Si può dire quel che si vuole, ma non che queste elezioni c’abbiano sorpreso. Sostanzialmente, era tutto prevedibile. A cominciare, per esempio, dal brusco crollo del PD: in fondo l’anomalia era stata proprio il grande successo delle scorse Europee, quando il partito aveva toccato il 40,8%. Adesso, invece, il PD rientra nei ranghi, riallineandosi alla sua solita media elettorale di tutti gli anni: il 25%, punto percentuale più, punto percentuale meno. E poi la luna di miele fra Renzi e gli italiani doveva pur finire, ad un certo punto. Sarà stato anche per questo che il premier ha deciso, molto diplomaticamente, di porre tra sé e la sconfitta elettorale un argine fatto di migliaia e migliaia di chilometri, andandosene a visitare le truppe in Afghanistan. E commettendo, già che c’era, anche l’ennesima buffonata: quella di farsi vedere, lui che non aveva mai fatto il servizio militare, con addosso la mimetica. Così più di un parente e familiare di soldati italiani caduti in missione s’è risentito, anche se i nostri media tuttora inginocchiati al cospetto del premier hanno preferito glissare sull’argomento.
Fatto sta che, nel duro momento della verità, il premier ha preferito scaricare al loro destino i suoi candidati perdenti, a cominciare proprio da quelli appartenenti alla sua cerchia come la Paita e la Moretti. Non ha voluto assumersi il peso di questa sconfitta, scegliendo d’impiegarsi in tutt’altre faccende. Perchè non ci sono dubbi che quella di pochi giorni fa sia stata una sconfitta, soprattutto dei renziani: la Paita, imposta in Liguria a costo di spaccare il partito e di perdere uno storico membro fondatore come Cofferati, è stata sorpassata da Toti, alla guida di un centrodestra che tutti credevano ormai esausto e spacciato, mentre la Moretti ha preso meno della metà dei voti di Zaia in una terra, il Veneto, dove solo un anno fa i voti erano stati il doppio. Un disastro, una Caporetto.
Gli unici candidati del PD che sono riusciti ad affermarsi sono stati quelli che a Renzi non dovevano niente e col quale niente avevano a che fare: Rossi in Toscana, Emiliano in Puglia, lo stesso De Luca in Campania. Tutta gente legata più alla vecchia guardia del PD che a quella nuova incarnata da Renzi e dal suo cerchio magico. Insomma, se il PD sopravviverà e continuerà a vincere, non lo dovrà più a Renzi, che appare già prematuramente logoro. Dopo un anno, i nodi vengono al pettine e le chiacchiere stancano. L’azione di governo, finora, è stata più millantata che reale, e ha prodotto soprattutto politiche impopolari come il Job Act o la Buona Scuola: fuffa, di quella pericolosa perché finalizzata ad indebolire e precarizzare sempre di più la scuola pubblica ed il mercato del lavoro.
Con un simile bilancio era piuttosto difficile, onestamente ed oggettivamente, aspettarsi per il PD quello stesso trionfo che l’aveva bagnato un anno fa.
Forza Italia, invece, ha dimostrato di non essere ancora morta, e con lei nemmeno il suo dominus Berlusconi. Ha perso pezzi e voti, ma in alcune zone del paese continua ancora ad essere importante ed addirittura determinante. La Lega, invece, cresce esponenzialmente, anche in regioni che un tempo le sembravano precluse come, ad esempio, la Toscana: qui è passata nel volgere di una legislatura da meno dell’1% al 20%. Ma è solo un esempio, che testimonia come il partito di Salvini, oltre ad essere l’unico in grado di crescere in un quadro politico ed elettorale segnato dall’astensionismo e dalla disaffezione, sia anche riuscito a vincere quell’antica maledizione che ai tempi di Bossi lo vedeva sempre cedere voti a Forza Italia. Non è un mistero che i due partiti abbiano sempre avuto in comune importanti quote d’elettorato: solo che, in presenza di una Forza Italia e di un Berlusconi forti, i voti andavano in gran parte nel “partito azienda”. Con l’indebolimento di Forza Italia ed il declino di Berlusconi, ed il contemporaneo maquillage della Lega operato da Salvini, il rapporto di forze s’è invertito ed ora è il Carroccio a drenare voti in uscita dal partito dell’ex Cavaliere. A rinfoltire l’elettorato di Salvini ci sono sicuramente anche molti elettori che un tempo accordavano la loro preferenza ad AN, e che oggi se ne sentono orfani, non riconoscendosi oltretutto nel suo tentativo di rifondazione in piccolo incarnato da Fratelli d’Italia.
Infine c’è il Movimento 5 Stelle, che a queste regionali è andato forte un po’ da tutte le parti, arrivando addirittura primo in tre regioni seppur non aggiudicandosene nessuna. Accederà però ai consigli di queste regioni, trovandosi così ad interagire col centrosinistra ed il centrodestra. E’ anche il segnale di un consolidamento e di un radicamento nel territorio che, intuibilmente, potrebbe portare il M5S a farsi col tempo sempre più “partito” e sempre meno “movimento”. Il che non è detto che sia proprio un male, avendo probabilmente l’Italia bisogno forse più di partiti organici e strutturati che di movimenti liquidi e fluidi.
Ed il centro? Semplicemente non pervenuto. Alleanza Popolare, il sodalizio tra UDC e NCD, in molte aree s’è spaccato, mentre in altre è stato semplicemente asfaltato. La conferma dell’esaurimento degli spazi politici nel centro, probabilmente, è l’ultima ed ennesima novità, per quanto prevedibile, di questa tornata elettorale. Cosa che senza dubbio sorprende, dato che invece la sinistra “a sinistra del PD”, grazie soprattutto all’apporto dei civatiani, qualche suo piccolo momento di gloria in queste regionali l’ha pur conosciuto: si pensi, per esempio, al caso della Liguria.
Insomma, come già detto all’inizio di questo editoriale, s’è trattato proprio di un voto senza sorprese, in cui tutto era facilmente prevedibile.