In questi giorni si sta discutendo di un nuovo piano di rimpatrio dei musulmani Rohingya fuggiti in Bangladesh dal Myanmar, che sta terrorizzando questa comunità ammassata nel più grande campo profughi del mondo di Cox’s Bazar. Nonostante i precedenti impegni del governo birmano sul ritorno dei rifugiati Rohingya su una base sicura, dignitosa e volontaria, annunciati il 15 novembre 2018, secondo le Nazioni Unite non sussisterebbero ancora le necessarie condizioni di accoglienza nello stato di Rakhine, da cui i circa 700mila Rohingya sono fuggiti in un esodo di massa a partire dall’anno scorso.
Come riportato in un report di Human Right Watch del 19 dicembre 2018, il Myanmar sta peraltro sciogliendo la sua commissione di inchiesta sugli abusi nello stato di Rakhine perché era e resta chiaramente riluttante a indagare seriamente sui presunti gravi crimini contro l’etnia Rohingya. In una conferenza stampa del 12 dicembre 2018, Rosario Manalo, presidente della Commissione Indipendente di Inchiesta, ha dichiarato che la commissione non aveva trovato “alcuna prova” a supporto delle accuse di violazioni dei diritti umani nei quattro mesi da quando ha ufficialmente aperto la sua indagine. La sua dichiarazione mostra come la commissione non tenga conto delle numerose prove e delle testimonianze raccolte dalle Nazioni Unite, dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani da quando nel 2016 è scoppiata la violenza nello Stato di Rakhine.
La leader della Lega per la democrazia e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi (vi ricordate di lei? Un tempo era considerata una santa…) si barcamena come meglio può. Per i birmani i Rohingya sono solo un residuato dell’impero britannico e dovrebbero tornare in Bangladesh, da dove sarebbero arrivati nel diciannovesimo secolo. Se scegliesse di difenderli, Aung San Suu Kyi potrebbe perdere l’appoggio dell’opinione pubblica birmana, tanto più che dopo decenni di persecuzioni i Rohingya più radicali hanno imbracciato le armi e hanno attaccato i soldati. Aung San Suu Kyi non può nemmeno sorvolare sulla morte dei soldati birmani ad opera dei ribelli Rohingya senza fare il gioco dei generali. Cammina sempre su un filo sottile, in una Birmania che è un mosaico etnico la cui unità è estremamente fragile ed è imbrigliata sia dal governo militare che dalla presenza cinese. I Rohingya non sono peraltro gli unici ad essere perseguitati: i Karen subiscono da decenni gli attacchi armati dei militari birmani e sono costretti a fuggire nella confinante Thailandia, dove vivono senza speranza in campi profughi dove regna la disperazione.
Almeno 42 agenzie umanitarie internazionali hanno pertanto firmato una lettera congiunta esortando il Bangladesh e il Myanmar a riconsiderare il loro piano di rimpatrio. Sostengono infatti che il ritorno “involontario” dei rifugiati in Birmania sarebbe una “violazione del principio fondamentale di non respingimento”, il principio-base concordato a livello internazionale secondo cui i rifugiati non possono essere restituiti a paesi in cui giustamente temono la persecuzione.
I Rohingya sono circa un milione di persone che parlano bengali e che fino alla fine dell’anno scorso vivevano nello stato del Rakhine, in Birmania. Poi l’esercito birmano li ha attaccati accusandoli di essere degli immigrati irregolari. Migliaia di persone sono state uccise, decine di migliaia stuprate, i loro villaggi sono stati dati alle fiamme e oggi 700mila Rohingya vivono nei citati campi profughi oltre il confine con il Bangladesh. Ma nemmeno il povero Bangladesh li vuole, visto che la maggior parte di loro non ha alcun legame con il paese nonostante la lingua parlata sia il bengali.
Come siamo arrivati a questo? In tutti i paesi del Sud-Est asiatico, caratterizzati da secoli di pluralismo religioso ed etnico, le minoranze etniche sono sempre più a rischio, come ho rappresentato nel mio ultimo volume dedicato al Vietnam del Nord (Vietnam del Nord. Minoranze etniche e doposviluppo, Besa editrice, 2018). A ciò non sfugge anche la Birmania, dove oltre alla maggioranza bamar (che rappresenta i due terzi della popolazione) sono presenti almeno altri otto gruppi etnici minoritari, cui si aggiungono appunto i Rohingya, privati della cittadinanza dalla dittatura militare birmana fin dal 1982. Rappresentano solo il 2% della popolazione birmana ed erano concentrati nello stato di Rakhine (ex Arakan) dove vivevano pacificamente. Ma la paranoia contro gli islamici è cresciuta negli anni nell’ambito della maggioranza buddhista, che vede la loro fede minacciata: i fedeli vengono sempre più aizzati dai predicatori buddhisti che fanno carriera predicando l’odio e la paura (ogni mondo è paese).
Dietro lo stigma religioso si attua così un vero e proprio genocidio. In realtà i Rohingya sono birmani, nel senso più ampio del termine, tanto quanto qualsiasi altra minoranza riconosciuta. I primi musulmani di lingua bengali sono arrivati in realtà nello stato del Rakhine già nel quindicesimo secolo: erano soldati che aiutavano un re in esilio a riconquistare il suo trono. L’ultima significativa ondata migratoria risale al XIX e ai primi anni del XX secolo. Adesso siamo nel XXI secolo e le azioni dell’esercito birmano non hanno giustificazione alcuna: capire tutto non significa perdonare tutto. Né ci sono giustificazioni per la vincitrice del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi.
Come ha dichiarato nel 2017 Olav Njoelstad, segretario del comitato norvegese per il Nobel, il premio “è conferito per un’impresa o un risultato, degni di essere premiati, compiuti nel passato”. Dopo averlo vinto ci si può pertanto rendere corresponsabili di qualsiasi crimine?
Alessandro Pellegatta