Più di una favola!

Al mondiale di Italia ’90, dopo il Camerun c’è stata un’altra favola che ha monopolizzato le Notti Magiche, quella dell’Irlanda (o Éire in gaelico): quella dei boys in green, giunti alla prima qualificazione in assoluto ad una fase finale dei mondiali tra le prime otto squadre del mondo senza di fatto vincere una partita durante i tempi regolamentari, è un qualcosa di più di una fiaba dato che il suo inaspettato successo ha avuto anche importanti implicazioni a livello politico e sociale. Di fatto Italia 90’ ha posto sulla mappa dell’Europa calcistica la Repubblica d’Irlanda, una delle nazioni meno calciofile d’Europa dove tutt’oggi, a causa della secolare rivalità con i vicini inglesi, a farla da padrone sono gli sport tradizionali gaelici (il football gaelico e l’hurling su tutti). Tutto ciò è avvenuto grazie ad un indomito condottiero inglese che è saputo entrare come pochi nel cuore del popolo irlandese

1986, inizia la rivoluzione: panchina ad un inglese!

La favola dell’Irlanda nasce nell’estate del 1986 quando l’Irish Football Association compie una scelta rivoluzionaria ma allo stesso tempo sorprendente: affidare per la prima volta la panchina della nazionale Cenerentola tra le formazioni britanniche (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord vantano tutte più di una partecipazione ad una fase finale di un mondiale ed una tradizione calcistica di tutto rispetto, l’Irlanda no) ad un allenatore inglese. La scelta non cade su un inglese qualsiasi: all’anagrafe fa John Charlton ma per tutti è Jack (o Jackie, anche se è uno spilungone alto un metro e novanta!), è il fratello maggiore di Robert (detto Bobby), forse il più grande calciatore britannico di sempre, leggenda del Manchester United e componente della celeberrima holy trinity dei Red Devils assieme all’irlandese (del Nord) George Best e allo scozzese Dennis Law. Pur non possedendo il talento cristallino del fratello, Jack è stato una bandiera del Leeds United, dove ha giocato un ventennio (1953-73) per un totale di 629 presenze e 70 gol, davvero tanti per un centrale difensivo che faceva dell’abilità nel gioco aereo e nella rapidità il proprio punto di forza; a causa del fisico un po’ sgraziato e allampanato Jackie era stato ribattezzato dai tifosi come The Giraffe (la giraffa).

Jack ed il suo talentuoso fratello Bobby hanno giocato assieme solo in con la maglia della nazionale, assieme con la maglia bianca dei Three Lions hanno sollevato la Coppa del Mondo sotto il cielo di Wembley nell’estate del 1966, il punto più alto della storia della nazione inventrice del gioco del calcio. Il Leeds degli Anni Sessanta e Settanta, allenato da Don Revie, di cui Jackie Charlton era colonna indiscussa, era noto in tutta Europa per essere una delle squadre più “cattive” ed antisportive del panorama calcistico di allora e non a caso in patria era stato ribattezzato “Dirty Leeds”. Il gioco duro ed intimidatorio dei bianchi dello Yorkshire era particolarmente contestato dall’opinione pubblica, celebre è stato un duro scontro verbale durante una diretta TV tra Don Revie e l’istrionico tecnico Brian Clough (poi autore del miracolo del Nottingham Forest) e che ha anche ispirato un film di successo, Il Maledetto United.

“Big Jack” Charlton, che in tutta la sua lunga carriera di calciatore ha avuto di fatto solo tre allenatori (Raich Carter e Don Revie al Leeds, Alf Ramsey in nazionale) quando ha iniziato ad allenare non poteva discostarsi molto dai canoni dei suoi grandi maestri, tutti tecnici molto spicci e che badavano molto al sodo. Dopo aver guidato con discreto successo il Middlesbrough e lo Sheffield Wednesday per circa un decennio, il suo ultimo incarico è stato però un mezzo fiasco: Jack, che è un geordie purosangue (cioè un abitante dell’estremo Nord dell’Inghilterra) alla guida del Newcastle United, il club simbolo del Northumberland, nella stagione 1984/85 ha litigato spesso con i tifosi e con alcuni suoi giocatori di classe (Chris Waddle, Peter Beardsley) perché non condividevano la sua filosofia di gioco, basata su un gioco estremamente fisico fatto di continui lanci lunghi.

I fratelli Jack e Bobby Charlton si allenano con la Nazionale inglese

Put’em under pressure! Una filosofia calcistica discussa ma efficace

In Inghilterra si è soliti affermare che tra i Charlton, Bobby sia sicuramente il più bravo a giocare a calcio, ma che Jack umanamente sia una persona migliore e che sa entrarti nel cuore come pochi. Appena giunto tra mille perplessità sulla panchina dell’Éire, lo spilungone di Ashington capisce che per risollevare la Cenerentola del calcio britannico ha innanzitutto bisogno di conferire certezze ed autostima al proprio gruppo. Prima dell’arrivo di Charlton l’Irlanda praticava un gioco abbastanza scolastico, assai poco britannico per principi, contraddistinto da tanti passaggi orizzontali dove cardinale era il regista di centrocampo Liam Brady (che ha giocato tanti anni in Italia con la Juventus e l’Inter): in casa a volte funzionava ma in trasferta era quasi sempre notte fonda.

Charlton stravolge completamente questo canovaccio di gioco trapiantando Irlanda uno stile di gioco tipicamente inglese: basta con i passaggi corti, bisogna attaccare con continui lanci lunghi dalla difesa e traversoni dalle fasce. Così spiega Charlton il suo gioco con parole poi diverranno un celebre ritornello di una canzone in voga in Irlanda: “The game is about, being effective, being aggressive, winning the ball, getting it on with the play: we’ll put ‘em under pressure”. Già, il vero segreto del gioco di Jackie Charlton è il pressing, continuo, asfissiante e praticato in ogni zona del campo: per competere contro le grandi nazionali europee bisogna infatti correre, correre e ancora correre!

La cura Charlton si rivela subito a dir poco taumaturgica: inseriti in un girone a dir poco proibitivo per la qualificazione ad Euro ’88 assieme a squadre più quotate del calibro della Bulgaria, del Belgio e della Scozia i boys in green arrivano contro ogni pronostico primi nel girone. Agli europei di Germania 1988 tutti sia spettano i ragazzi di Jack Charlton come classica vittima sacrificale in un girone tostissimo con Inghilterra, Olanda e URSS. Invece l’Irlanda, pur non qualificandosi per le semifinali mostra di essere una squadra tignosissima e sempre sul pezzo: all’esordio gli irlandesi si superano sconfiggendo 1 a 0 gli arcinemici inglesi in un match storico, poi impattano con la quotata Unione Sovietica di Lobanovski (1 a 1) ed infine si arrendono solo all’82 (0 a 1) al cospetto dell’Olanda che poi vincerà quell’europeo.

A Italia 90’ l’Irlanda ci arriva giungendo seconda nel suo gruppo di qualificazione (il gruppo 6), togliendosi pure la soddisfazione di battere la quotata Spagna tra le mura amiche di Lansdowne Road. Nonostante la squadra sia imbattuta da oltre un anno e mezzo alcuni critici (gli ex calciatori Eamon Dunphy e John Giles, ex compagno di squadra di Charlton nel Leeds) lanciano una vera e propria crociata contro contro il gioco implementato da Jackie Charlton, definito semplicemente come “anticalcio”: l’impressione è che alcuni irlandesi non siano ancora affatto contenti che il loro exploit calcistico sia in gran parte merito di un inglese.

Lo storico gol di Ray Houghton contro l’Inghilterra ad Euro 1988

Una squadra d’acciaio

Big Jack intanto ha implementato un gruppo di ferro che per il proprio tecnico si butterebbe nel fuoco. Dopo aver giubilato i leggerini ed anzianotti Liam Brady e David O’Leary (i due giocatori più tecnici tra i verdi irlandesi) il fratello di Bobby ha costruito una squadra forgiata nell’acciaio con dei calciatori e degli uomini con dei valori davvero importanti che sembrano provenire da un’altra epoca calcistica. La squadra si schiera con il classico e canonico 4-4-2 di stampo britannico: il portiere è Patrick Bonner detto Packie, ha trentanni e proviene dall’Irlanda profonda, dal Donegal, una zona (che fa parte del discusso Ulster) dove ancora oggi la lingua gaelica è parlata e le tradizioni celtiche sono più vive che mai. Packie è uno spilungone alto e dinoccolato che sa farsi valere nelle mischie e nelle uscite, mentre è un po’ più vulnerabile sui tiri da fuori. Come molti irlandesi è un cattolico fervente tanto che durante il match si fa spesso il segno della croce, Bonner è comunque un uomo fortunato perché ha coronato il sogno di ogni calciofilo irlandese: da docici stagioni infatti veste la maglia del Celtic Glasgow, il club della comunità cattolica della città scozzese.

Nella classica linea a quattro a destra gioca Chris Morris (che ha sostituito la leggenda locale Mark Lawrenson, storico terzino del Liverpool), ventiseienne compagno di squadra di Bonner nel Celtic Glasgow. Non ha un cognome propriamente irlandese: è infatti nato da padre inglese e da madre irlandese in Cornovaglia, ma ha scelto di giocare per la nazione della madre. Morris è un classico terzino di taglia britannica: roccioso, duro nei contrasti e abilissimo sia a difendere che a spingere come uno stantuffo sulla sua fascia di pertinenza. I centrali di difesa cono molto alti, ben strutturati nonché esperti: Mick McCarthy (31 anni) sul centrodestra, un altro irlandese nato in Inghilterra (e attuale CT della Nazionale irlandese), il vecchio dublinese Kevin Moran (il suo vero nome in gaelico sarebbe Caoimhín Ó Móráin) sul centro-sinistra (34 anni) in forza con gli spagnoli dello Sporting Gijon dopo un decennio trascorso con la prestigiosa maglia del Manchester United. Il terzino sinistro infine è il giovane (ventun anni di Drogheda) Steve Staunton del Liverpool, un altro difensore esterno duro come la roccia che macina chilometri su e giù sulla fascia mancina.

A centrocampo la classica mediana a due è composta da Paul McGrath e Andy Townsend. Il primo è un difensore centrale ma “Big Jack” Charlton lo impiega a centrocampo come una sorta di libero davanti alla difesa. McGrath è un altro personaggio dalla storia molto particolare: classe 1959, nasce in un sobborgo di Londra da madre irlandese e padre nigeriano. Il padre di fatto l’abbandona dopo la sua nascita, la madre pure dato che i suoi genitori non accettano una situazione così vergognosa, così Paul viene affidato ad una nuova famiglia che però si stanca presto di questo ragazzo troppo vivace ed irrequieto. McGrath trascorre tutta la sua infanzia e la sua adolescenza in un orfanotrofio a Dublino. Nell’Irlanda bigotta ed ultracattolica degli Anni Sessanta c’erano ovviamente pochissimi ragazzi di colore così Paul cresce con la convinzione di essere quasi un alieno. La salvezza di McGrath è uno sport che in Irlanda non è poi così popolare: il football, mentre gioca con il Saint Patrick viene osservato da un talent scout del prestigioso Manchester United e diventa un giocatore dei Red Devils. Paul più che il classico calciatore fighetta del giorno d’oggi ha il volto scavato e truce di un pugile consumato: è un difensore centrale con i controfiocchi, un’autentica roccia che nelle giornate migliori è invalicabile. Ha un unico grosso difetto: è un alcolista, tanto che a causa delle troppe alzate di gomito (al pub non in campo) Alex Ferguson nel 1989 lo cede all’Aston Villa dove diventa subito un beniamino dei tifosi dei villains che lo ribattezzano “God”.

Townsend, nato in Inghilterra da genitori irlandesi ha 27 anni e milita nel Norwich, come McGrath è anche lui un centrocampista tutto sostanza anche se ama di più inserirsi in zona gol. Le fasce sono coperte da Ray Houghton a destra e da Kevin Sheedy a sinistra. Houghton, ventottenne nato in Scozia, è già entrato nella storia irlandese per aver segnato la rete decisiva nella storica vittoria contro gli odiati inglesi agli Europei del 1988. Il giocatore del Liverpool copre la fascia destra ed è un po’ il regista “defilato” della squadra verde, è lui infatti spesso il destinatario delle numerose spizzate di testa degli attaccanti e dai suoi piedi partono le trame offensive più interessanti dei boys in green. Sulla fascia sinistra invece giostra Kevin Sheedy, 31 anni nato in Galles sempre da famiglia irlandese, è un’ala mancina classica dal sinistro potentissimo, specialista in calci piazzati e tiri da lontano che gioca con la seconda squadra di Liverpool, l’Everton.

In attacco la classica prima punta è lunga pertica (193 cm) Niall Quinn, in forza all’Arsenal. Il ventiquattrenne dublinese è il classico centravanti che serve come il pane per il gioco “palla lunga e pedalare” di Jack Charlton: è lui infatti a ricevere il 90% dei frequenti lanci lunghi, tecnicamente non è un granché però con il suo fisico imponente sa farsi rispettare. Il suo partner è John Aldridge, 32 anni della Real Sociedad (ma con un importante passato con il Liverpool, la città dove è nato), un attaccante che ama più attaccare la profondità e sfruttare il gioco di sponda del compagno.

La formazione dell’Irlanda in posa ad Italia ’90

Italia ’90: inizia l’avventura!

Ai mondiali del 1990 l’Irlanda viene inserita nell’ultimo girone, il gruppo F, un raggruppamento di ferro che comprende squadre quotate (e già incontrate ad Euro 1988) come Inghilterra e l’Olanda e il misterioso Egitto. Siccome gli organizzatori hanno una paura matta dei temibili hooligans inglesi, le partite di questo gruppo si disputeranno interamente in Sicilia ed in Sardegna tra Cagliari e Palermo. L’11 giugno 1990 nel rinnovato Sant’Elia di Cagliari l’esordio dei boys in green ad un mondiale non poteva essere una partita come le altre: il primo avversario è infatti l’Inghilterra, oppressi contro oppressori, colonizzati contro colonizzatori.

Gli inglesi, guidati da un santone della panchina come il grande Bobby Robson, partono subito in quarta e all’ottavo sono già in vantaggio con Lineker lesto a sfruttare una delle poche distrazioni della difesa in maglia verde. L’Irlanda però è messa meglio in campo: il solito 4-4-2 degli uomini di Charlton è più compatto di quello sfilacciato schierato dagli inglesi. Il vento che soffia impetuoso su Cagliari, e che fa fare strani svolazzi a quel famoso riporto che accomuna tutti i fratelli Charlton, favorisce i truculenti uomini in maglia verde. Al 73’ arriva così il pareggio: sugli sviluppi dell solito lunghissimo rilancio di Bonner, la difesa inglese perde un sanguinoso pallone in uscita e Sheedy scaglia un fendente di sinistro che la vecchia gloria Peter Shilton (per far capire quanto fosse vecchio era uno degli idoli d’infanzia di Bonner!) non può proprio parare.

Il 17 giugno i boys in green si spostano in Sicilia perché dovranno affrontare allo stadio La Favorita di Palermo il sorprendente Egitto che all’esordio ha colto un inaspettato pari contro l’Olanda di Van Basten e Gullit. Gli egiziani sono un ex colonia inglese ed hanno per questa ragione mutuato anche in ambito calcistico caratteristiche tipiche del modo inglese di concepire il football come il gioco duro e la proverbiale stamina. Il match è un vero e proprio inno all’anticalcio: novanta minuti di calci con qualche mischia nell’area di rigore egiziana e qualche ottimo intervento del portiere egiziano Shobair. Questo match, così brutto per toni tecnici avrà comunque la sua portata “storica”: siccome sia l’Éire che l’Egitto hanno abusato per tutti i novanta minuti del retropassaggio al proprio portiere, qualche anno dopo, basandosi proprio sul prototipo di questa partita, l’International Board vieterà al portiere portiere di prendere il pallone con le mani su un passaggio intenzionale (di piede) di un proprio compagno di squadra.

In Irlanda le reti bianche contro l’Egitto non sono ben accolte: il duo Dumphy-Giles scatena un uragano di polemiche contro “l’anticalcio” voluto dall’inglese; Jack Charlton da uomo dalla pellaccia dura com’è in conferenza stampa rispedisce seccamente le accuse al mittente e tira avanti con le sue idee. Siccome Olanda e Inghilterra hanno pareggiato, per passare basterà cogliere un altro segno X contro gli olandesi. 21 giugno 1990 ancora La Favorita di Palermo, solstizio d’estate per l’Éire è il match verità contro una delle nazionali favorite per l successo finale. All’undicesimo Rud Gullit, al termine di una bella azione manovrata palla a terra, porta avanti i suoi con un bel diagonale. I batavi come da loro tradizione però eccedono con i ghirigori e non chiudono la partita: l’Irlanda si difende bene e poi riparte con i soliti lanci lunghi. Il pareggio arriva ancora dopo il settantesimo: altro rilancio lunghissimo di Bonner, la difesa spizza il pallone all’indietro al proprio portiere van Breuckelen che però si impapera, Niall Quinn si avventa come un falco sul pallone e segna il gol che qualifica l’Irlanda come seconda.

I gol dell’Irlanda ad Italia ’90 sulle note di “Put’em under pressure”, il simpatico inno ideato per il mondiale.

Tra le migliori otto squadre del mondo… senza vincere una partita!

Per giocare gli ottavi di finale l’Irlanda dovrà salire fino a Genova dove affronterà la seconda squadra classificata nel gruppo B, la forte Romania che può contare su giocatori del calibro di Hagi, Răducioiu, Lăcătuș, Popescu. Il match lo fanno i romeni come da pronostico che imbastiscono una fitta rete di passaggi, l’Irlanda come al solito pressa benissimo i portatori di palla avversari e poi lancia le solite proverbiali long balls in direzione del duo d’attacco Quinn-Aldridge. I giocatori in maglia gialla avrebbero almeno tre nitide occasioni per segnare ma Bonner si supera, è la sua giornata. Il match non ne vuole sapere di sbloccarsi e così si arriva ai calci di rigore. Qui Jack Charlton compie una mossa decisiva: si precipita al centro del campo e stringe la mano a ciascun suo giocatore, della serie “grazie comunque per averci portato fino a questo momento storico”. E’ un gesto che galvanizza gli uomini in maglia verde che dal dischetto sono dei cecchini: Sheedy, Houghton, Townsend, Cascarino riescono tutti a superare il baffuto portiere romeno Lung. Il problema è che anche i romeni non sono da meno trasformando quattro rigori su quattro. Al quinto, decisivo tentativo per i romeni si presenta sul dischetto il giovane mediano Timofte: il giocatore della Dinamo Bucarest opta per una rincorsa corta, finta di calciare sulla sua destra ma poi calcia debolmente a sinistra a mezza altezza, Bonner non ci è cascato e respinge il pallone; Marassi esplode in un boato: non sembra nemmeno di essere a Genova bensì a Dublino!

Il trentunenne David O’Leary, che prima del mondiale aveva perso il posto da titolare, ha sul pallone un pallone storico: se segna l’Irlanda sarà tra le migliori otto squadre del mondo. L’esperto centrale dell’Arsenal parte lancia in resta e poi fa partire un bel piattone che spiazza Lung: pallone a destra, portiere a sinistra e Irlanda che incredibilmente si qualifica ai quarti di finale senza nemmeno vincere una partita nei tempi regolamentari! Ciascun irlandese, anche i più asettici in fatto a gusti calcistici (e non sono pochi in Irlanda) ricorda il momento in cui il telecronista della RTÉ George Hamilton ha pronunciato le seguenti parole: “The nation hold his breath, yes we’re there!”. Quella partita per l’Irlanda è significato un vero e proprio riscatto nazionale e cioè l’uscita da decenni di arretratezza economica, di emigrazioni forzate e guerre fratricide. Tutto questo, ironia della sorte, merito di un inglese, di colui che tutti ormai in Irlanda chiamano Jack o’ Charlton.

Giovanni Paolo II in posa con Jack Charlton ed i calciatori irlandesi.

Italia-Irlanda: fuori a testa altissima!

Prima di affrontare a Roma i padroni di casa dell’Italia la squadra chiede a gran voce al proprio tecnico di avere una meritata sorpresa: un’udienza dal Papa. Tutti i giocatori dell’Éire sono infatti cattolicissimi: si fermano a pregare assieme più volte al giorno sotto gli occhi straniti del protestante Jack Charlton, che da buon figlio di minatori è del tutto indifferente a questioni religiose. La visita si fa: Giovanni Paolo II, ex portiere e tifoso del Wisła Cracovia nota subito la figura di Charlton e gli dice che si ricorda di lui e del mondiale che ha vinto nel 1966.

Sabato 30 giugno 1990, all’Olimpico di Roma si disputa Italia contro Irlanda. L’opinione pubblica attorno alla Nazionale si aspetta una facile vittoria contro una squadra giunta quasi per caso ai quarti di finale, il CT azzurro Vicini però non prepara bene la partita: aspettandosi che gli uomini di Charlton giochino con le classiche due torri (Quinn-Cascarino, quest’ultimo figlio di padre ciociaro e madre irlandese) in attacco, così decide di spostare il robusto Maldini, solitamente fluidificante a sinistra, in marcatura sul lungagnone Quinn con Bergomi che viene avanzato in marcatura sull’esterno sinistro Sheedy. Invece al posto di Cascarino giocherà il più agile Aldridge. Prima del calcio d’inizio l’atmosfera all’Olimpico è spettacolare: sembrano esserci quasi più tifosi irlandesi, pronti a gustarsi quella che per loro è una vera e propria festa, rispetto a quelli italiani.

Sarà per l’insolita atmosfera sugli spalti, per la sballata formazione schierata da Vicini ma in campo nel primo quarto d’ora l’Italia ci capsice poco o nulla della partita. I boys in green non hanno nulla da perdere e giocano forse una delle migliori partite da quando Jack Charlton è diventato CT: fraseggi corti alternati ai soliti lanci lunghi, squadra cortissima e pressing asfissiante. Al 24’ l’Eire potrebbe addirittura passare in vantaggio con una delle sue classiche azioni: traversone di McGrath, incornata magistrale di Quinn e Zenga conferma di essere il migliore portiere del mondo volando sul pallone e bloccandolo in presa. L’episodio desta l’Italia che inizia timidamente a macinare il suo solito gioco anche perché il pressing irlandese si è attenuato.

Al 37’ l’Italia passa in vantaggio: su una delle prime belle azioni corali degli uomini di Vicini, Giannini serve Donadoni che compie il suo tipico movimento in diagonale da destra a sinistra, il bergamasco fa partire un fendente insidioso che (forse) un difensore in maglia bianca devia, Bonner sorpreso devia male centralmente sui piedi di Schillaci che insacca da pochi passi: a Italia ’90 se Schillaci non va al gol è il gol andare da Schillaci! Nel secondo tempo c’è solo l’Irlanda in campo: i boys in green caricano a testa bassa la metà campo avversaria ma senza dare imprevedibilità alla propria manovra con le due punte non sono proprio in giornata. L’Italia è tuta in una conclusione al 53’ del solito Schillaci che rimbalza prima sulla traversa e poi sulla riga bianca, gli azzurri per il resto non riescono proprio a chiudere il match e soffrono da morire l’agonismo a mille degli irlandesi. Il risultato però non cambia fino al novantesimo quando l’arbitro portoghese Silva Valente fischia tre volte: la favola dell’Irlanda termina così.

Ma il bello arriva nel dopo-gara: i giocatori irlandesi infatti effettuano il giro della pista d’atletica per raccogliere le ovazioni dei propri numerosi tifosi, Big Jack mentre con la sinistra sorseggia una bella lattina di birra con la destra inizia a sventolare festante il tricolore irlandese: mai un inglese era arrivato a tanto! L’impressione è che i giocatori irlandesi non si siano ancora resi conto di ciò che hanno combinato: il primo luglio al loro ritorno in patria, a Dublino, sono accolti da un’autentica marea umana in festa, nemmeno per la visita di Giovanni Paolo II nel 1979 si era vista così tanta gente. Jack Charlton nel 1996, al termine del suo mandato da CT dell’Éire, sarà nominato cittadino onorario della Repubblica d’Irlanda, un onore che le autorità irlandesi concedono rarissimamente, figuriamoci ad un suddito di Sua Maestà. Hanno ragione quegli studiosi che ritengono che per varie ragioni storiche, esista un’Irlanda pre-1990 e un’Irlanda post-1990. Di certo in questo processo, per ironia della sorte, ha avuto anche la sua parte d’importanza le imprese della nazionale di uno sport così impopolare presso gli irlandesi guidata per giunta da un inglese!

Al termine di Italia-Irlanda “Big Jack” Charlton sventola il tricolore irlandese

(Fine)