E’ stato l’attuale Presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, che aveva sostituito Robert Mugabe alla guida del paese due anni fa, a comunicare la notizia del suo decesso dopo una grave malattia su cui non sono stati forniti troppi dettagli, definendolo “un’icona della liberazione, un panafricanista che aveva dedicato la sua vita all’emancipazione del suo popolo: il suo contributo alla storia della nostra nazione e del nostro continente non sarà mai dimenticato”. Dichiarando, comunque, che era un uomo “con grandi idee ma che non riusciva a trasformarle in realtà” e che “ognuno di noi ha un lato migliore e uno peggiore. Il mondo deciderà come ricordare Robert Mugabe”.

Nell’immaginario collettivo, in particolare in Occidente, Mugabe era considerato uno dei peggiori dittatori africani se non del mondo. Divenuto primo ministro del suo paese dopo la caduta del regime segregazionista del bianco Ian Smith, che praticava una politica di apartheid ancor più estrema di quella del vicino Sudafrica, non aveva tardato a sostituirne il nome anglo-boero di Rhodesia con quello di Zimbabwe, come l’antica ed importante civiltà africana che aveva regnato su quelle terre secoli prima. A Mugabe, del resto, si doveva il merito d’aver combattuto contro quella tirannide di cui ben presto soprattutto l’Occidente s’era dimenticato, preferendosi concentrare su quella del nuovo arrivato.

Nel 1987 era quindi diventato Presidente, con una politica sempre più rigida ed intransigente, che rifletteva probabilmente anche l’avanzare della sua età e che aveva, proprio per questo motivo, dei curiosi parallelismi con la vicenda umana e politica di un altro grande protagonista della decolonizzazione africana, il Presidente tunisino Habib Bourguiba, il “Combattente Supremo” che, partito con posizioni legate ad un socialismo moderato, col tempo s’era fatto sempre più estremo fino ad esser poi destituito col famoso “colpo di Stato medico” voluto dal successore Ben Ali a causa degli evidenti limiti a governare dovuti alla sua senilità.

Nel 2017 era stata proprio l’improvvisa decisione di Mugabe di licenziare Mnangagwa, detto “il Coccodrillo”, a quel tempo suo vicepresidente e capo degli apparati di sicurezza, a porre le basi per la sua caduta. In una situazione dove il vecchio Mugabe era ormai sempre più vittima della giovane moglie Grace e di una parte dei suoi ministri, che lo manipolavano sempre più apertamente, apparve subito chiaro a Mnangagwa che si dovesse provvedere prima che fosse troppo tardi. Sebbene Mnangagwa avesse dato a Mugabe tutte le rassicurazioni del caso, questi aveva preferito abbandonare il paese, mentre la moglie e l’amante ex ministro fuggivano altrove, a dimostrazione di quanto fedeli fossero verso di lui. Lo stesso partito di Mugabe, lo Zanu-PF, consapevole della gravità della situazione, aveva approvato l’azione di Mnangagwa insieme a molti generali dell’esercito e ad alte personalità delle istituzioni nazionali. Addirittura, lo Zanu-PF, che successivamente avrebbe privato Mugabe della presidenza, s’era comunque precedentemente dichiarato pronto a portare avanti la destituzione del vecchio capo di Stato qualora il gruppo di potere intorno a Grace non fosse stato spazzato via.

Con la morte di Mugabe, ormai in esilio a Singapore, si chiude dunque una ricca pagina di storia africana, su cui ancora molto è da raccontare. Fu sicuramente una figura di spicco nella storia del suo Continente e nel processo di liberazione contro il neocolonialismo che, nel suo paese, era tristemente rappresentato dai segregazionisti di Ian Smith, e sempre con la medesima statura storica e politica si distinse nel panorama dei “Non Allineati”. Malgrado l’autoritarismo e i gravi errori economici legati all’imprudente e storicamente anche tardiva politica di “nazionalizzazione africana” dell’agricoltura del proprio paese, riuscì ad impedire che lo Zimbabwe facesse la fine di altre nazioni del Continente e che ben presto gli interessi neocoloniali occidentali hanno privato dei loro governi progressisti e della loro emancipazione per normalizzarle e ricondurle alla sottomissione politica ed economica. Anche il contributo che diede all’indebolimento del regime segregazionista sudafricano, nelle guerre che quest’ultimo combatteva in Angola e Namibia, ugualmente non dev’essere dimenticato.

Probabilmente, agli occhi degli interessi occidentali, Mugabe pagò soprattutto per il fatto di non essere stato al loro gioco, quando fin dai primi giorni del potere lo cercarono per corteggiarlo e blandirlo nella speranza d’impossessarsi, tramite lui, dello Zimbabwe. Sbatté loro la porta in faccia, e non glielo perdonarono mai, anche perché tenne sempre duro pure in seguito. Quando, poi, in un clima di crescente boicottaggio internazionale, aprì le porte alla Cina, facendo del suo paese uno dei primi e più strategici “hub” di Pechino nel Continente Africano, e addirittura arrivò ad utilizzare lo yuan per risolvere il problema dell’iperinflazione di cui lo Zimbabwe era ormai preda, l’avversione verso Mugabe raggiunse il parossismo.

L’immagine negativa di Mugabe in Occidente, e anche in quella parte di Africa che delle narrazioni occidentali si nutre e ne è pienamente vittima, rimarrà sicuramente a lungo, per decenni, come del resto è successo ad altri leader nazionalisti del Continente Africano morti prima di lui. Ma, checché ne dicano certi “Soloni” occidentali, non fu né il sosia di Mobutu dello Zaire né di Bokassa della Repubblica Centrafricana, o di altre figure che, spesso proprio col sostegno dei governi dei paesi di questi Soloni, poterono darsi indisturbati e spesso venendo persino lodati agli spargimenti di sangue, alla cleptocrazia e ad ogni altra forma di aberrazioni proprie del potere più sfacciato e spregiudicato.