Giuseppe Conte

Il primo governo populista d’Europa

Ormai tutti gli analisti politici concordano sul fatto che quello che si sta formando in Italia sia il primo governo “populista” o “sovranista” che viene ad affacciarsi in Europa. A dire il vero forse i “populisti” ci avevano già provato e sperato nel 2015 in Grecia, con le elezioni vinte dal partito Syriza e guidato da Alexis Tsipras, ma i sogni si infransero non appena dopo la vittoria dello OXI al referendum sull’austerità europea, il premier greco fece fuori dal suo esecutivo il Ministro dell’Economia Yanis Varoufakis e si piegò a Wolfgang Schäuble e alla reazione punitiva dell’Unione Europea.

Cosa cambia questa volta rispetto ad allora? Essenzialmente che in questo caso c’è una forza politica, tra le due che hanno siglato l’intesa, che per 5 anni si è preparata allo sconto e sa fin dove andare. Tsipras e Varoufakis dichiaravano di voler lottare conto l’austerità ma non mettevano in discussione la moneta unica e l’appartenenza all’Europa; nel caso italiano, persone come Claudio Borghi e Alberto Bagnai sono garanzia: sanno benissimo che non può essere abbandonata l’austerità senza mettere in discussione anche la moneta unica, cioè che il voler fare politiche economiche anticicliche e combattere disoccupazione e deflazione salariale porta inevitabilmente a chiedere anche la flessibilità del cambio, per evitare che il deficit vada a finire tutto sui prodotti importati e che la flessibilità recuperi la competitività che in un sistema di cambi fissi viene scaricato sui salari.

A parere di chi scrive, l’obiettivo di Borghi e Bagnai è ancora quello di risolvere le contraddizioni monetarie della zona Euro, anche se l’uscita unilaterale è preclusa per varie ragioni (prima di tutte la mancanza di una maggioranza schiacciante in parlamento).

Il contesto internazionale e l’avvento di Trump

Come poi abbiamo detto più volte,  la moneta unica Europea non è un danno solo per i Paesi che ne fanno parte ma anche per chi ne sta fuori, ma che deve competere con lo strapotere commerciale di una Germania che trae vantaggio da una svalutazione competitiva a tutti gli effetti. Stiamo parlando degli Stati Uniti, la cui bilancia commerciale è in negativo, e che con l’amministrazione Trump intendono fare deficit di bilancio per favorire le produzioni interne. Così, anche il deficit della Trumpnomics non può scaricarsi tutto in più importazioni ed è per questo che gli USA hanno iniziato una nuova stagione protezionista con dazi e guerre commerciali. La disgregazione dell’Eurozona fa gola al nuovo apparato governativo americano. I “nostri” sono certamente consapevoli di ciò e forse hanno già pronta una sponda da Oltreoceano.

Si può spiegare in questo senso la presenza in Italia di Steve Bannon, ex stratega di Donald Trump, euforico per il governo che sta per nascere in Italia. Ma si potrebbe spiegare in questo senso, se fosse vera,  anche la prima bozza di contratto fatta trapelare tramite un articolo su l’Huffingtonpost, nel quale si prevedevano punti su un piano di uscita dalla moneta unica e la cancellazione di 250 miliardi di debito pubblico in mano alla BCE (tramutato nella seconda versione della bozza in una richiesta di scorporo contabile di questi titoli dal calcolo del deficit/Pil).

Cosa quest’ultima molto criticata e che ha fatto risalire lo spread tra BTP e Bund (anche se va detto che lo spread è salito ovunque, anche per la risalita del prezzo del petrolio che fa presagire un rallentamento delle economie che già ora crescono meno). Ovviamente i media sono insorti dicendo che questa cosa era impossibile da realizzare e che avrebbe portato il nostro Paese alla bancarotta. Ma nessuno ha ricordato che il Regno Unito già fa una cosa simile e che il Giappone stesso presto inizierà a farlo; la stessa BCE ha ricordato in uno dei suoi studi che la Banca Centrale può operare anche con patrimonio netto negativo (il Cile e la Repubblica Ceca l’hanno fatto per molto tempo, senza avere problemi). Inoltre, due valenti economisti lo hanno ripetuto alle stesse autorità Europee: nel 2013 fu Paul De Grauwe (e prima di lui fu Stiglitz) a ricordarlo a Jens Weidmann, prossimo successore di Mario Draghi proprio alla testa della BCE.

Il contratto di governo e la questione europea: all’insegna di Keynes

La versione definitiva del “contratto per il governo del cambiamento” è molto più moderata sui temi di Euro e UE. Sono spariti tutti i riferimenti alle procedure di uscita dall’Euro o al ritorno all’Europa pre-Maastricht, o meglio, si potrebbe dire dopo un’attenta lettura che i punti salienti che potrebbero far preoccupare in sede europea sono stati inseriti tra le righe, quasi a volerli nascondere.

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Focalizzandoci maggiormente sui punti che più ci interessano, andiamo al capitolo 8, quello che riguarda il debito pubblico e il deficit, e vi leggiamo:

“L’azione del Governo sarà mirata a un programma di riduzione del debito pubblico non già per mezzo di interventi basati su tasse e austerità – politiche che si sono rivelate errate ad ottenere tale obiettivo – bensì per il tramite della crescita del PIL, da ottenersi con un rilancio sia della domanda interna dal lato degli investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di sostengo del potere di acquisto delle famiglie, sia della domanda estera, creando condizioni favorevoli alle esportazioni”.

In queste poche righe possiamo leggere l’intenzione di rigettare le ricette sulla riduzione del debito pubblico di matrice ordoliberista volute dalla Commissione Europea che puntano ad abbattere il rapporto debito/PIL riducendo la spesa dello Stato e aumentando le tasse per agire sul numeratore del rapporto. Lega e Movimento 5 Stelle propongono un approccio di tipo keynesiano che agisce sul denominatore e ridurre la frazione attraverso la crescita del PIL. Per far questo si intendono attuare politiche e investimenti “ad alto moltiplicatore” keynesiano, cioè ritenendo che ogni aumento di spesa pubblica abbia un effetto moltiplicatore sul PIL. Un investimento di qualità produrrà un maggiore effetto moltiplicatore, il denominatore crescerà più del numeratore e come da regola, la frazione darà come risultato un rapporto più basso.

Tutto il programma non avrebbe alcun senso e sarebbe irrealizzabile senza questo approccio di tipo keynesiano. TV e giornali criticano il contratto perché le proposte sarebbero tante e costose, e quindi irrealizzabili. Carlo Cottarelli ha quantificato in 100 miliardi circa la spesa per realizzare tutte le proposte del contratto. Ma con un approccio keynesiano, le coperture di spesa non servono; serve soltanto il deficit.

Ed è per questo che è partita subito la denuncia del nuovo segretario PD Maurizio Martina secondo il quale quello che va formandosi sarà un “governo del deficit”, irresponsabile, che porterà il Paese alla bancarotta. Fa strano notare che un partito che ha una base valoriale a “sinistra” sulla politica economica la pensi allo stesso modo della Thatcher

Bisognerà comunque ancora vedere come il nuovo governo vorrà destreggiarsi con l’Europa, se l’aumento del deficit dovrà essere concordato oppure se si andrà allo scontro aperto.

Proseguendo la lettura del capitolo 8 leggiamo che il nuovo governo proverà a chiedere alla Commissione Europea lo “scorporo degli investimenti pubblici produttivi dal deficit corrente in bilancio”, proposta che in sede Europea circola già da molto tempo e che libererebbe molte risorse da investire nell’economia reale, ma che non sarà facile da ottenere con un clima teso tra governo nazionale e istituzioni europee. E se ci dicono di no? La domanda che si pone sempre Claudio Borghi è lì dietro l’angolo pronta a fare capolino. Sarà il nuovo governo populista capace di andare fino in fondo, disobbedendo a qualche diktat?

Il contratto del governo del cambiamento chiede di poter ridiscutere completamente i Trattati europei. Ciò fa presagire che l’approccio iniziale sarà assolutamente dialogante. Se leggiamo il capitolo 29 vi leggiamo delle proposte che sembrano chiedere alle Istituzioni Europee un cambiamento sostanziale degli assetti, che ad un primo impatto sembrerebbero puntare a una maggiore e migliore integrazione europea, chiedendo più democrazia ma anche più attenzione alle piccole realtà, al “made in” e un cambiamento di tutto l’assetto economico dell’Unione:

“Con lo spirito di ritornare all’impostazione delle origini in cui gli Stati europei erano mossi da un genuino intento di pace, fratellanza, cooperazione e solidarietà si ritiene necessario rivedere, insieme ai partner europei, l’impianto della governance economica europea (politica monetaria, Patto di Stabilità e crescita, Fiscal compact, MES, procedura per gli equilibri macroeconomici eccessivi, etc.) attualmente asimmetrico, basato sul predominio del mercato rispetto alla più vasta dimensione economica e sociale. Ci impegneremo infine nel superamento degli effetti pregiudizievoli per gli interessi nazionali derivanti dalla direttiva Bolkenstein”.

Il quadro macroeconomico e il clima europeo

Ovviamente per far questo, anche la controparte deve essere d’accordo. E se ci dicono di no? La minaccia dello spread sta lì a dirci che non sarà per nulla facile. Va tenuto anche conto che il Quantitative Easing della BCE, che da  garanzia ai nostri titoli di stato, avrà termine non appena Jens Weidmann prenderà il posto di Mario Draghi. Non dimentichiamoci poi che la UE ha in programma i Sovereign bond backed securities (Sbbs) delle obbligazioni europee emesse da un ente privato che comprerà bond dei Paesi europei e rivenderà Sbbs a grandi investitori in due differenti tipi: quelli senior, che prenderanno il 70% del valore nominale dell’emissione e le obbligazioni subordinate che prenderanno il restante 30%. Queste obbligazioni, che hanno un grado elevato di sicurezza, hanno l’obiettivo di andare a sostituire i titoli sovrani in pancia alle banche dei vari Paesi UE, i quali al contrario saranno ritenuti sempre più rischiosi e venduti. L’obiettivo della Commissione Europea è sempre uno: permettere agli Stati di poter fallire per poi affidarsi al Meccanismo Europeo di Stabilità, o MES.

Avremo quindi un governo italiano che punta ad aumentare gli investimenti a deficit per far ripartire l’economia interna e che avrà bisogno di una Banca Centrale pronta a garantire la sicurezza e quindi ad acquistare i titoli di Stato italiani immessi sul mercato. Dall’altra abbiamo la Commissione Europea che punta ad attuare misure che potrebbero portare i titoli di stato ad essere considerati rischiosi e allo stesso tempo la BCE toglierà la sua garanzia al debito sovrano.

Lo scontro sembra già aperto e per portarlo avanti serviranno gli uomini giusti al posto giusto. Per questo la Lega, che si è vista già sfumare la possibilità di avere un Premier esperto e informato come Giulio Sapelli, ora non transige su Paolo Savona al Ministero dell’Economia. Persona in questi giorni molto discussa ed invisa sia a Mattarella che all’Europa per le sue posizioni di critica verso la moneta unica e i vincoli del Trattato di Maastricht, ma economista espertissimo e veterano, che ha ricoperto già egregiamente ruoli di carattere pubblico. A maggior ragione ora che è stato scelto come Presidente del Consiglio il Prof. Giuseppe Conte, uomo che viene dagli ambienti del “cristianesimo democratico” (come Matterella, Renzi e Gentiloni…) ma che è alla prima esperienza politica, ha bisogno di una figura forte ed esperta che gli cammini a fianco, che gli faccia quasi da maestro e che con la sua presenza possa difendere il Premier dalle ingerenze dei due carismatici capi politici, Matteo Salvini e Luigi di Maio. La presenza di uno come Paolo Savona è quindi fondamentale: con un altro al suo posto il programma sarebbe inattuabile.

Gli altri punti del contratto

Tornando però al contratto, notiamo diversi punti interessanti, come la proposta pentastellata della banca pubblica per gli investimenti che dovrebbe offrire prestiti agevolati garantiti dallo Stato in aiuto alle piccole imprese e alle fasce produttive del Paese.  Abbastanza ampio anche il capitolo sulle banche, con il rigetto del “bail in” europeo e la volontà di rimborsare i risparmiatori truffati, rispettando l’art.47 della Costituzione. Sempre sul capitolo dedicato al risparmio, notiamo la volontà delle due forze politiche di reintrodurre la separazione bancaria sul modello del Glass-Steagall Act (Legge bancaria del 1936):

“Sempre a tutela del risparmio e del credito, bisogna andare verso un sistema in cui la banca di credito al pubblico e la banca d’investimento siano separate sia per quanto riguarda la loro tipologia di attività sia per quanto riguarda i livelli di sorveglianza.”

Il programma è anche molto attento all’ambiente e alle energie rinnovabili. Molto interessanti le proposte sul tema, ma forse per questo il capitolo sulle infrastrutture sembra un po’ debole. Inoltre, riguardo alle grandi opere (TAV) e alle aziende strategiche il testo è un po’ ambiguo, segno che le due forze politiche devono ancora raggiungere un pieno accordo:

“Con riferimento ad Alitalia siamo convinti che questa non vada semplicemente salvata in un’ottica di mera sopravvivenza economica bensì rilanciata, nell’ambito di un piano strategico nazionale dei trasporti che non può prescindere dalla presenza di un vettore nazionale competitivo.
Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”.

Tra Flat Tax e RdC

I punti cardine comunque sono il Reddito di Cittadinanza e la Flat Tax. Si nota qui il lavoro di compromesso tra le due forze politiche: la flat tax non sarà più “flat”, ma avrà due aliquote, al 15 e al 20%, prevista comunque sia per perone fisiche che per società. A una breve riflessione, sembra che la Flax Tax possa agevolare molto gli autonomi, le partite IVA. Il reddito di cittadinanza, come abbiamo detto più volte, assomiglia al sussidio introdotto dalla riforma Hartz 4 in Germania e ha lo scopo di migliorare le procedure che favoriscono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Per questo andranno prima potenziati i centri per l’impiego e la messa a punto della proposta avrà bisogno di almeno 2 anni.  Come abbiamo detto tante volte, il pericolo è vedere nascere accanto al reddito di cittadinanza anche quei minijobs che puntano a tenere bassi i salari, sfruttando il sussidio governativo.

Saranno creati i minibot?

Restando sul tema lavoro, leggiamo un capitolo dedicato (14). Si propongono: l’introduzione di un salario minimo per i lavori non soggetti a contrattazione collettiva, apprendistati pagati per le libere professioni, digitalizzazione e sburocratizzazione e la reintroduzione dei voucher, limitandone gli abusi.  C’è una critica al jobs act renziano, colpevole secondo il contratto di aver favorito la precarizzazione, ma non si dice di volerlo abolire. Capitolo forse un po’ debole, poteva sicuramente essere maggiormente sviluppato.

A pagina 21, un po’ nascosto nel testo, ecco il riferimento ai minibot:

“Sul punto, tra le misure concretamente percorribili, spiccano l’istituto della compensazione tra crediti e debiti nei confronti della pubblica amministrazione, da favorire attraverso l’ampliamento delle fattispecie ammesse, e la cartolarizzazione dei crediti fiscali, anche attraverso strumenti quali titoli di stato di piccolo taglio, anche valutando nelle sedi opportune la definizione stessa di debito pubblico.”

Ecco l’arma segreta ideata da Claudio Borghi Aquilini per non finire sotto ricatto della BCE e della Commissione Europea. I minibot sono titoli di stato di piccolo taglio e senza scadenza, in forma di banconota, che saranno erogati per pagare i debiti della Pubblica Amministrazione (ma solo in maniera volontaria, cioè solo se il creditore accetta questo metodo di pagamento). Si parla comunque di una cifra che gira intorno ai 70 miliardi di Euro, immessa nell’economia interna cosiddetta “di prossimità”: serviranno a pagare tasse, benzina, servizi pubblici e saranno accettati dagli esercenti privati, come piccoli negozi, supermercati e via dicendo. Potrebbero essere utili anche per la banca pubblica per gli investimenti.

La proposta già provoca un certo timore, tanto che il Financial Times nei giorni scorsi è uscito con un titolo dal forte impatto: “March of Italy’s mini-BoTs may split the euro”.  Vi possiamo leggere:

“La minaccia di titoli di Stato italiani noti come mini Bot fa sì che la politica monetaria europea torni a essere interessante negli ultimi due anni sembrava che l’eurozona avesse superato i pericoli esistenziali grazie agli acquisti irrefrenabili di bond da parte della Bce. Se fossero introdotti su larga scala le pressioni politiche con il tempo forzerebbero o l’Italia o la Germania fuori dall’euro e avendo prodotto il danno questo strumento sarebbe alla fine liquidato“.

La strategia di Salvini e Di Maio

Parlavamo prima di clima teso e scontro aperto tra Italia e UE. L’introduzione dei Minibot metterebbe con le spalle al muro Bruxelles e Francoforte. Nelle intenzioni servirebbero semplicemente a dare ossigeno all’economia interna, dando uno sbocco all’economia di prossimità, ma in realtà la semplice messa in opera del progetto Minibot, se fatto unilateralmente dall’Italia, potrebbe provocare lo strappo con l’Europa e far alzare lo spread ai livelli del 2011.

Forse sarà proprio questa la strategia di Lega e Movimento 5 Stelle, cioè tirare più possibile la corda per costringere l’Europa ad una scelta: o riformare o smantellare l’Eurozona. Avranno tutti contro e andando avanti saranno sempre più isolati. Sarà necessario essere pronti a andare fino in fondo senza ripensamenti. Ce la faranno? Questo è il grande quesito che dobbiamo porci. I due partiti dovranno remar entrambi nella stessa direzione; un piccolo sbandamento lungo la strada potrebbe essere fatale, far cadere il governo e far fallire tutti gli sforzi. Noi italiani non possiamo far altro che sperare in bene.

Marco Muscillo