In questi giorni molto si parla, talvolta con toni celebrativi e talvolta invece polemici, della visita della premier Giorgia Meloni in Etiopia, dove ha incontrato il premier etiopico Abiy Ahmed e il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud. La sua visita ricambia quelle fatte dai due leader a Roma nello scorso febbraio e, almeno ufficialmente, oltre a quella in Etiopia ne è prevista in futuro una anche in Somalia. Nell’occasione non è mancato neppure un suo incontro col presidente dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat.

Non ci sono dubbi che tanto l’Etiopia quanto la Somalia vantino con l’Italia profondi legami, peraltro non riconducibili esclusivamente al solo periodo coloniale, che almeno nel caso etiopico fu piuttosto breve e travagliato, ed inauguratosi con una vicenda non proprio commendevole come la guerra d’aggressione mussoliniana del 1935. I legami forse a noi cronologicamente più vicini, infatti, datano ormai soprattutto al Secondo Dopoguerra, quando nel bene come nel male le varie amministrazioni succedutesi in Etiopia e in Somalia stabilirono con l’Italia degli importanti, benché non sempre costanti, rapporti politici ed economici, alimentati dal ruolo di rilevanti imprese italiane attive anche in loco come ad esempio la FIAT e da quello delle locali comunità italiane che ancora sopravvivevano dopo le non facili vicissitudini dovute alla Seconda Guerra Mondiale e al governo militare transitorio inglese. Anche l’Italia della Seconda Repubblica, malgrado tutto, cercò d’alimentare ancora dei rapporti coi paesi della regione, talvolta fruttuosamente e talvolta no, il tutto a testimoniare l’esistenza di un pur tenue filo conduttore che dura ancor oggi. Infatti, se nel caso della Somalia nel frattempo caduta nel vortice della guerra civile il ruolo italiano fu assai discutibile, nel caso dell’Etiopia e persino dell’Eritrea la sua presenza fu un po’ più palpabile. Tanto basterebbe dunque a giustificare la volontà d’imprimere nuovi sforzi, da parte della diplomazia italiana, nel cercare di mantenere e soprattutto irrobustire quel filo conduttore che caratterizza i rapporti tra Italia e paesi del Corno d’Africa, magari prediligendo finalmente degli approcci meno discontinui e più costruttivi.

Si parla ad esempio del “Piano Mattei per l’Africa”, che la premer Meloni vorrebbe presentare ufficialmente ad ottobre in occasione del Summit Intergovernativo Italia-Africa, e che dovrebbe unire politiche più lungimiranti in senso economico e commerciale ad altre in senso umanitario, con un occhio rivolto alle forniture energetiche ed un altro alla questione migratoria. In merito alla questione migratoria, particolarmente sentita nel nostro paese, si punta in particolare all’abbandono della protezione speciale, di cui nel 2022 è stato fatto un ricorso ben maggiore rispetto a quella internazionale o a quella sussidiaria: un fatto su cui è indubbiamente bene porre rimedio, anche perché ricorrervi dovrebbe avvenire solo in via eccezionale e non “consuetudinaria”. Tuttavia, anche stavolta, le premesse dell’azione governativa italiana rimangono condizionate da luci ed ombre.

Il “Piano Mattei” fa pensare in primo luogo soprattutto all’aspetto energetico, anche perché Enrico Mattei fu il salvatore dell’AGIP, poi fondatore dell’ENI, che avviò una coraggiosa politica estera ancor prima che in materia d’idrocarburi. Se a quel tempo la partita intrapresa da Mattei era di andare oltre l’atlantismo, ovvero di sfidare gli interessi anglo-americani, stavolta invece l’intenzione sembra quella d’assecondarli, persino di riaffermarli; e ciò non può non suscitare qualche perplessità. Certo, l’Italia deve continuare a cercare nuovi fornitori di gas e petrolio, che siano alternativi a quelli tradizionali e/o maggioritari come la Russia, cosa in parte già ottenuta; ma anche, partendo da un rapporto sull’energia, ad avviare con molti paesi africani e mediorientali una più ampia politica di sviluppo, tale da ridurre la pressione migratoria sull’Italia e sull’Europa, oggi sentita come tema dominante. Già qua sorge il sospetto che il “Piano Mattei” concepito dalla staff della Meloni vada ad integrarsi col “Piano Marshall Europeo per l’Africa” finora sempre vagheggiato soprattutto dai nostri politici, e che potrebbe essere solo una maschera “filantropica” con cui rendere più gradevole una nuova militarizzazione del Mediterraneo in stile “nuova Operazione Sophia”, con l’ausilio della NATO, in chiara funzione anti-russa ed anti-cinese, di cui invece si parla in termini ben più concreti. Perché il punto essenziale di tutti questi “Piani Mattei-ecc” è proprio questo: simulare, con quattro soldi e qualche bella apparizione istituzionale, una controffensiva alla BRI (Nuova Via della Seta) e alla crescente influenza sino-russa in Africa e in Medio Oriente, viste in Europa (e negli USA) come un’offensiva contro l’Occidente. Magari con la falsa e presuntuosa convinzione che in Africa siano tutti così sprovveduti da farsi incantare dalle solite belle parole e che basti tirarvi qualche caramella nel mucchio per dividere alleanze ormai salde, revocare equilibri geopolitici ormai consolidati, portare sconquasso e tornare a praticare il neocolonialismo e il divide et impera. Decisamente, se fosse così, non sarebbe il modo migliore per onorare Enrico Mattei, che era mosso da tutt’altre intenzioni, ben più nobili e lungimiranti.

I dubbi sul “Piano Mattei per l’Africa”, certamente non nuovi, si rafforzano paradossalmente proprio ora che la premier è andata in visita in Etiopia. Perché ricevere a Roma Abiy Ahmed e Hassan Sheikh Mohamud, evitando accuratamente d’invitarvi anche un rappresentante del governo eritreo? Dopotutto è proprio l’Eritrea la nazione africana con cui l’Italia vanta i suoi legami più antichi, databili sin dagli Anni ’70 dell’Ottocento, con la sua costituzione in colonia ufficiale nel 1890: fu il diplomatico ed archeologo Carlo Dossi, esponente della corrente letteraria della “Scapigliatura” e consigliere personale dell’allora primo ministro Francesco Crispi, a suggerire a quest’ultimo il nome di “Eritrea” per quella nuova terra in cui gli italiani avevano cominciato ad unirsi coi locali. Il nome gli era venuto dal greco “érythròs”, “rosso”, e si rifaceva alle antiche cronache ellenistiche che ne parlavano come il “Periplo del Mar Eritreo” del I Secolo, laddove intuibilmente per “Eritreo” s’intendeva”Rosso”, e quindi anche il riferimento all’attualità e al Mar Rosso era più che evidente. Quel rapporto con l’Eritrea, tuttora testimoniato dall’architettura di Asmara adottata dall’UNESCO nel 2017 come da quella di altre sue città; dai loro piani regolatori e dalle loro infrastrutture; dalla memoria degli Ascari la cui scuola militare si travasò anche nella Guerra di Liberazione partita negli Anni ’60 contro il dominio imperiale etiopico; o da quella di Amedeo Guillet, il “Lawrence d’Arabia italiano” onorato più in Eritrea che nella sua patria italiana, anch’esso capace di dar filo da torcere ai vincitori inglesi con gli Ascari che ancora componevano il suo seguito; o persino dalla cucina e da molte parole divenute parte della lingua locale, a testimonianza di un’osmosi culturale tra elemento eritreo ed italiano che è prezioso patrimonio eritreo e del mondo; o ancora la plurivittoriosa scuola sportiva eritrea, in primo luogo quella ciclistica, che analogamente conferma come italiani ed eritrei siano davvero membri della stessa famiglia; quel rapporto, dicevamo, dura tuttora e non può e non deve esser mai negato.

Eppure, pare che la premier Meloni voglia continuare, mettendoci pure del suo, la politica statunitense di perseverare a tutti i costi nel vano ed inutile tentativo d’isolare l’Eritrea nella regione, proprio in quella regione dove invece ormai è più centrale, collegata e determinante che mai. Insomma, vuol fare la sua parte, di concerto con la regia statunitense a cui per ogni cosa deve sempre render puntualmente conto, come anche l’attuale vicenda ucraina c’insegna. Non è diverso da ciò che già ha fatto il Segretario di Stato USA Antony Blinken col suo recente viaggio in Etiopia, dove ha cercato di recuperare una linea di dialogo tra Washington ed Addis Abeba, anche e soprattutto facendo pressione sui sussidi alimentari dai quali l’Etiopia è tradizionale dipendente. Certo, come già detto sono tutti tentativi vani ed inutili, poiché vanno a scontrarsi con la realtà dei fatti, che è ben altra da quella che vorrebbero sognarsi codesti nostri vari politici occidentali.

Indubbiamente le varie cancellerie occidentali, partendo proprio da Washington, non hanno digerito che il processo d’integrazione nel Corso d’Africa, con l’Eritrea sempre più al suo centro come guida ben più che politica e morale, sia andato avanti vincendo tutte le prove, fino addirittura alla neutralizzazione del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray) e al suo programmato riassorbimento sociale e politico in un’ottica di riconciliazione nazionale etiopica, per non parlar poi della Somalia che sembra ormai altrettanto sempre più sfuggente alle grinfie europee ed americane. Non dimentichiamoci cos’è successo in questi ultimi anni, dall’ormai conclusasi guerra di secessione nel Tigray al fallito golpe in Somalia all’inizio proprio di quest’anno, dal Kenya analogamente sottrattosi allo storico vincolo anglo-americano al Sudan dove ugualmente oggi è in atto un non facile e pure cruento abbattimento di certi vecchi e pesanti retaggi del passato. Un Corno d’Africa che sfugge al vecchio ordine unipolare basato sul “Washington consensus” e che addirittura introduce anche le regioni africane vicine al nuovo ordine multipolare suona come una campana a morto per certi gruppi d’interesse europei ed americani, anche perché proprio là davanti vi scorrono i traffici economici ed energetici tra Oriente ed Occidente, non soltanto via Suez, e perché pure sull’altra sponda Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Yemen non sono più tanto “rassicuranti” sempre per queste consorterie euro-americane.

Insomma, forse è anche un po’ per tutte queste cose che il “Piano Mattei per l’Africa” desta qualche legittima perplessità: del resto, già in Libia la scelta d’incontrar solo le autorità tutt’altro che autorevoli di Tripoli, peraltro pure in odor di fondamentalismo e di tratta dei migranti, escludendo un dialogo od un recupero dei rapporti anche con quelle della Cirenaica, non appariva proprio un esordio tanto felice. Peraltro, tornando a parlar invece del Corno d’Africa, la Meloni avrebbe avuto nel tentare un nuovo approccio con Asmara la possibilità di “vincere” laddove altri prima di lei avevano fallito: non dimentichiamoci i viaggi a vuoto dei rappresentanti dei governi del centrosinistra renziano prima e giallo-verde poi, con le visite ad Asmara di Lapo Pistelli nel 2014 e di Conte e Del Re nel 2018. Tante, in entrambe le occasioni, furono le promesse e le belle parole, alle quali però mai seguirono i fatti, da parte non soltanto dei politici italiani ma anche di molti sedicenti imprenditori al seguito. Non parliamo poi di successive ed ulteriori mosse suicida come quella di chiudere senza neppur dare un minimo preavviso alle autorità eritree le Scuole Italiane di Asmara, le seconde scuole italiane più grandi al mondo dopo quelle di Santiago del Cile, e via dicendo. Insomma, condizionato dall’iniziativa americana, a cui evidentemente la politica italiana non può e non vuole sottrarsi, il nostro paese si vede costretto a rinunciare, sempre ammesso che poi davvero le veda, a delle occasioni irrinunciabili ed irripetibili; e ciò indipendentemente da chi lo governi, centrodestra o centrosinistra che sia.

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