
Una mostra dedicata all’evoluzione urbanistica di Mogadiscio, con la ricostruzione della città com’era prima della guerra civile, è stata inaugurata in questi giorni nella capitale somala dal viceministro degli Esteri italiano Emanuela Del Re, dall’ambasciatore Carlo Campanile e dal sindaco locale Abdirahman Osman Yarisow. Secondo fonti locali, la mostra sta avendo un grande successo di pubblico e la speranza è che contribuisca a sensibilizzare i cittadini di Mogadiscio e l’opinione pubblica internazionale su ciò che resta del patrimonio storico della città dopo le devastazioni del conflitto iniziato nel 1991.
L’esposizione è stata organizzata dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics). A Mogadiscio, dopo le tappe in Etiopia ed Eritrea, il viceministro italiano ha anche incontrato il presidente Mohammed Abdullahi, detto Farmajo. Un’occasione, questa, per annunciare nuove borse di studio per i giovani somali finanziate dall’Italia e un nuovo intervento per l’acquedotto di Mogadiscio.
Dopo una lunghissima assenza l’Italia torna pertanto ad interessarsi della Somalia, mentre continuano i raid aerei condotti dall’esercito USA contro i miliziani di al-Shaabab specie nel sud del paese, che spesso finiscono tuttavia per colpire anche la popolazione civile. Come lo Yemen la Somalia è un paese collassato ancora preda di un conflitto dimenticato, e dove i signori della guerra locali finanziano le proprie milizie attraverso il saccheggio, la pirateria, il traffico illegale della droga, dei rifiuti e del chat. E come nello Yemen il conflitto locale vede sulla scena anche l’intervento di attori globali, arabi e turchi, con l’Etiopia che teme che la Somalia possa diventare il cavallo di Troia per l’islamizzazione di tutto il Corno d’Africa. Non è certo una novità che Erdogan abbia messo da tempo gli occhi addosso alle coste somale, insieme al Qatar, e stia costruendo una nuova base militare turca a Mogadiscio nei pressi dell’aeroporto.
Clanismo e tribalismo, come in Libia e Yemen, impediscono una ricomposizione della crisi somala. Ma come siamo arrivati a questa crisi, a questa grave disintegrazione sociale e politica prima ancora che territoriale? Questo nessuno lo dice. La “verità” storica sulla Somalia affonda le radici nella presenza coloniale italiana e nella vicenda di Ilaria Alpi, che è stata uccisa oltre 24 anni fa. Non sono bastate due commissioni d’inchiesta e svariati processi per tentare di individuare gli esecutori materiali e i mandanti del suo brutale assassinio. Nel frattempo è scomparsa anche mamma Luciana. In questi 24 anni non siamo venuti a capo di niente. Peggio. Nel corso di questa terribile messa in scena politico-giudiziaria un ragazzo somalo (Omar Hassan Hasci) è stato ingiustamente condannato a 26 anni di reclusione (di cui 17 scontati in carcere) a causa di una falsa testimonianza di un altro. La sentenza della Corte d’Appello di Perugia che il 13 gennaio 2016 che ha assolto Hasci riporta di “condotte che generano sconcerto”: questa sentenza, nonostante il contenuto esplosivo dei rilievi dei giudici di Perugia, è passata incredibilmente sotto silenzio mentre avrebbe dovuto generare un terremoto istituzionale.
Con un percorso senza soluzioni di continuità dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Novanta del secolo scorso il colonial – fascismo italiano si è espresso per quello che effettivamente è stato. Dalla Società del Benadir alla Tangentopoli della Cooperazione italiana, che ha bruciato ben 1.400 miliardi di vecchie lire, la Somalia è stata per decenni il terreno delle nostre scorrerie, delle nostre malefatte e dei nostri (immutabili) vizi. Gli italiani non lo sanno e non lo vogliono sapere. Ogni tanto riemerge da questo blob qualche spezzone di notizia ma poi tutto ritorna nell’oblio: gli italiani preferiscono coltivare il loro immaginario collettivo intriso di falsi miti, di convinzioni e teorie giustificazioniste, e ancora oggi ignorano gli sviluppi delle lobby colonialiste e le lottizzazioni che la Cooperazione italiana avviò impunemente.
Quelle che di seguito troverete è la sintesi di una storia che resta ai margini della memoria italiana, una storia di “damnatio memoriae”. Che andrebbe comunque conosciuta per tentare di salvare quello che resta della Somalia, di Mogadiscio e del suo patrimonio storico e culturale a rischio di distruzione. E soprattutto per cercare di risollevare questo martoriato paese senza ricadere nei vizi e negli errori del passato.

La Società del Benadir
Anticamente, col termine Benadir (o anche Banaadir, plurale arabo di Bandar, dall’originario sostantivo persiano che significa “i porti”) si identificava tutta la costa somala, dal Golfo di Aden fino alla foce del Giuba. In base ad antichi documenti ritrovati a Mogadiscio che riportano le genealogie dei suoi abitanti, si suppone che il Benadir era in formazione già nell’VIII secolo. Fin dal Medioevo, in essa operarono stazioni commerciali della navigazione araba sulla linea dal Golfo Persico a Zanzibar. Ad un’originaria federazione tribale succedette nella prima metà del XIII secolo un sultanato, mentre nel XVII secolo la costa del Benadir fu colonizzata dagli Omaniti, che nel XIX secolo si divisero nei sultanati di Muscat e Zanzibar.
Il 18 novembre 1889 fu firmato a Londra, dal Direttore della Compagnia Britannica dell’Africa Orientale e dall’Incaricato d’Affari d’Italia, l’atto di trasferimento all’Italia dei diritti e privilegi di detta Compagnia sui porti del Benadir: il giorno successivo il nostro paese notificava alle potenze internazionali di aver assunto il protettorato. L’11 maggio 1893 il governo italiano sub concesse l’amministrazione del Benadir alla Compagnia Filonardi per la durata di tre anni.
Nel Benadir si sperimentò così un tipo di colonizzazione fondato, anziché sul dominio diretto dello Stato, sulla concessione di prerogative governative a una società commerciale privata, sul tipo delle chartered company inglesi. La concessione governativa alla Compagnia Filonardi aveva scadenza il 16 luglio 1896. Non intendendo il governo rinnovare il contratto alla Filonardi, Giorgio Mylius, finanziere e industriale cotoniero milanese, radunò altri industriali milanesi (tra cui Crespi e Carminati) e propose l’istituzione di una nuova società. Prima ancora che venisse costituita questa nuova società e prima ancora della scadenza della concessione della Compagnia Filonardi, il 15 aprile 1896 tra Mylius, Crespi, Carminati e il governo italiano era già stato sottoscritto un accordo preliminare.
Il 25 giugno 1896 verrà costituita la Società Anonima Commerciale Italiana per il Benadir (in breve Società del Benadir). Mylius possedeva 588 azioni (da lire 250 cadauna), e la Banca Commerciale Italiana Italiana ne aveva 400. La carica di amministratore delegato della Società del Benadir fu affidata a Carminati dal 1896 (che poi fu anche l’anno della disfatta di Adua) fino alla cessione del Benadir al governo italiano (1905), mentre la carica di Presidente di tale società fu assunta da Sanseverino Vimercati, che tra le tante cariche fu soprattutto Presidente della Banca Commerciale Italiana dal 10 ottobre 1894 al 31 marzo 1907.
La Società del Benadir era pertanto controllata da Mylius, finanziare, industriale cotoniero milanese e membro della Società d’esplorazione di Milano fondata da Manfredo Camperio. Crispi ottenne l’appoggio della Banca Commerciale Italiana per la costituzione della Società del Benadir grazie alla sua amicizia col suo presidente, il senatore Sanseverino Vimercati. Detta società avrebbe dovuto assicurare lo sviluppo civile, agricolo, commerciale e industriale del Benadir, e far rispettare le convenzioni internazionali contro lo schiavismo. La realtà dei fatti fu un’altra: gli ideali risorgimentali di Manfredo Camperio svanirono come neve al sole in una maldestra azione capitalistico-speculativa che si macchiò di gravi atti contro gli indigeni somali.
Il 25 maggio 1898 viene finalmente sottoscritta tra il regio Governo italiano e la Società del Benadir la tanto agognata convenzione per la concessione del Benadir. La Convenzione con la Società del Benadir reggerà fino al 1905, anno in cui il governo italiano subentrerà nel possesso del Benadir. Per tutta la sua durata l’operazione della Società del Benadir fu “viziata” da una lunga serie di errori. I programmi erano incerti, incerta la definizione del territorio, e affidare la repressione della tratta degli schiavi a una società privata equivaleva a non consentire l’applicazione della Convenzione di Bruxelles. La Società del Benadir non aveva un’adeguata capitalizzazione e le 400mila lire annue (a cui si doveva dedurre il canone annuo da corrispondere al Sultano di Zanzibar) corrisposte dallo Stato italiano non furono mai utilizzate per compiere alcuna opera infrastrutturale e di valorizzazione agricola, scopi che in realtà avevano formalmente ispirato la costituzione della società.
Come scritto da Anna Milanini Kemeny, “[…] la Società del Benadir costituì infatti uno dei più sporchi esempi di colonialismo di sfruttamento e di speculazione: incassò 400.000 lire all’anno dallo Stato italiano, incassò i dazi e i tributi della regione e non fece una sola opera pubblica. Giunse persino a praticare sottobanco il traffico degli schiavi, mentre apertamente basava la propria gestione sul lavoro servile secondo le tradizioni somale” .
E c’era inoltre un gigantesco conflitto d’interessi. Il Governatore del Benadir Dulio nei suoi atti ufficiali utilizzava la carta intestata della Società del Benadir, a dimostrazione di quanto “labile” fosse la linea di demarcazione tra ruolo “istituzionale” del Governatore del Benadir e la sua “compartecipazione” alla Società concessionaria, di cui era tra l’altro socio e consigliere di amministrazione, e ciò creò un grave conflitto d’interesse.
Le turbolenze nel Benadir tuttavia non cessavano, così come “qualche grave atto di autorità” di Dulio, che la citata Commissione Chiesi – Travelli ritenne “[…] riprovevole in chi aveva la rappresentanza di un Governo e di una nazione civile, e ne conosceva gli impegni formali, solenni, derivanti dalla firma data all’Atto generale di Bruxelles”. E anche il tenente di vascello Badolo, governatore di Merca, non era da meno: molto tollerante verso i riottosi capi delle tribù Bimal che circondavano Merca, imprigionò molti somali innocenti, e la sinistra fama delle sue prigioni si estese fino alle colonie inglesi e a Zanzibar. Nel 1902 furono avviate le prime inchieste di Pestalozza, a seguito delle denunce rivolte verso Dulio e Badolo (poi confermate nel 1904). La Società del Benadir fu accusata di negligenze nell’amministrazione civile e militare, di aver trascurato completamente il territorio, di non aver applicato le norme dell’Atto generale di Bruxelles contro la schiavitù, di aver operato in un caos finanziario e di non aver saputo garantire la sicurezza della colonia.
Lo scandalo della conduzione della colonia assunse dimensioni analoghe alla disfatta di Adua del 1896. In seguito all’inchiesta del 1904 la società fu posta sotto la vigilanza del nuovo console di Zanzibar Luigi Mercatelli. La relazione dei citati Commissari metterà in luce le gravi responsabilità di Dulio nella gestione, persona nella quale si cumulavano sia la carica di Governatore della colonia sia di rappresentante della Società del Benadir. Alla fine la Società del Benadir venne posta in liquidazione. L’intenzione del governo italiano di lasciar convivere nella colonia gli usi e costumi (schiavismo compreso) della società tribale tradizionale somala all’interno di un sistema coloniale e del suo modello di produzione e scambio capitalistici era miseramente fallito.
La Somalia dal 1905 all’avvento del fascismo. Gli schiavi della valle del Uebi Scebeli
Nel 1905 il governo di Roma assunse direttamente la gestione della sua colonia ponendo fine alla convenzione con la Società del Benadir. Nel 1908 si giunse a un’approssimativa delimitazione dei confini con l’Etiopia e la colonia del Benadir fu ribattezzata Somalia Italiana. Negli anni 1920, il fascismo promosse con decisione la cosiddetta “pacificazione del territorio”, in pratica il suo assoggettamento effettivo, cui seguirono l’insediamento di coloni e lo sfruttamento delle terre migliori per coltivazioni intensive. Come documentato da Angelo Del Boca nel suo “Italiani, brava gente?” (2005), subito dopo l’avvento al potere del fascismo Mussolini manda a gestire la Somalia uno dei quadrumviri che gli davano più fastidio, De Vecchi. Questi decide di trasformare il suo esilio in un momento di gloria e per farlo utilizza le opere di bonifica che sono state previste nella zona di Uebi Scebeli (il fiume più lungo dell’Africa orientale che era stato studiato dai primi colonialisti italiani e che, a causa della dorsale di dune costiere, non raggiunge il mare ma si perde nelle paludi del Balli), un comprensorio di 18mila ettari irrigato da una diga artificiale e diviso in una ottantina di concessioni.
Le concessioni vengono ovviamente tutte affidate a fascisti fedelissimi che De Vecchi, memore dell’eredità della Società del Benadir e dei programmi di colonizzazione agricola di Baratieri in Eritrea, si era portato dall’Italia e in esse vengono deportati in condizioni di schiavitù circa 7mila somali che lavoreranno gratis e in condizioni disumane per produrre il cotone, il ricino, il mais, la canna da zucchero, le banane, l’incenso e il kapok. Come scrisse, inascoltato, il federale Sarzanetti, questo lavoro forzato venne cinicamente mascherato nel 1929 da un contratto di lavoro che fu assai peggiore della vera schiavitù, poiché laggiù è stata tolta al lavoratore indigeno quella valida tutela dello schiavo che era costituita dal suo valore venale, tutela che gli assicurava almeno quel minimo di cure che l’ultimo carrettiere aveva per il suo asino, nella preoccupazione di doverne comprare un altro se quello moriva.
Graziani, il lager di Danane, la caduta dell’AOI e l’AFIS
Dalla fine del 1935 (anno dell’avvio della guerra all’Etiopia) fino al 18 marzo 1941 operò il lager di Danane, una località costiera somala posta tra Mogadiscio e Merca. Questo campo di concentramento per confinati politici ebbe le funzioni di imprigionare ufficiali inferiori, semplici soldati, oppositori politici e membri dell’amministrazione statale etiope, ma anche molti civili, in particolare in seguito alla repressione messa in atto dopo il fallito attentato a Rodolfo Graziani ad Addis Abeba del 19 febbraio 1937. A metà del 1936 la maggior parte degli internati erano soldati semplici amhara. A partire dal 1937, il governatore dell’AOI Rodolfo Graziani pianifica l’eliminazione delle alte autorità etiopi accusate di non collaborare con l’amministrazione italiana. Questi funzionari vengono internati a Danane con la qualifica di “criminali”.
All’inizio del novembre 1937 giungono a Danane anche 360 ragazzi superstiti del massacro di Debre Libanos compiuto da Graziani. In questo monastero etiopico, sospettando che esso fosse una base dei ribelli etiopi, il 20 maggio 1937 Graziani giustiziò 267 monaci, e dopo una settimana, non contento, ordinò anche l’uccisione di 129 giovani diaconi. Poi soddisfatto scrisse a Mussolini, dicendo che il monastero era stato chiuso in via definitiva. Per questo eccidio e per aver, sempre in Etiopia, usato gas tossici e bombardato gli ospedali della Croce Rossa, Graziani fu inserito nella lista dei criminali di guerra e condannato per collaborazionismo a 19 anni di carcere, ma uscì dopo soli 4 mesi. Fra giugno e novembre del 1937, anche un centinaio di residenti della zona di Debre Libanos vennero deportati a Danane, nel tentativo di cancellare la memoria sul massacro.
Sconfitta sul campo nella tragica e decisiva battaglia di Cheren (Eritrea) del 1941, con il trattato di Parigi del 1947 l’Italia perse la sua colonia, sottoposta all’amministrazione militare della Gran Bretagna; quest’ultima restituì non senza qualche esitazione l’Ogaden all’Etiopia e cercò di impedire il ritorno dell’Italia nella regione. Malgrado ciò, il 2 dicembre 1950 l’Assemblea generale dell’ONU, adottando il piano per la “federazione” dell’Eritrea all’Etiopia (che era fittizia e che innescò la rivolta eritrea e la successiva guerra per l’indipendenza), di fatto assecondò il disegno politico del Negus, risolvendo il problema dello sbocco al mare per l’Etiopia imperiale. L’ambasciatore italiano Alberto Tarchiani segnalò che il governo italiano si opponeva con forza all’annessione dell’Eritrea da parte dell’Etiopia, ma aggiunse che probabilmente l’indipendenza non avrebbe rappresentato il miglior sistema di protezione per gli Italiani residenti in Eritrea. Nella stessa sezione la citata Assemblea dell’ONU formalizzò in capo all’Italia l’amministrazione fiduciaria del territorio somalo (AFIS) per il periodo 1950-1960, con cui l’Italia si assicurava una presenza nel Corno d’Africa anche dopo la sua sconfitta e la fine del suo impero coloniale. Avendo avuto in contropartita l’amministrazione fiduciaria della Somalia, l’Italia lasciò così al loro destino gli eritrei.
L’AFIS fu ottenuta con l’appoggio USA (quando l’Italia non era ancora nelle Nazioni Unite) nonostante l’iniziale opposizione inglese e le proteste interne guidate dalla Lega dei giovani somali (LGS), culminate in un eccidio di italiani a Mogadiscio (gennaio 1948). Come contropartita, l’Italia non si oppose ai piani espansionistici del negus etiopico. La “marginalizzazione” della questione eritrea si rivelerà un tragico errore della diplomazia internazionale, e scatenò nei decenni successivi una guerra che è stata formalmente “ricomposta” solo nel corso del 2018.
Dalla fine dell’AOI agli interventi della Cooperazione italiana. L’uccisione di Ilaria Alpi. Le Commissioni d’inchiesta e l’Era Berlusconi
Con la soppressione del ministero dell’Africa Italiana e il fisiologico ricambio generazionale, come ha scritto Angelo Del Boca “[…] l’influenza della lobby colonialista si attenuò, senza però scomparire del tutto […]. All’influenza della lobby colonialista si sovrappose successivamente quella dei partiti di governo, i quali, a partire dagli anni Settanta, diedero vita al fenomeno mai sufficientemente deplorato della lottizzazione. Dopo la spartizione dell’Africa, attuata a Berlino nel 1884, si assisteva ad una seconda e non richiesta spartizione tra i partiti: alla DC andavano l’Etiopia, il Kenya, l’Egitto; al PSI la Somalia, il Mozambico, il Senegal e la Tunisia. E se la posta ambita della prima spartizione erano state le materie prime e la ricerca di nuovi mercati, la posta della seconda era la facoltà di poter gestire gli ingenti capitali della Cooperazione allo sviluppo, che soltanto negli anni Ottanta superarono i 37mila miliardi [di lire] …] Pur avendo profuso nel Corno d’Africa migliaia di miliardi [di lire], l’Italia non riuscì neppure a frenare il genocidio in Eritrea e ad impedire che la Somalia diventasse un solo campo di battaglia e finisse per scomparire dal novero delle nazioni sovrane”.
La cooperazione bilaterale Italia – Somalia si interrompe con il precipitare della situazione politica somala e l’esplosione della guerra civile. Dei 1.400 miliardi di lire destinati a detta cooperazione nel decennio 1981-1990 più dell’80 per cento è stato destinato alla realizzazione di progetti “fisici”, tra cui la famosa strada Garoe-Bosaso (che ebbe un costo sproporzionato e probabilmente servì per interrare rifiuti pericolosi) e il progetto di pesca oceanica della famigerata “Shifco”, su cui indagò la povera Ilaria Alpi. Il fallimento della Cooperazione italiana scontò uno strutturale difetto di programmazione e coordinamento, e subì pesantemente la logica degli interessi particolari espressi da aziende italiane, lobbies e gruppi di pressione, che niente avevano a che fare con gli interessi della Somalia.
Veniamo ora all’attualità e alla sua luttuosa scia di disastri e di sangue. Come noto, Ilaria Alpi fu trucidata il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Il 3 novembre dello stesso anno viene insediata la Commissione bicamerale d’inchiesta sulla Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo istituita il 17 gennaio 1993 a seguito agli scandali e alle ruberie politico-affaristiche della citata Cooperazione, che dovrà occuparsi anche del delitto Alpi-Hrovatin. Il 26 gennaio 1994 è anche il giorno dell’ingresso in politica di Silvio Berlusconi. In soli due mesi dalla sua “discesa in campo” alla guida di Forza Italia, Berlusconi vince le elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994.
Nel marzo 1996 la citata Commissione bicamerale d’inchiesta sulla Cooperazione chiude i battenti per lo scioglimento anticipato delle Camere. Il suo presidente propone una bozza di relazione conclusiva il 19 marzo 1996, il cui testo appare ambiguo, elusivo e omissivo, e soprattutto non dà alcun contributo concreto a ricostruire la verità dei fatti.
Dopo il calvario processuale degli anni 1996-2002, che porteranno alla condanna dell’innocente Omar Hassan Hashi (e che verrà assolto “per non aver commesso il fatto” solo il 13 gennaio 2016 dalla Corte di Appello di Perugia alla fine del processo di revisione), il 31 luglio 2003 viene insediata dalla Camera dei deputati la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. La maggioranza parlamentare è quella di Centro-Destra del governo Berlusconi, e a presiederla è l’avvocato (berlusconiano) Carlo Taormina.
La relazione conclusiva (di maggioranza) rilasciata il 23 febbraio 2006, dopo che i lavori della citata Commissione erano proseguiti nel corso del 2005 tra forti polemiche, manovre, veleni e le vibranti proteste dei commissari di opposizione, e dopo che nel corso di un intervista del luglio 2005 Taormina aveva dichiarato che parlare di “mandanti italiani” era solo “un’esercitazione di letterature giornalistica”, scatena l’indignazione dei genitori di Ilaria Alpi, che ravvisano fondati sospetti sulla volontà di pervenire ad una “innocua verità di Stato” tale da escludere responsabilità italiane e coinvolgimenti di apparati statali. Pesanti furono anche i rilievi di Taormina sul “giornalismo investigativo”, colpevole a suo giudizio di promuovere processi alle intenzioni. Solo i commissari di minoranza affermarono che il delitto Alpi-Hrovatin era collegato alla scoperta del traffico di armi e dei rifiuti tossici illegali, nel quali erano coinvolti apparati militari, intelligence, faccendieri e istituzioni italiane.
Le radici del conflitto somalo attuale
La Somalia oggi è tornata alla Cabila (dall’arabo kabilat) che significa tribù, e storicamente, come scrisse il tenente di fanteria Giacinto Vicinanza nel 1910, appare purtroppo essere (adesso come allora) l’unico consistente aggregato nella costituzione della società somala. Ancora oggi la Somalia è governata dal tribalismo, che ha messo addirittura in discussione la sua stessa identità di Stato-nazione, permettendo le infiltrazioni terroristiche di Al Qaeda e dell’Isis, la pirateria marittima, la creazione di Al-Shabaab e le spinte centrifughe del Somaliland e del Puntland.
La chiave di volta dell’ordine e del disordine politico in Somalia è tuttora il complesso sistema delle parentele, e la comprensione (anche solo minimale) delle relazioni politiche tra i vari gruppi richiede necessariamente una conoscenza non comune dei loro legami genealogici. Ognuna delle quattro principali famiglie claniche, o tol, è suddivisa in clan (golo), che a loro volta si dividono in sottoclan (laf) raggruppati in lignaggi (jilib).
Nell’antichità somala, il clan ha rappresentato per secoli lo strumento principale per disciplinare i rapporti all’interno della società nomadico – pastorale, e l’affiliazione clanica regolava l’accesso alle risorse, le consuetudini (a cui nel corso del tempo si è sovrapposta la sharia) e il sistema di compensazione tra i gruppi tribali (diya).I nuovi “signori clanici”, come ha scritto Guglielmo, “[…] hanno reso il legame di sangue il simbolo di una Somalia ormai in preda ad una schizofrenia politica in cui il clanismo rappresenta comunque un mezzo, e non la causa dello scontro”.
Anche al di là del Bab el-Mandel, la “porta del lamento”, lo stretto che divide il Mar Rosso dal Golfo di Aden, il sistema tribale sta “reggendo” anche le sorti dello Yemen. Al pari della Somalia, anche il governo yemenita dal 2011 ha in gran parte smesso di funzionare, e molti yemeniti si rivolgono ai capi tribù tradizionali e agli anziani del villaggio per mantenere l’ordine e usufruire dei servizi.
Conclusioni ( e speranze per un new deal)
Gli italiani hanno dilapidato ingenti capitali, puntellato dittature indecenti, dimenticato guerre che hanno dilaniato il Corno d’Africa, aggiunto nuove ingiustizie alle vecchie, e non hanno ancora preso atto delle loro colpe coloniali e post-coloniali. E c’è il rischio concreto che con la pacificazione tra Eritrea ed Etiopia riemergano i soliti consolidati interessi delle lobby colonialiste, col rischio di rivedere antichi vizi e disastri.
La guerra in Somalia è cominciata come una rivoluzione di popolo per cacciare il dittatore Siad Barre al potere dal 21 ottobre 1969 e sta continuando in una guerra tribale dai contorni globali. Barre aveva fatto vivere alla Somalia più vite e tutte egualmente folli. Il paese con lui era stato prima socialista e vicino all’Unione Sovietica, e poi, dal 1978, capitalista e vicino agli Stati Uniti. Aveva fatto entrare la Somalia nella Lega araba condannandola ad essere vassalla dell’Arabia Saudita. Aveva esasperato il culto della personalità e non aveva permesso alcun dissenso o alcuna opposizione politica. Siad Barre aveva trovato un ricco filone per arricchirsi con la Cooperazione italiana. Nel luglio 1990, trentamila spettatori hanno cominciato a fischiarlo durante una partita di calcio nello stadio di Mogadiscio, altri hanno cominciato a lanciargli pietre, e lui ha permesso che le forze di sicurezza facessero una strage. Intanto, nel nord del paese s’ingrossavano le file di un movimento di liberazione. Barre usò il pugno duro e migliaia di persone furono uccise. Iniziò la guerra civile e la grande diaspora della popolazione civile somala.
Molti somali si rifugiarono in Kenya e in Etiopia. Altri cercarono di raggiungere l’Europa, qualcuno fortunatamente ancora in aereo, anche se proprio tra il 1990 e il 1991 cominciarono i viaggi sui barconi che portarono molti somali a Lampedusa. Le Nazioni Unite decisero finalmente di intervenire. Era il 3 dicembre 1992. Con un rocambolesco sbarco i marines approdarono sulla spiaggia di Mogadiscio, ma sembravano cattivi attori di un copione scritto male, sembravano ragazzotti in gita. Arrivarono anche i militari italiani. Nel 1993, nei pressi del campo di Johar, “Panorama” pubblica le sconvolgenti immagini che documentano le sevizie inflitte ai somali dai parà della Folgore.
Il 2 luglio 1993 a Mogadiscio avvenne la battaglia del Pastificio, talvolta chiamata anche battaglia del checkpoint Pasta: in un terribile scontro a fuoco truppe italiane e i ribelli somali, questa verrà ricordata come la prima battaglia militare che vide impiegati i militari dell’esercito italiano dalla fine seconda guerra mondiale. Ilaria sarà trucidata proprio alla fine dell’operazione Restore Hope.
Il 14 ottobre 2017 Mogadiscio ha avuto il suo 11 settembre. Almeno trecento persone sono morte nell’esplosione di un camion bomba fuori dall’hotel Safari, a un incrocio in cui si trovano vari ristoranti frequentati da funzionari governativi. Due ore dopo, nel quartiere della Medina, c’è stata un’altra esplosione. Questi tragici eventi sono passati quasi sotto silenzio.
Oggi la Somalia resta in balia delle culture tribali, che portano i vari clan a interpretare tutto in chiave di competizione clanica. Anche le architetture storiche del Benadir sopravvissute allo scempio della guerra civile continuano ad essere viste non come un patrimonio del paese ma solo come opere dei Banaadiri. Secondo i clan di pastori attualmente egemoni, valorizzare questo patrimonio equivarrebbe ad attribuire qualità superiore alla cultura urbana del Benadir. E questo è inaccettabile per tali clan.
L’Asmara, la capitale eritrea, nonostante i conflitti e le devastazioni delle guerre con l’Etiopia ce l’ha fatta, soprattutto grazie alla tenacia degli eritrei che ne hanno preservato il suo tessuto urbano. Le altre capitali dell’Africa Orientale Italiana, Addis Abeba e Mogadiscio, sono state la prima aggredita dall’espansionismo urbanistico incontrollato e la seconda devastata dall’incuria e dalla guerra civile somala. Come ha scritto Teobaldo Filesi, “…Mogadiscio non esiste più o esiste come violazione di civiltà e come cancellazione della dignità umana” (Africa, giugno 1996).
La Somalia tenta oggi di uscire dalla crisi e avrà presto bisogno, come l’Eritrea, di tutelare ciò che rimane del suo passato e della sua identità. Anche Mogadiscio dovrà lasciarsi alle spalle una lunga storia di “damnatio memoriae” e ripartire. Qui operò tra gli Anni Venti e Quaranta l’architetto Carlo Enrico Rava, che realizzò nel 1934 l’albergo Croce del Sud e l’Arco di Trionfo valorizzando i caratteri costruttivi dell’architettura tradizionale banaadiri e declinandoli in chiave razionalista. Oggi l’albergo Croce del Sud, gravemente danneggiato dagli eventi bellici, è stato parzialmente inglobato in un centro commerciale.
Tutto il quartiere di Shingaani (Cingani) è ormai ridotto a un cumulo di macerie dopo vent’anni di guerre tribali e a causa della totale mancanza di norme che tutelino il patrimonio. Hamarwweyne (Amaruini) è rimasto miracolosamente quasi intatto, anche se soffre di grandi problemi infrastrutturali. Molti speculatori vorrebbero impadronirsi di ciò che resta di Shingaani, le cui rovine oggi restano orrendamente desolate a pochi metri dalla battigia, masticate dal sole e dilavate dal vento, abitate solo da profughi disperati.
Tutto però non è ancora andato perduto per Mogadiscio. Gli italiani oggi possono cercare di rimediare alle loro colpe e alle loro responsabilità storiche dando un concreto contributo alla tutela e valorizzazione di ciò che resta del patrimonio somalo. Ma occorre tornare anche sulle piste di Ilaria, e riscoprire il senso civico di questa giovane giornalista italiana caduta vittima dei turpi traffici della Cooperazione e che ebbe il coraggio di investigare in nome della verità. Per questo “ricordare” ha sempre la sua forza, e ridà una prospettiva profonda di giustizia e dignità, orientando l’eticità dell’azione.
Alessandro Pellegatta
Milano, dicembre 2018