Putin, Trump

Donald Trump, dopo le minacce di inizio settimana, quando via twitter alludeva a un eventuale lancio di missili intelligenti contro la Siria e le postazioni russe in Siria, ieri mattina presto ha ritrattato le sue dichiarazioni.

Il presidente degli Stati Uniti sostiene di non aver mai detto di voler attaccare presto in Siria, anzi forse questo attacco non avverrà mai. La questione siriana più di ogni altro tema sancisce la fragilità di questa amministrazione, nata con mille difficoltà, a partire dalla demonizzazione che sin dalla campagna elettorale, la sinistra liberale obamiana e i falchi repubblicani, grazie ai loro media, hanno fatto del miliardario di Manhattan.

Un ostruzionismo che è continuato anche dopo che la Clinton, principale sponsor dei guerrafondai negli Usa, ha perso le elezioni. Le pressioni del cosiddetto Deep State nell’ultimo anno e mezzo sono stati così forti da indurre Trump a cambiare gran parte della sua squadra iniziale. Soprattutto le accuse di amicizia con la Russia e il relativo Russiagate hanno indotto il presidente repubblicano a cambiare ben 16 funzionari in un solo anno e litigare (?) con il suo consigliere ultraconservatore Steve Bannon. Addirittura Trump ha dovuto declassare il genero, al quale recentemente sono stati negati i pass per i documenti top secret.

Donald Trump in realtà non è mai stato un sostenitore della guerra in Siria ed è stato per tutta la sua campagna elettorale persino un nemico della NATO, ma entrato alla Casa Bianca è dovuto giungere a più miti consigli. Con l’avvento delle elezioni mid-term Trump deve a tutti i costi consolidare la propria leadership, con una vittoria il presidente potrebbe portare dalla sua parte quei membri del GOP che finora sono rimasti scettici sulla sua leadership e dare valore al programma politico seguito dal tycoon nei suoi primi due anni di presidenza.

Trump si trova quindi in una posizione insolita per il suo carattere intemperante, ma a modo suo cerca di assumere una posizione democristiana, soprattutto sui temi caldi come la Siria e i rapporti con la Russia. Una posizione che lo rafforza all’interno dei confini statunitensi, ma lo condanna a lasciare il fianco agli occhi dei partner e degli avversari in politica estera. Ciò non è sfuggito al Cremlino, che attraverso le dichiarazioni del vice Primo Ministro Arkady Dvorkovich, ha preso di mira il 45° Presidente degli Stati Uniti: “I rapporti internazionali – osserva il vice di Medvedev – non dovrebbero dipendere dall’umore di un singolo, quando si sveglia la mattina”.

In effetti poche volte si è visto un Capo di Stato o di un esecutivo minacciare guerra con tanta nochalance e poi ritirarsi dalle sue stesse dichiarazioni minacciose. Alcuni aaalisti e diplomatici sostengono che ora è difficile per Trump venire meno a simili promesse belliche, ma chi fa questo tipo di analisi non ha capito ancora seriamente il fenomeno Trump né il suo carattere tremendamente populista e informale. Intanto i partner europei hanno ben poca voglia, nonostante le chiacchiere e i gli intellettuali prezzolati, di condurre un’altra guerra in Medio Oriente: la Merkel da tradizione tedesca non si immischia negli affari dei paesi arabo-musulmani, la Germania è da sempre interessata all’est-europeo.

I britannici sulla questione siriana sono tornati ad avere buoni rapporti con Trump, ma è difficile capire se davvero ci sarà una qualche iniziativa sul campo. Nella mente degli Usa e dei partner europei c’è la consapevolezza della difficoltà di districarsi in quel pantano che è il Medio Oriente. La guerra in Iraq non è mai finita, idem si può dire per l’Afghanistan. La Libia è senza un vero governo da 7 anni e i terroristi imperversano. L’Italia nonostante l’imperialismo quasi ostentato del PD si è dichiarata disponibile a dare supporto logistico, ma non parteciperà a nessun intervento militare.

La Francia invece ancora una volta spinge Washington affinché si attacchi Assad. Macron in questo sembra non essere molto differente da uno dei suoi predecessori, come Nicolas Sarkozy, che convinse il Segretario di Stato dell’epoca, Hillary Rodham Clinton, ad attaccare la Libia di Gheddafi. Lo stesso Gheddafi che finanziava il partito dei neogollisti guidato dallo stesso Sarkozy.

Il presidente francese, che ha battuto i pericolosissimi nazisti della Le Pen, vuole ora muovere guerra a un paese sovrano, dichiarando al mondo di avere le prove di un coinvolgimento del governo di Assad nell’attacco chimico di Douma dei giorni scorsi. Macron si riduce quindi a un Colin Powell qualunque, ma potrebbe fare ben presto la fine di Sarkozy.

Mirco Coppola