Il sottosegretario degli Affari Europei, Sandro Gozi, ha annunciato ieri a Bruxelles che l’Italia ha posto la riserva, e quindi il veto, alla revisione del bilancio pluriennale 2014-2020 dell’Unione Europea. La decisione è stata presa per le motivazioni che già ben conosciamo, in particolar modo sul tira e molla tra Roma e Bruxelles per le cifre della Legge di Stabilità 2017.
“Siamo stanchi delle ambiguità e delle contraddizioni europee. Siamo stanchi di un’Europa che dice alcune cose e poi non le fa” – ha detto il sottosegretario Gozi – “dobbiamo avere ancora molte garanzie sul reale aumento delle risorse a favore delle nostre priorità come immigrazione, sicurezza, disoccupazione giovanile. Non possiamo assolutamente accettare dei tagli su questo”
L’opposizione italiana ha in realtà una causa ben precisa, che è la politica europea sull’immigrazione, che nei fatti non c’è. Già nelle settimane passate, il Premier Renzi se l’era presa con il Primo Ministro Ungherese, Viktor Orbàn, il quale è contrario ad accettare le quote migranti che Bruxelles vorrebbe imporgli. Ricordiamo che l’Ungheria, al contrario dell’Italia che è contribuente netto dell’UE (cioè versa ogni anno più soldi di quanti ne riceve), è uno dei principali destinatari dei contributi provenienti da Bruxelles. L’Ungheria, in sostanza, è uno di quegli Stati membri che vengono pagati per restare dentro l’Unione (gli Stati dell’Est europeo fanno parte dell’UE ma non hanno l’Euro essenzialmente perché così fa comodo alla Germania che può usare queste nazioni come satelliti economici e spostare parte della produzione industriale e risparmiare sui costi di produzione). Probabilmente, se l’Unione Europea decidesse di non finanziare più l’Ungheria, questa uscirebbe dall’Unione.
A conferma di ciò arrivano le parole del Premier italiano. Il nostro Presidente del Consiglio, da Catania dove partecipava ad una inaugurazione, ha confermato le parole di Sandro Gozi, aggiungendo: “Abbiamo messo il primo veto a Bruxelles. Volevano lasciare i siciliani a farsi carico dell’immigrazione, di salvare migliaia di vite e di farsi carico delle soluzioni e della complessità della vicenda. E poi riempiono di soldi i Paesi europei che non accettano non soltanto un accordo che loro hanno firmato, ma con i nostri soldi alzano i muri”.
Lasciamo al lettore giudicare se anche questa presa di posizione del governo italiano sia il solito bluff a cui siamo abituati o se finalmente Renzi farà sul serio.
Intanto, la Commissione UE sospende il giudizio sulla manovra finanziaria. Nella giornata di oggi arriverà comunque il primo giudizio ufficiale, che sarà costituito più che altro da un parere formale e da una richiesta di chiarimenti sulle clausole migranti e terremoto. Il giudizio definitivo però arriverà solo a inizio 2017; si da così tempo al governo di occuparsi del Referendum costituzionale del 4 Dicembre.
Sembra comunque che Junker abbia dato il via libera alla Legge di Bilancio italiana. Ma la notizia più clamorosa la rivela “la Repubblica“: secondo il quotidiano nazionale, “la Commissione su iniziativa politica di Juncker pubblicherà una comunicazione di diciotto pagine con la quale se non decreta la fine dell’austerity, quanto meno ne chiede una moratoria per il biennio 2017-2018”. Sarà probabilmente questa la risposta dell’Unione Europea alle spinte “populiste” del Brexit e dell’elezione di Trump alla Casa Bianca, comprese quelle future di Hofer in Austria e di Le Pen in Francia.
A deludere coloro che già cantavano vittoria arriva il capo economista della Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, che intervistato da Bloomberg non usa mezze parole e dice: “senza le riforme, l’Italia starebbe meglio fuori dall’Euro. Il mio timore è che più ci si avvicina alla data del referendum, e più l’effetto dell’elezione di Trump si fa sentire, più gli investitori esteri usciranno dall’Italia sino a far esplodere lo spread. Questo scenario di instabilità prefigurerebbe un grave impatto sui settori bancari italiano ed europeo. L’Italia rappresenta quindi l’epicentro da cui rischia di giungere ulteriore instabilità in Europa. Senza riforme l’Italia sconterebbe uno stato di crisi continua. L’Italia ha un debito pari al 130% del Pil e continua ad accumularne altro. L’opera di riordino dovrà essere compiuta dall’esterno o in caso contrario rischia di non essere mai intrapresa”.
Insomma, se non vincerà il sì al referendum e se l’Italia non vorrà da sola a provvedere alle cosiddette “riforme” (che noi sappiamo bene trattarsi essenzialmente di tagli allo Stato sociale e all’apparato pubblico), queste verranno fatte con un intervento diretto della Troika.
E torna ad affacciarsi anche lo spauracchio dello spread. Nei giorni scorsi, il differenziale tra i titoli di stato decennali italiani e quelli tedeschi è risalito fino ad oltre la soglia dei 180 punti, ai livelli precedenti dell’introduzione del Quantitative Easing da parte della BCE. L’arrivo di Trump alla Casa Bianca e l’incertezza sul referendum spingono gli investitori a ritenere insicuri i titoli italiani. La risalita dello spread ha dato occasione al Premier Renzi di fare propaganda per il Sì e tweettare: “Con le riforme sale il PIL, senza riforme sale lo spread”.
Concludiamo con una riflessione riguardo al referendum del 4 dicembre. Siamo nel pieno della campagna elettorale e se ne sentono di tutti i colori sia dalle fila del Sì che da quelle del No. Soprattutto dal fronte del No, vengono presentate varie motivazioni per lo più giuste e legittime.
E’ vero che da un punto di vista formale, la riforma è stata fatta a colpi di maggioranza parlamentare, una maggioranza eletta con un premio di maggioranza dichiarato illegittimo da una sentenza della Corte Costituzionale (1/2014) e da un’altra della Corte di Cassazione (sentenza n. 8878/14) e già questo basterebbe a stracciare la riforma e ad eleggere subito un’Assemblea Costituente. Ma è anche vero che il voto popolare sancito all’art. 138 della Costituzione legittimerebbe comunque il testo riformato dal governo.
E’ vero che, dal punto di vista sostanziale, la riforma presenta alcune ambiguità, come ad esempio i procedimenti legislativi che da uno passano ad essere dieci, oppure il nuovo senato che sarà composto da consiglieri regionali e da sindaci che quindi manterranno la doppia carica di amministratori locali e senatori, oppure ancora la combinazione tra riforma costituzionale e legge elettorale che potrebbe permettere a un solo partito di andare al governo ed eleggere il Presidente della Repubblica, il quale a sua volta nominerebbe cinque senatori e un terzo dei giudici della Corte Costituzionale.
Ma, a parere di chi scrive, il motivo più importante per cui è necessario votare No è uno solo: la Riforma costituzionale sancisce definitivamente il principio del cosiddetto “vincolo esterno”. Va ricordato che la riforma era uno dei punti espressi nella lettera inviata dalla BCE al Governo Berlusconi nel 2011 in si faceva presente che “sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio”.
Insomma, la riforma costituzionale del governo Renzi è la continuazione del lavoro iniziato con l’introduzione in costituzione del principio del pareggio di bilancio durante il governo Monti. Un principio che è palesemente in contrasto con l’assetto keynesiano della Costituzione italiana del 1948, la quale ha come obiettivo il raggiungimento della piena occupazione (“L’italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) e non la stabilità dei prezzi. La lgge costituzionale 1/2012 andò a modificare la Costituzione negli articoli 81, 97, 117 e 119.
L’attuale riforma va ad armonizzare gli altri articoli della Costituzione con la modifica fatta nel 2012. Il vincolo esterno viene sancito, e diventa obiettivo della funzione legislativa, negli articoli 55, 70 e 117, secondo il quale, al primo comma: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali”.
Come spiega il giurista Luciano Barra Caracciolo, se nella Costituzione attualmente in vigore, l’accenno alle norme del diritto comunitario non diceva nulla di più del principio del “pacta sunt servanda“, ora “si costituzionalizza l’obbligo di attuare il diritto UE come mission del parlamento e sostanza immancabile della funzione legislativa.
E’ probabilmente l’unico aspetto precettivo non controvertibile di tutta la riforma.”
Vale davvero la pena perdere sovranità per risparmiare la misera cifra di 50 milioni di euro circa grazie al dimezzamento del numero dei parlamentari e alla soppressione del CNEL?
Marco Muscillo.