa, certi personaggi che si definivano custodi e difensori della “democrazia” volevano abbattere i simboli dell’architettura razionalista del Ventennio o quantomeno modificarli in un modo che risultasse finalmente confacente al loro punto di vista ideologico; e c’è da dubitare che, ancor oggi, abbiano davvero messo del tutto da parte quel loro proposito, che a suo tempo destò sia scandalo che ilarità.

Ma d’altronde ancora oggi, anche nel resto d’Europa, le cose non vanno tanto meglio: lo scorso anno, in Belgio, a Tournais, l’antichissimo “Pont des Trous”, risalente al XIII Secolo, è stato abbattuto perché altrimenti sotto non ci sarebbero potute passare delle navi più moderne: una bestialità che ricorda quanto si fece anche in Italia, a Roma, in pieno Ventennio, con lo sventramento d’interi quartieri medioevali per mettere in risalto le antichità romane (ma almeno in questo caso vi era pur sempre la volontà di valorizzare ciò che si riteneva migliore o più importante, e poi erano decisamente altri tempi; oggi ci si aspetterebbe, soprattutto dalla civile ed evoluta Europa settentrionale, ben altra sensibilità per ciò che è antico). Mentre, tornando a parlare dei monumenti novecenteschi, in Polonia, nelle tre repubbliche baltiche e in Ucraina per esempio hanno eretto monumenti ai nazisti e ai loro collaborazionisti locali, dopo aver distrutto quelli dei patrioti e dei militi dell’Armata Rossa che li avevano sconfitti; anche in Croazia un certo revisionismo ha portato a liquidare molti simboli dell’epoca jugoslava e a sostituirli con nuovi monumenti che incensano i famigerati Ustascia. In Inghilterra, come dicevamo al principio dell’articolo, hanno imbrattato il Memoriale di Churchill, che anche se si coprì di gloria con la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale proprio un santo non era stato, soprattutto come Ministro delle Colonie; ma basta, ciò, a giustificare una “damnatio memoriae”? L’Inghilterra, al pari di ogni altra potenza coloniale europea (e non solo), dovrà certamente un giorno fare un serio “esame di coscienza” sul proprio passato e sulla sua condotta storica, ma non è certo questa la strada per arrivarvi. Anche perché, diciamocela fuori dai denti: chi ha compiuto certi atti contrari all’arte e alla storia non ha di sicuro a cuore un serio esame di coscienza e di memoria, quanto piuttosto una più becera e terra terra volontà di distinguersi e di farsi notare politicamente, oltre che di “far caciara”.

Anche negli Stati Uniti, dove come dicevamo non sono di certo nuovi a “maltrattare” le statue di Cristoforo Colombo, la portavoce democratica Nancy Pelosi s’è addirittura spinta a proporre l’eliminazione dei monumenti ai soldati confederati dal Campidoglio; ciò, in un paese dove negli ultimi anni sono state erette persino statue a Satana o a certi pericolosi santoni e capi e fondatori di certe sette famigerate di cui l’America è piena, trasmette l’idea di una società dove vige una forte confusione in merito alla propria identità e alla propria memoria, che a questo punto secondo qualcuno possono davvero essere tranquillamente riprogrammate, rimosse o sostituite esattamente come si farebbe con un vestito, o una borsa, o un taglio di capelli (o anche un’idea, perché no) quando non sono più di moda o semplicemente non ci piacciono più. Anche questo paradosso, a ben guardare, è un segnale abbastanza chiaro: va bene la narrazione, ma non va bene la storia. Anziché confrontarsi con la storia, che non ti fa sconti e ti costringe a metterti in discussione, è molto più facile cavarsela autoassolvendosi oppure inventandosi una storia nuova, che non è mai esistita, al posto di quella reale (due comportamenti evasivi ed elusivi che, a conti fatti, sono pur sempre due facce della stessa medaglia). Certo, è un sinistro contrappasso, se pensiamo che questo “gioco” sta colpendo proprio quel paese che ha sempre festeggiato nel veder cadere le statue e i simboli del nemico (in molti si ricorderanno del 2003, con l’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Baghdad; ma quello è stato solo un episodio, che venne immediatamente trasmesso via TV nel mondo intero soprattutto per far capire a tutti, amici e nemici, chi aveva vinto e ribadire certe gerarchie). A suo modo, è anche questa una lezione, tanto amara quanto ironica, da parte di una famosa sconosciuta: la Storia.