La recente polemica scatenata dal ministro Carlo Calenda, che ha definito il reddito di cittadinanza “un’aberrazione anche dal punto di vista dei valori. È molto più facile dare reddito che dare un lavoro”, ed ancor peggio una misura “ideologica”, che risponde “allo stesso criterio con cui si usava la spesa pubblica negli Anni ’80 e ’90, cioè l’assistenzialismo”, ha trovato una pur cauta risonanza anche sui principali giornali nazionali. Cauta perchè tale polemica va pur sempre in controtendenza con una delle ultime scelte del governo, che è proprio quella d’adottare il reddito di cittadinanza anche per sottrarre al principale rivale del PD, il Movimento 5 Stelle, quella che è uno dei suoi più redditizi cavalli di battaglia, una delle sue rivendicazioni più sentite ed efficaci.
Secondo Calenda, che s’è comunque affrettato nel garantire come tali sue dichiarazioni non costituiscano in ogni caso una polemica verso Renzi, una simile misura “aumenta il carico per chi paga le tasse. Non è questa la strada, bisogna investire sulla competitività delle imprese diminuendo la pressione fiscale”.
In realtà anche le parole di Carlo Calenda lasciano capire come il tema del “reddito di cittadinanza, sì o no” sia affrontato piuttosto sottogamba. Fu Von Hayek, uno dei massimi pensatori economici del liberismo, non certo del socialismo marxista, a teorizzare il reddito di cittadinanza, visto come misura necessaria a far sì che l’individuo, anche in assenza di lavoro, mantenesse comunque il suo ruolo di consumatore. Eppure questa misura, nell’Italia di oggi, viene vista soprattutto come una proposta “di sinistra”, persino rivoluzionaria, quasi in odor di bolscevismo (levando addirittura il “quasi”).
In realtà, secondo il pensiero socialista (ma anche secondo quello della socialdemocrazia non marxista e del cristianesimo sociale, si veda a tal proposito il famoso Codice di Camaldoli da cui la nascente DC attinse a piene mani per il suo programma economico), il cittadino non ha diritto ad un reddito o ad un vitalizio, ma ad un lavoro. Sarà poi quel lavoro a fornirgli il reddito, insieme alla nobilitazione e alla crescita umana e morale che gli avrà parimenti trasmesso.
Perché il punto è questo: se lo Stato dà all’individuo un reddito senza lavorare, allora gli dà quanto basta per sopravvivere (o forse anche meno), senza però dargli la possibilità di guadagnarsi dei meriti o di rivendicare dei diritti, cosa che è possibile solo attraverso il lavoro. Peggio, sarà ricattato e ricattabile, proprio perché quel “reddito” o “obolo” gli sarà stato dato in cambio di niente. Dal momento che questi, come cittadino, non lavora e non matura un’esperienza di lavoro, quando perderà quel “reddito” o “obolo” non avrà neppure alternative. Non potrà recarsi altrove ad offrire la sua esperienza di lavoro, perché non gli è stato possibile formarsene una. Una simile misura, quindi, nel perfetto stile del liberismo tende a comprimere e a diminuire la democrazia, perché opera la trasformazione da cittadino a suddito, peggio ancora in suddito consumatore, che riceve quel denaro per sopravvivere e consumare, ma che per il resto deve obbedire e non fiatare. In cambio di quel piccolo “reddito” o “obolo” saranno molti i diritti che verranno sottratti.
La meritocrazia e la democrazia esistono solo in presenza del lavoro, che dev’essere un diritto. Tutti devono poter lavorare e ogni governo deve impegnarsi affinché il lavoro aumenti, con le migliori condizioni possibili per i lavoratori. Lo Stato deve garantire il diritto al lavoro (la Costituzione Italiana dichiara espressamente come l’Italia sia una Repubblica Democratica fondata sul Lavoro), perché attraverso di esso l’individuo si trasforma in cittadino, in un cittadino lavoratore, che assolvendo i propri doveri e guadagnandosi i propri meriti ha anche automaticamente la possibilità di poter rivendicare ed ottenere i propri diritti. E solo in questo modo le condizioni di lavoro possono migliorare, e del pari possono ampliarsi e potenziarsi anche gli altri diritti, sociali, civili e via discorrendo. In una simile situazione, con uno Stato che garantisce il diritto al lavoro, il potere contrattuale del lavoratore aumenta anche nei confronti dell’impresa: si ha un’esperienza lavorativa maturata in precedenza e ci si può pertanto “rivendere” bene anche altrove.
Un simile quadro richiede, ovviamente, una forte presenza dello Stato in economia, che non può restare esclusivamente appannaggio del privato. L’economia mista, dove convivono in buona armonia il pubblico ed il privato, è il sistema che ha permesso all’Italia di crescere e di uscire dal suo storico sottosviluppo negli anni del Secondo Dopoguerra, fino a divenire nel 1991 la quarta potenza economica mondiale. Non è un caso che oggi sia solo la decima e che a breve sia destinata a retrocedere ancora: questo declino è iniziato proprio quando s’è cominciato a rompere e a smobilitare questo sistema, che evidentemente per il nostro paese era il più congeniale e soprattutto il più idoneo a garantire che gli italiani potessero essere dei “cittadini lavoratori” anziché dei “sudditi consumatori”.
Se i soldi che lo Stato vuole destinare ad istituire il reddito di cittadinanza fossero destinati a ridurre la pressione fiscale, ma soprattutto a nuove politiche pubbliche sulle infrastrutture (sia per quanto riguarda la costruzione di nuove che la manutenzione di quelle già esistenti), a favore dell’agricoltura, dell’allevamento, del turismo e di tanti altri settori lavorativi che oggi in Italia si trovano in difficoltà, probabilmente i risultati economici, lavorativi ed occupazionali sarebbero più consistenti e duraturi. Siamo un paese che ha perso molti settori di punta: avevamo la chimica fine, l’alluminio, l’elettronica, ecc, tutte cose che ci siamo giocati. Avevamo la quasi autosufficienza nella produzione di grano, oggi dobbiamo in grandissima parte importarlo dall’estero, e via dicendo con altri generi agricoli. C’è molta strada da fare e da rifare per tornare ad essere un grande paese. Solo se investiamo nel nostro lavoro potremo tornare ad esserlo, e soprattutto potremo mantenere e sviluppare, potenziandola, la nostra democrazia. Altrimenti quelle che si leggono nella nostra Costituzione resteranno soltanto belle parole, che in quanto sudditi anziché cittadini non ci diranno più niente.