Lo sviluppo della conoscenza umana continua anche nei periodi di decadenza (come il nostro), ma lo fa secondo modalità decadenti, in modo sotterraneo. Non si condensa in grandi figure intellettuali rappresentative di specifici indirizzi culturali, come potevano essere Marx, Weber, Hegel, Kant, Croce, Gentile ecc. ma in figure spesso quasi sconosciute, o conosciute soprattutto in ristretti ambiti accademici. Ciò accade perché non esiste una specifica committenza sociale da parte di movimenti, partiti, associazioni della “società civile”, in quanto a causa dominio assoluto del “mercato”, ovvero dell’oligarchia che controlla strettamente le società occidentali, nessun altro gruppo può ambire a modificare o influenzare gli indirizzi predeterminati dall’alto. Esiste una committenza specifica però proprio da parte delle élites globali dominanti, in quanto la gestione dell’“impero” occidentale necessita di conoscenze di carattere sociale, storico, politico, ma tali conoscenze devono restare riservate all’ambito accademico, nel cui ambito si crea un’atmosfera favorevole alla ricerca, e magari in molti accademici può svilupparsi una sincera passione per la conoscenza in sé. È questa un tipo di conoscenza, sorta soprattutto nell’ambito della cultura anglosassone (volendo intendere con questo termine sia il mondo accademico inglese che statunitense) che merita di essere utilizzata, magari colmando alcune “lacune” riguardanti il reale rapporto tra mondo anglosassone ed Europa, che è di vera e propria divaricazione, proprio dalla rivoluzione francese in poi.

A partire dalla vasta messe di ricerche storiche del dopoguerra, Perry Anderson tentò negli anni ’70 un’ambiziosa sintesi che abbracciava l’intera storia dell’Occidente, soprattutto in due opere: Dall’antichità al feudalesimo e Lo stato assoluto. Nella seconda opera Anderson, marxista, metteva in discussione i fondamenti del paradigma marxiano, il quale lungi dall’essere solo patrimonio del fu movimento comunista, resta, in parte fino ad oggi, una delle principali definizioni della “modernità”, che consisterebbe nell’avvento del capitalismo e nella nascita della società borghese, dovuta soprattutto a motivazioni di carattere economico. Anderson notava, en passant, che la conoscenza storica di Marx era inferiore a quella di Engels, come dire che essa era carente. In particolare, criticava la concezione marxiana secondo cui l’assolutismo fosse stato un alleato della borghesia in ascesa in lotta contro l’aristocrazia, invece nell’assolutismo vengono poste le fondamenta dello stato moderno, ma il suo carattere resta interamente feudale, in particolare esso non sorge principalmente dalla lotta di classe, ma è il risultato della intensa conflittualità tra gli stati europei a partire dalla fine del medioevo.

A partire dal “seminale”1 lavoro di Anderson è nata una corrente di ricerca definita sociologia storica, cioè storia interpretata alla luce della teoria, e teoria, a sua volta, fondata sulla ricerca storica, il cui principale oggetto è stato la nascita dello stato moderno. Non è un caso che Charles Tilly, a mio parere principale esponente di questo indirizzo teorico, nel suo lavoro più importante riportasse in apertura una significativa citazione da La nascita dello stato assoluto2.

Il focus si spostava quindi dalla lotta di classe al conflitto tra gli stati (se vogliamo dirla con Gianfranco La Grassa, alla lotta tra dominanti). Il modello proposto da Tilly non abbandona l’analisi marxiana del Capitale, ma la ingloba in modello che ci restituisce un’immagine più complessiva dell’evoluzione storico-sociale. Secondo Tilly esiste una “dialettica fra capitale e mezzi di coercizione” che ha strutturato la natura delle società europee moderne: la concentrazione dei mezzi di coercizione dello stato (risultato della conflittualità inter-statuale) e la concentrazione di capitale; laddove abbiamo la concentrazione di entrambe, abbiamo la società moderna più compiuta come in Inghilterra e Francia, laddove abbiamo solo concentrazione di capitale abbiamo società come il nord-Italia e l’Olanda, laddove invece solo concentrazione di mezzi di coercizione, la Prussia3.

La ricerca storica di Tilly può essere sintetizzata con due brevi incisi:

La guerra crea gli stati, gli stati creano la guerra.

Lo stato come crimine organizzato

Dal che si può intuire che Tilly è uno storico statunitense.

Non ci addentriamo qui nell’analisi del modello proposto da Tilly in quanto ho trovato molto interessante una sua applicazione ad un evento specifico proposto da Sidney Tarrow, ma prima è necessaria una digressione.

La rivoluzione francese è considerata tra gli eventi costitutivi fondante della modernità, anche se essa, ci terrei a sottolineare, non è la “nascita della modernità”4 ma ne è il compimento (anche il Rinascimento è modernità), e anche l’inizio della decadenza dell’area geografica che ha dato vita a questa modernità, è con la sconfitta di Napoleone (figlio della rivoluzione francese) che il centro della storia mondiale si sposta dall’Europa verso l’Atlantico.

Ci tengo a fare questa precisazione in quanto è già con Rousseau, filosofo di riferimento dei rivoluzionari francesi, che si coglie un acuto “disagio verso la civiltà”. La natura di questo disagio, egregiamente illustrata dal grande storico Federico Chabod, riguardava la esasperata e distruttiva conflittualità fra gli stati europei5.

Da questa stanchezza verso la civiltà europea ritengo nasca anche il proposito marxiano di sostituire interamente la lotta inter-nazionale con la lotta di classe, da cui nacque quel “manifesto anti-nazionale”6 che fu Il Manifesto dei comunisti (ma allo stesso tempo questo pamphlet esprimeva un punto di vista favorevole all’imperialismo inglese). Su queste basi il marxismo doveva sfociare in Europa nel pacifismo (diverso è il discorso per quanto riguarda il marxismo “orientale”), nonostante che Marx fosse tutt’altro che pacifista, anzi come rivoluzionario era, insieme ad Engels, per l’introduzione dell’esercito di leva in Germania, sul modello di quello nato con la rivoluzione francese.

Non che la rivoluzione francese non sia stata una rivoluzione borghese, ma è questa una parte della verità che se assolutizzata diventa falsa, come fuorviante è guardare ai soli conflitti sociali come quelli decisivi. Essa è stata anche il momento in cui lo stato moderno giunge a compimento, il che non è meno importante, ma resta fuori dal modello marxiano. (E dei movimenti sociali che dovessero nascere un domani dalle mostruose diseguaglianze sociali, che non sapessero agganciarsi ai conflitti inter-nazionali, e al loro riflesso nazionale quale il conflitto tra dominanti, ne potranno guadagnare solo una cruda repressione, davanti alla quale sarebbero impotenti). È significativo che Engels notasse come già nella seconda metà dell’ottocento fosse impossibile una rivoluzione come quelle che si ebbero fino al ’48, data la schiacciante preponderanza dei mezzi coercitivi dello stato, senza per questo proporre una soluzione a questo non trascurabile problema, visto che la socialdemocrazia tedesca restava un partito formalmente rivoluzionario.

Marx intendeva uscire dalla crisi della civiltà europea, eliminando la “causa del male”, lo stato e i conflitti insolubili e regressivi che esso generava in Europa. La teoria marxiana è una risposta alla crisi e un sintomo stesso della crisi. Engels dal suo canto, previde profeticamente che la crisi della civiltà europea avrebbe condotto a spaventose guerre mondiali, ma ottimisticamente pensava che questo avrebbe creato il terreno per la rivoluzione e non al declino dell’Europa come effettivamente è accaduto. Le guerre mondiali non furono impedite dal pacifismo dei comunisti tedeschi guidati da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, che ignorando la dimensione statuale del conflitto, contribuirono a suscitare per contrasto quel militarismo abnorme che poi alimentò il nazismo. Furono gli stati europei vincitori più gli Usa a mettere in ginocchio la Germania con le sanzioni del Trattato di Versailles, mettendola di fronte all’alternativa fra estinzione e riarmo.

Oggi il marxismo (che è notoriamente qualcosa di diverso dalla teoria marxiana) come indirizzo politico, teorico e culturale è in via di estinzione, finita è l’egemonia, che aveva qualche decennio fa, anche in ambito accademico, domina incontrastato il paradigma (neo)liberale, e non solo per quanto riguarda la rivoluzione francese. Il che configura una effettiva regressione in quanto il paradigma marxiano rispetto a quello liberale ha almeno il merito di mettere in luce le diseguaglianze reali della “democrazia”, oggi diventate mostruose. Tuttavia, proprio perché non superati alcuni elementi del marxismo permangono persino nel senso comune: pensiamo ad es. alla “guerre fatte per interessi economici”, alla “guerra per il petrolio”, questioni che entrano sicuramente nei conflitti ma che presi come esclusivi e determinanti sono fuorvianti e non aiutano a capire la reale “posta in gioco”.

Senza Lenin, il comunismo europeo sarebbe rimasto una coda dei movimenti rivoluzionari innescati in Europa dalla rivoluzione francese (già negli ultimi anni di Engels, la socialdemocrazia tedesca si stava trasformando in un partito “riformista” finalizzato all’integrazione della classe operaia all’interno del “sistema capitalistico”, partito che sarà la norma poi nei paesi europei). Lenin effettuò un cambiamento di paradigma all’interno del marxismo (senza presentarlo come tale, ricollegandosi ad alcune osservazioni marginali di Marx sull’Irlanda). Il motore della trasformazione storica non era più primariamente il conflitto tra le classi, ma il conflitto inter-nazionale. La rivoluzione sarebbe scoppiata negli anelli deboli del sistema di rapporti inter-nazionali, laddove le classi dominanti erano più deboli. Ma ciò che creò le condizioni della rivoluzione russa fu la prima guerra mondiale, ed essa fu opera in Russia soprattutto delle classi contadine. In Russia la teoria marxiana, che voleva essere principalmente una teoria della trasformazione sociale, una guida per la rivoluzione, si rivelò praticamente inutile. Tuttavia, a guidare la rivoluzione fu un partito comunista, probabilmente perché il comunismo era frutto della crisi della civiltà europea, che metteva radicalmente in discussione. La nascita della Russia come stato moderno, passata per vie traverse attraverso una rivoluzione nominalmente comunista, dovuta a tutt’altri motivi che la “lotta della classe operaia”, segnava ulteriormente questa crisi che ha visto la perdita della centralità europea nella storia mondiale.

Il modello marxiano rivelatosi inadatto come “teoria della rivoluzione” (quello che principalmente voleva essere) è sopravvissuto come una delle principali definizioni della “modernità” che coinciderebbe con il “capitalismo”. E ancora oggi considerare i conflitti economici come quelli decisivi è arrivato fino al senso comune. La rivoluzione francese come rivoluzione borghese ed evento costitutivo della modernità è uno dei pilastri del cadente edificio marxista, edificio da bonificare perché in esso, almeno, per quanto riguarda l’Europa, oramai vi si annidano soltanto dei topi. Si potrebbe obiettare che Marx si occupò ben poco della rivoluzione francese, sicuramente molto meno rispetto all’analisi del “modo di produzione” costituito dal capitalismo inglese, tuttavia la rivoluzione francese vista come evento in cui si compie la vittoria della borghesia, che si deduce dalla lotta di classe come fattore fondamentale dell’evoluzione storica, si è affermata come una delle letture dominanti anche in ambito accademico. Questo solo aspetto però non mette in luce sufficientemente in che senso la rivoluzione francese è un evento cruciale della modernità, né ci aiuta a capirne sufficientemente la genesi, se non introduciamo il concetto di conflitto tra le forme statuali come un altro dei fattori cruciali dell’evoluzione storica. Il marxismo (ricordiamo la sua non sovrapponibilità con la teoria marxiana), cioè quella teoria che considera centrale la lotta di classe, nella misura in cui occulta i conflitti tra dominanti, che sono anche conflitti interstatuali, è una teoria che può essere utilizzata per scopi regressivi e reazionari (e di fatti i principali partiti comunisti europei residuali svolgono un ruolo reazionario), invece il conflitto tra le classi sociali se inserito nella giusta cornice dei conflitti inter-dominanti è utile, anzi indispensabile.

Sidney Tarrow7, uno studioso statunitense collaboratore di Tilly, ha provato quindi ad applicare il modello di Tilly alla rivoluzione francese, cosa che quest’ultimo non ha fatto estensivamente, pur essendoci nei suoi studi tantissimi riferimenti ad essa.

Tarrow intende andare oltre Tilly collegando due concetti dal primo tenuti separati, cioè il concetto di state building attraverso il conflitto (sviluppato soprattutto in L’oro e la spada…), e il concetto di contentious politics che serve a definire i movimenti sociali:

“Tilly non ha esplicitamente collegato questi meccanismi a lungo termine alle rivoluzioni, ad es., egli senza pensarci ha pubblicato il suo libro sulle Rivoluzioni Europee, basato sulla sua teoria della polemologia politica, due anni dopo Coercion, Capital and European States, senza esplicitamente notare che i rivoluzionari erano impegnati sia nel conflitto politico che nella costruzione dello stato”. Ma unendo questi due libri egli ci fornisce un approccio basato sui processi storici alternativo sia alla sintesi marxiano/repubblicana che all’analisi delle idee di Furet.

Sulla base del paradigma marxiano trascuriamo il fatto che con la rivoluzione francese viene a compimento un sviluppo secolare iniziato alla fine del Medioevo, cioè l’evoluzione dello stato moderno, come frutto della conflittualità inter-statuale. Massima espressione è la nascita della leva di massa, che porterà ad uno sconvolgimento dei rapporti internazionali, come rilevò acutamente von Clausewitz8. “L’obbligo per i maschi adulti a servire nell’esercito fu il contraltare, nel campo militare, della scuola pubblica e dell’espansione del suffragio, in quello civile”. “Dopo il 1789, la centralizzazione fu un arma contro l’oscurantismo e in favore dell’educazione universale, ma fu anche la base per la sorveglianza politica e la manipolazione elettorale”.

Come sottolinea Tarrow, tutte le innovazioni più importanti, poi diventate caratteristiche comuni degli stati moderni, furono introdotte dai rivoluzionari francesi sotto la spinta della guerra, sia esterna che interna. “I rivoluzionari furono in guerra quasi costantemente dopo il tentativo di fuga di Luigi XVI… La guerra con l’Austria, la Prussia ed eventualmente la Gran Bretagna seguirono in rapida successione. Dal 1793 fu costantemente in stato di guerra, che sarebbe durato, salvo brevi interludi, per due decadi”. Allo stesso tempo la coscrizione di massa quale risposta alla necessità di affrontare fu una delle principali motivazioni della rivolta Vandea, la quale a sua volta veniva appoggiata, finanziata e armata dall’Inghilterra.

Tarrow arriva a toccare il ruolo nefasto dell’Inghilterra, a mio parere, per la storia europea a partire dalla rivoluzione francese. La sua alleanza con la Russia zarista fu per Marx una vera “fissa”. Ma questa è un’altra storia.

Dell’ambizioso tentativo di Tarrow di ripensare la rivoluzione francese, poco ne resta, se non un articolo in un volume collettaneo di una pubblicazione accademica. Molto più influente è stato il libro di Furet, perché parte di una ben precisa operazione politico-culturale: la campagna “neo-liberista” lanciata dalla fine degli anni ’70 fino ad oggi (come ha scritto Perry Anderson9). Poco ha aggiunto Furet alla conoscenza che abbiamo della rivoluzione francese e la sua lettura costituisce una regressione rispetto allo stesso marxismo. Al contrario, la rivoluzione francese vista come compimento di un’evoluzione delle forme statuali europee messa in moto principalmente dal conflitto è un importante contributo alla conoscenza della storia europea e della nascita dello stato moderno, passibile di ulteriori sviluppi ed elaborazioni. Ad es. cercare di analizzare la rivoluzione russa col metro dell’evoluzione delle forme statuali potrebbe condurre a risultati interessanti.

Gennaro Scala

1. Thomas Ertman, Birth of the Leviathan: Building States and Regimes in Medieval and Early Modern Europe [consentitemi il vezzo anti-accademico, nonché il risparmio di tempo, di non citare i testi secondo le “sacre” norme accademiche, tanto basta una “googlata” per ritrovare i dati necessari, nel caso qualche lettore fosse interessato ai testi citati].

2. “Era mia convinzione che questo libro potesse rispondere adeguatamente alla grande sfida di Perry Anderson: ‘Oggi che la storia dal basso è diventatauna parola d’ordine tanto negli ambienti marxisti che in quelli di diverso orientamento teorico e ha prodotto importanti risultati positivi per la nostra comprensione del passato, è tuttavia necessario richiamare uno degli assiomi fondamentali del materialismo storico: il fatto, cioè, che la secolare lotta fra le classi viene alla fine risolta al livello politico della società e non a quello economico o culturale. In altre parole, è la costruzione e distruzione degli Stati che sanziona i mutamenti fondamentali nei rapporti di produzione, finché esisteranno le classi’. Questo libro, cercherà di rispondere, almeno lo spero, a tre delle preoccupazioni che hanno accompagnato la mia lunga carriera di studioso: la storia e la dinamica dell’azione collettiva, il processo di urbanizzazione e la formazione degli stati nazionali.” (C. Tilly, L’oro e la spada)

3. Riporto alcuni estratti da Coercion, capital, and European states : AD 990-1990 (trad. it.L’oro e la spada : capitale, guerre e potere nella formazione degli stati europei : 990-1990:
“Nessuno progettò le principali strutture degli stati nazionali — tesorerie, corti, amministrazioni centrali ecc. In genere queste strutture erano, ora più ora meno, il risultato non cercato né previsto degli sforzi per realizzare obbiettivi molto immediati, soprattutto la creazione e il supporto della forza armata. “ –
“Lo schema assume questa forma per le ragioni che abbiamo visto prima; la guerra e la preparazione alla guerra hanno posto ai governanti il problema di ottenere i mezzi necessari da coloro che possedevano le risorse fondamentali — uomini, armi, beni di sussistenza o denaro per comprarli — e che si dimostravano riluttanti a cederle senza una forte pressione o un adeguato risarcimento. L’organizzazione delle classi sociali preminenti e i loro rapporti con lo stato hanno determinato in maniera significativa le strategie usate dai governanti per prelevare le risorse, la resistenza incontrata, la lotta che ne è scaturita, i tipi di organizzazione permanente prodotti dal prelievo e da tale lotta e di conseguenza l’efficacia del prelievo stesso. Nei limiti posti dalle richieste e dai diritti degli altri stati, il prelievo e le lotte per ottenere i mezzi necessari alla guerra hanno dato vita alle strutture organizzative centrali degli stati.
La trasformazione degli stati con la guerra, a sua volta, modificò gli obiettivi della guerra stessa. Nel periodo del patrimonialismo, i conquistatori cercarono i tributi molto più che il controllo stabile della popolazione e delle risorse dei territori occupati; interi imperi crebbero sul principio di prelevare rendite e doni dai governanti di molte regioni senza entrare in maniera pesante nei loro sistemi di governo. Nei periodi successivi il controllo stretto di un territorio divenne un obiettivo per cui valeva la pena combattere, dal momento che solo tale territorio forniva le risorse per mantenere una forza armata. Ma nel periodo della specializzazione gli stati videro crescere un tal numero di esigenze e con tale rapidità che la guerra divenne ancor più di prima un mezzo per risolvere gli interessi economici della coalizione dominante, permettendole l’accesso alle risorse di altri stati.“

4. Ferenc Fehér (Edited by), The French Revolution and the Birth of Modernity

5. “Ora, nel modo di impostare i rapporti Europa-America (o Asia o Africa) interessa soprattutto fin dal Cinquecento, il rivelarsi di una corrente polemica antieuropea. E cioè: l’insofferenza di certe forme di vita europea, e soprattutto l’insofferenza dei sistemi politici e delle guerre continue, guerre fratricide, eccita un certo numero di scrittori a creare il mito dei felici mondi lontani, dove non si conoscono guerre, dove gli uomini, naturalmente buoni, non sono ancora corrotti dalla vita di corte, dagli intrighi dei politici e dalla turpe ragione di Stato, dalla auri sacra fames; non appetiscono quindi l’altrui e si astengono dalle rapine continue che caratterizzano i cosiddetti «civili» europei. Nasce, così, il mito del buon selvaggio, che continuerà fino al Settecento e nel Settecento culminerà, contribuendo non poco al vagheggiamento rousseauiano dello stato di natura.
L’Europa viene contrapposta alla non-Europa (e, questa volta, Cina e America fanno tutt’uno, perché la Cina, come vedremo, è il regno della saggezza e della moralità), non come civile a barbaro, ma anzi come sanguinario depredatore inumano a mite pacifico umano. Le parti sono invertite: la figura dei barbari, dei veri barbari, la fanno qui gli Europei. Risuonano due motivi contrastanti: quello della pace, della tranquillità delle terre lontane, quello della lotta continua che strazia l’Europa, cristiana di nome ma di fatto dominata dai briganti che trascorrono il loro tempo ad ammazzarsi, peggio ancora, a fare ammazzare tra di loro i popoli, stanchi oppressi e martoriati.
Naturalmente, in questo quadro avete la «stilizzazione» delle terre lontane e del selvaggio, stilizzazione, s’intende, ideale, in bene. Tutto appare buono, lieto e roseo, laggiù, fosco brutto, dolente qua fra noi. Come lussureggiante e splendida la vegetazione di quelle regioni lontane, così felici i costumi, beati gli animi. è, sempre, una specie di Paradiso terrestre che viene raffigurato fuori dell’àmbito europeo; e senza dubbio, il vecchio mito medievale del Paradiso terrestre ha influito largamente nel determinare la stilizzazione cinquecentesca dell’innocente Peruviano o del Brasiliano, che abita in una terra di sogno. Soltanto, nel nuovo mito non v’è più nulla del sapore religioso dell’antico: allora il Paradiso terrestre rappresentava il vagheggiamento, nell’animo dei «peccatori», di un lontano mondo senza peccato e senza colpa, ora è il vagheggiamento, da parte di uomini stanchi di guerre, di un mondo «senza guerre», o con pochissime guerre, è dunque il vagheggiamento della pace terrena anziché celeste. Voi misurate con ciò, di colpo, l’abisso fra le due concezioni.“
Federic Chabod, Storia dell’idea di Europa

6. Roman Szporluk, Communism and Nationalism: Karl Marx versus Friedrich List

7. Sidney Tarrow, The French Revolution, war, and state-building: making one Tilly out of three in Michael Hanagan. Chris Tilly (Editors), Contention and Trust in Cities and States

8. “Mentre, secondo la maniera abituale di vedere le cose, si fondavano speranze sopra forze militari limitatissime, ne sorse una, nel 1793, di cui non si era mai avuta la minima idea. Improvvisamente la guerra era ridivenuta una questione di popolo; ciò, in una nazione di 30 milioni di abitanti, considerantisi tutti cittadini dello Stato. In seguito alla partecipazione della nazione alla guerra, invece di un Gabinetto e di un esercito fu tutto un popolo che gravò con il suo peso naturale sulla bilancia. Da quel momento i mezzi impiegabili, gli sforzi possibili non ebbero più un limite conosciuto; l’energia che si poteva imprimere alla guerra non aveva più contrappeso; e in conseguenza, il pericolo per l’avversario divenne estremo. E così l’elemento della guerra, sbarazzato da ogni barriera convenzionale, irruppe con tutta la sua violenza naturale” (Carl von Clausewitz, Della Guerra)

9. Perry Anderson, Dégringolade, London Review of Books, sett. 2004