Roberto Mancini è stato uno dei più grandi talenti espressi dal calcio italiano negli ultimi trentanni assieme a Roberto Baggio, Francesco Totti ed Alessandro Del Piero. Il secondo golden boy del calcio italiano (dopo Gianni Rivera naturalmente!) ha infatti regalato autentiche magie sul rettangolo verde fin da quando a sedici anni ha esordito nella massima serie con la maglia del Bologna. Trascinare i propri compagni a vincere due scudetti con due outsider come Sampdoria e Lazio, seppur di lusso, è un’impresa che in Italia è riuscita a pochissimi calciatori e questo è un merito che a Mancini è stato poche volte riconosciuto.

Che Mancini Roberto da Jesi sia un tipo tosto e dal proverbiale carattere forte si può evincere dai suoi continui litigi avuti in passato con commissari tecnici italiani, Bearzot, Vicini, Sacchi, e dal fatto che sia a Genova che a Roma abbia sempre fatto la voce grossa nello spogliatoio. Un allenatore predestinato, un condottiero nato quindi, ma è qui che come si suol dire casca l’asino: se la carriera del Roberto Mancini calciatore è stata per un certo verso inattaccabile e per certi versi sottovalutata a causa del cattivo rapporto con la casacca azzurra (in un’epoca in cui furoreggiava un certo Baggio), quella del Mancini allenatore lascia più di qualche perplessità.

Smessi gli scarpini da calciatore nell’estate del 2000, il Mancio ha subito iniziato a studiare da tecnico diventando il vice di un santone come Sven Gӧran Eriksson. Il ruolo di vice però sta stretto ad una primadonna come Mancini che così a gennaio vola in Inghilterra andando a giocare con il Leicester, non ancora in odor di favola. È dal marzo 2001 che la carriera sportiva dell’ex fantasista doriano conosce un’improvvisa impennata: la Fiorentina ha appena esonerato il focoso Fatih Terim e l’altrettanto focoso Cecchi Gori è alla ricerca di un nuovo tecnico. La scelta cade proprio su Roberto Mancini, che a trentasette anni debutta così sulla panchina di una delle famigerate “sette sorelle”: precoce come calciatore, il Mancio lo è altrettanto come allenatore. Piccolo particolare: la società è vicina al collasso ed è controllata dalle banche dei Geronzi, la cui figlioletta Chiara è assieme a Mancini uno degli azionisti di riferimento (con il 40%) della famigerata GEA, una sorta di lobby di procuratori sportivi contenente tutti i più grandi figli/e dei personaggi più illustri che maneggiavano allora il calcio italiano (Moggi, Lippi, Tanzi, Cragnotti, Geronzi).

C’è un piccolo problema, anzi due piccoli problemi: uno Mancini è ancora tesserato per la Lazio, due non ha nemmeno il patentino per allenare. Grazie al salvifico intervento del presidente della Federcalcio Petrucci, un democristiano buono per tutte le stagioni, Mancini può sedersi sulla panchina viola nonostante la contrarietà dell’Assoallenatori. La primissima esperienza viola è relativamente buona per il Mancio, i suoi ragazzi infatti vincono la Coppa Italia contro il Parma di Ulivieri, dall’estate 2001 però la musica cambia in riva all’Arno perché la società è sempre più vicina al fallimento. Persi tutti i pezzi più pregiati (Toldo, Rui Costa, Řepka) e in balia dei disastri societari, un allenatore inesperto come Mancini può poco e dopo diciassette partite saluta la compagnia: chi verrà dopo di lui (Ottavio Bianchi, Luciano Chiarugi) non riuscirà a salvare i gigliati dal fallimento sia sportivo che societario.

Nell’estate 2002 c’è un’altra società controllata dalle banche di Geronzi che sta per rimetterci le penne, la Lazio di Sergio Cragnotti, il cui figlio Andrea è stato tra i soci fondatori della GEA, indovinate chi si presenta ad allenare i capitolini? Già proprio lui, Roberto Mancini! L’esperienza sul Tevere è ottima: nonostante una società allo sbando che ha venduto i pezzi da novanta Nesta e Crespo, la squadra gioca un ottimo calcio e alla fine del girone d’andata è a solo tre punti dal Milan capolista. Lo schema di Mancini palla a Corradi e sponde per gli inserimenti di Claudio Lopez e Stanković è semplice ma fruttifero, anche se a fine stagione il bel giocattolo s’inceppa: in semifinale di Coppa UEFA la Lazio becca quattro pere dal sorprendente Porto di José Mourinho mentre nelle ultime giornate la squadra termina in apnea conquistando comunque un ottimo quarto posto.

L’anno successivo, nonostante la società sia prossima alla liquidazione, il Mancio riesce a chiedere (ed ad ottenere!) un cospicuo aumento d’ingaggio (da 1.5 a 7 miliardi di Lire!) nonostante la maggior parte dei suoi giocatori si siano ridotti lo stipendio per poter andare avanti con il famigerato piano Baraldi! Sul finire di stagione, dopo essere stato a lungo tra le prime quattro, la squadra di “rosichello” (questo il soprannome romano di Mancini per la sua idiosincrasia nei confronti delle sconfitte) improvvisamente s’inceppa e perde la lotta per la Champions League in favore dell’Inter, guarda caso il prossimo club di Mancini! Da vero predestinato però Mancini se ne va da Roma con un’altra Coppa Italia in bacheca, battendo in finale nientepopodimeno che la magna Juventus: si chiude così un ottimo biennio per Mancini che sulla panchina biancoceleste si è segnalato come uno dei tecnici emergenti nel panorama calcistico italiano.

Arrivato ad Appiano Gentile Mancini entra subito nelle grazie di Massimo Moratti, che vede nello jesino il tecnico ideale per lanciare definitivamente il suo club. L’inizio della nuova avventura a Milano è però interlocutorio: la squadra nerazzurra non vince nemmeno per sbaglio collezionando undici segni X in tredici giornate: la famosa “pareggita” ha colpito il Mancio in versione meneghina! Mancini così decide di cambiare qualcosina: sposta Veron sulla fascia e in mezzo al campo mette il doppio mediano (Cambiasso-Zanetti), i risultati migliorano e grazie ad un grande Adriano l’Inter risale la china classificandosi al terzo posto. L’anno successivo ci si aspetta il definitivo salto di qualità, ma in attacco l’Inter fa fatica a concretizzare la grande mole di gioco espresso e in campionato giunge un altro terzo posto, addolcito dalle vittorie della Supercoppa italiana e della Coppa Italia (trofeo in cui Mancini è abbonato) ma rovinato dalla brutta eliminazione in Champions League per mano del Villarreal ai quarti di finale.

Nel frattempo però scoppia Calciopoli e per l’Inter inizia il vero spartiacque della propria storia recente: l’odiata Juventus viene retrocessa in B mentre Milan, Lazio e Fiorentina partono fortemente penalizzate. Mancini pensa che sia la volta buona per portare a casa un campionato e, sull’esempio della Juventus capelliana, cambia completamente i connotati tecnici della sua squadra con l’acquisto a peso d’oro zecchino di Vieira e Ibrahimović che portano in dote muscoli e chili, anche troppi. In campionato arrivano praticamente sole vittorie (giocando però praticamente contro nessuno!) ma in finale di Coppa Italia la corazzata nerazzurra viene travolta 6-2 dalla più tecnica Roma di Spalletti nella finale di andata. In Champions poi è andata addirittura peggio con una vergognosa eliminazione agli ottavi di finale contro il Valencia. La stagione 2007/08 inizia come quella precedente con l’Inter che sembra uno schiacciasassi in patria, poi però all’improvviso tutto crolla: infortuni, litigi, nervi a fior di pelle. Il colmo viene raggiunto l’11 marzo 2008, ottavo di ritorno di Champions League: l’Inter perde 1-0 in casa contro il Liverpool operaio di Rafa Benitez ed è ancora estromesso anzitempo dalla Champions League. Mancini, dopo essersi mandato a quel paese a più riprese con i suoi giocatori nel corso del match, annuncia davanti alle telecamere che sarà l’ultimo anno sulla panchina nerazzurra. Le ultime giornate di campionato sono una sofferenza: sconfitta contro un Milan demotivato alla terzultima giornata, rocambolesco 2-2 contro il Siena a San Siro alla penultima, all’ultimo turno sul campo del pericolante Parma al 45’ il punteggio è ancora bloccato sullo 0-0, Ibra però decide di alzarsi dalla panchina e sotto il diluvio trascina i suoi con una doppietta al terzo scudetto dell’era manciniana: il primo di cartone vinto a tavolino (2005/06), il secondo contro i morti, il terzo al fotofinish!

Dopo un anno lontano dai campi, nel dicembre 2009 Robymancio si accasa sulla ricca panchina del Manchester City, club ambizioso appena passato agli sceicchi. Al primo anno perde l’accesso alla Champions finendo quinto (pazienza, tanto la squadra mica l’ha costruita lui!), l’anno successivo giunge sì terzo ma dopo essersi fatto comperare il mondo intero dal suo munifico presidente (Kolarov, Touré, Boateng, David Silva, Milner, Balotelli per una spesa complessiva di 150 milioni di Euro!). Il 2012/13 sembra l’anno buono finalmente: l’acquisto milionario di Aguero (45 milioni) sposta gli equilibri e i citizens giocano un grande girone d’andata mettendo in mostra un ottimo calcio; poi al ritorno, come spesso accade a Mancini la squadra si blocca, scende in campo impaurita e inizia ad avere il proverbiale braccino corto. Lo United della vecchia volpe Alex Ferguson nel frattempo rimonta e si porta sempre più vicino ai cugini più sfigati. All’ultima giornata al City manciniano basta una comoda vittoria per laurearsi Campione d’Inghilterra, invece succede che al 90’ il Queens Park Rangers sia addirittura avanti 2-1. Nell’infinito recupero emerge lo smisurato orgoglio delle casacche celesti che, complice un avversario che ha improvvisamente mette da parte la proverbiale tempra britannica, si scansa permettendo prima a Ďzeko (92’) e poi ad Aguero (94’) a regalare un titolo sudatissimo quanto fortunoso. Va meno bene la stagione successiva: il City giunge secondo a meno dieci dallo United ed in FA Cup perde una finale comodissima contro il piccolo Wigan! Ma i veri scempi Mancini li compie in Champions League dove, nonostante disponga di un’autentica corazzata, riesce a non passare il gironcino iniziale per ben due volte consecutive dando sempre l’impressione di essere in completa balia degli avversari, non è un caso che con Pellegrini sia migliorato il rendimento europeo oltre che il palmares della seconda squadra di Manchester.

Il resto è storia recente: il 30 settembre 2012 Mancini subentra per una seconda volta a Terim, questa volta in Turchia sulla panchina del Galatasaray, riesce a centrare un buon secondo posto e pure lo sfizio di eliminare la Juve di Conte agli ottavi di finale; sarà il Chelsea di Mourinho, altro personaggio che incrocia spesso i destini del Mancio a mandare a casa i turchi ai quarti di finale. Il 14 novembre 2014 Mancini decide di ritornare all’Inter in sostituzione dell’odiatissimo Walter Mazzarri, della serie a qualcuno piace fare il salvatore della patria! Nonostante gli acquisti di Brozović, Shaqiri e Podolski e la volontà del nuovo tecnico di giocare con difesa alta e possesso palla, la squadra non riesce andare oltre all’ottavo posto. In estate altro walzer, altri giri di mercato (gli strapagatissimi, Kondogbia, Perišić oltre all’esperto Miranda) e altre elucubrazioni tattiche manciniane: basta possesso palla, basta difesa alta, meglio piazzare tre pachidermi a centrocampo e lasciare il povero Icardi a inventare qualcosa in attacco. Inutile dire che dopo un buon girone d’andata, costellato da tantissimi 1-0 e da altrettanti miracoli di Handanović, la squadra sia letteralmente collassata tra continui cambi di modulo, turnover e scelte di formazione senza senso (Mancini pretende in sede di mercato tre nuovi terzini e poi fa giocare sempre Nagatomo e D’Ambrosio!), litigi e baruffe con giocatori e avversari (chiedere a Sarri).

Adesso Mancini, a due settimane dall’inizio del campionato, ha deciso di piantare tutto dopo che la società non ha assecondato i suoi desideri (ma portandogli in dote gli ambiti Banega e Candreva!). L’ennesima caduta di stile di un ex artista del calcio finito a fare il bulletto di periferia su una panchina: se l’Inter si è confermata pazza, Mancini si è confermato inadeguato a gestire squadre di un certo livello.

Francesco Scabar