
Questa lunghissima campagna elettorale è giunta al suo zenit, alla sua ultimissima tappa: domani si vota, e si decide chi sarà Presidente degli Stati Uniti fino al 2020. Una elezione inusuale, mai vista prima, totalmente fuori dagli schemi: effettivamente «storica», considerato che, qualunque ne sia l’esito, darà seguito a ripercussioni future sia negli USA che nel mondo occidentale. Insomma, un’elezione pregna di significati, infarcita di tutta una serie di princìpi che hanno richiamato in gioco praticamente tutti: nessun attore si è potuto di fatto sottrarre ad una scelta. Nonostante non sia realmente possibile prevedere il vincitore delle elezioni, il «retaggio» di queste presidenziali è già percepibile in alcune parti della sua ingombrante storicità. Sarà possibile solo in futuro capirne l’esatta grandezza ed importanza.
I sondaggi, come era prevedibile e come succede praticamente dalla fine delle primarie, danno in vantaggio Hillary Clinton: non di molto, certamente non degli inverisimili 10-12 punti percentuali che alcuni fantasticavano tempo fa. Si tratta di vantaggi molti più contenuti, 1-2% di media, con picchi di qualche punto percentuale in più. Eppure, quella che per molti parrebbe una vittoria indiscussa dell’ex First Lady, si ritrova nei fatti ad essere una sconfitta personale: un avversario che era distanziato di molti più punti fino a poche settimane dal voto, oberato dagli scandali, dalle campagne mediatiche, con pochissimi alleati ed un partito in fase di sfaldamente alle spalle, è tutt’altro che “knocked out”: anzi, secondo molti è più vicino che mai alla Presidenza.
D’altronde, come già è stato detto e ridetto, non è il numero dei voti “in sé” a determinare la vittoria di un candidato su di un altro: ma il numero dei voti ottenuto in determinati Stati, gli “stati in bilico”. Questi Stati, che fino a due settimane fa erano dati come “quasi tutti con tendenze dem”, ora sono stati ribaltati, e in molti di essi è Donald Trump ad essere in vantaggio: la Florida resta il punto più alto della battaglia, lo snodo cruciale per la Presidenza, grazie al cospicuo numero di grandi elettori che porta con sé. In questi Stati la battaglia è sul filo del rasoio, e si gioca all’ultimo voto: chi ha «più possibilità di vincere» è dunque una disquisizione piuttosto assurda e difficilmente poggiante su certezze, vista la sostanziale parità: è quindi doveroso lasciare alle urne il verdetto.
Se sarà Hillary Clinton a vincere, cosa che i sondaggisti danno più probabile e gli analisti anche, ma nel tentativo di esorcizzare lo «spauracchio» di Trump che manderebbe in frantumi gran parte degli assiomi sui quali basano le loro analisi, la linea del governo statunitense non subirà scossoni; anzi, sarà veramente una linea di continuità con quanto fatto prima. Il vero e proprio mutamento avverrà invece nella società statunitense, nel “modello statunitense” di partito, nei rapporti esistenti nella società civile, nel conflitto, ormai venuto alla ribalta, tra establishment e popolo: il trumpismo, il Trump-pensiero, anche se dovesse concludersi con una sconfitta, ha aperto una faglia (in realtà già latente da anni) che modificherà profondamente sia i rapporti di forza sia il modo di fare politica negli Stati Uniti.
È la crisi dei partiti tradizionali a balzare subito all’occhio anche degli osservatori non esperti: quelle due forze che per secoli hanno rappresentato un mix di storia e spirito di appartenenza, sono corrosi dall’interno e risultano essere sempre più una sorta di “trampolini per la presidenza”. Ormai è finita l’era della vecchia politica statunitense, nella quale, come spiegò Reagan nel 1984, «ci si unisce in un partito politico a causa di certe credenze su ciò che il governo dovrebbe essere». Le “credenze comuni” si sono dissolte, sia a destra che a sinistra. Trump è forse l’unico candidato alla presidenza ad aver fatto rivoltare il proprio partito contro se stesso: senza l’appoggio di tutti gli ex Presidenti del suo partito (che hanno indirettamente dato l’endorsement alla Clinton), senza l’appoggio di quasi tutti i deputati repubblicani al Congresso, senza l’appoggio degli ultimi candidati alla presidenza (McCain e Romney), e senza quello di una buona parte dei suoi sfidanti alle primarie (a parte il sostegno deciso di Ben Carson, sia Ted Cruz e Marco Rubio hanno dato un endorsement a Trump in modo indigesto). Ma quale è la causa di una tale, mai vista rivolta?
Donald Trump sta rappresentando un modo relativamente “nuovo” di fare politica, almeno negli Stati Uniti: un miscuglio innovativo di identitarismo (storicamente carta repubblicana, ma mai accesa come con Trump) e di un “leaderismo” che chiede al popolo una stretta fiducia ed osservanza, una «carta bianca» sulla possibilità che sia lui solo in grado di sconfiggere e mettere le briglie all’establishment. Oltre a ciò, una sapiente mistura di popolarità, derivatagli dal fatto di essere una figura pubblica (con cameo in vari film, con la conduzione di reality show, presenze in molti spettacoli), un imprenditore molto noto e che ha dato lavoro a molte persone e un tipico esemplare di «American dream»: l’uomo che da solo, grazie alle sue forze, riesce a diventare un uomo di successo. Ed ora anche un candidato alla presidenza. Il modo in cui ha costruito, praticamente in solitudine e senza appoggi, un suo apparato politico, ricorda vagamente la discesa in campo di Berlusconi nel 1994: un cocktail decisamente inedito per gli Stati Uniti. Ma non è solo la figura di Trump (più unica che rara, e che di per sé nega la possibilità di esistenza di un “trumpismo senza Trump”) che ha saputo creare una nuova politica: sono anche la sua retorica e le sue idee. Il linguaggio portato alla ribalta da Trump è un altro tratto tanto caratterizzante quanto incognito: una verve «brutale», quasi dissacrante verso un governo che si aliena ai cittadini col suo mantra del politicamente corretto, unita ad una icasticità verbale che piace molto al sentire comune. Insomma, un linguaggio che sa parlare direttamente al popolo, mostrandogli come i suoi problemi, le sue ansie quotidiane, possano venir comprese nella loro «reale essenza», e non annacquate in formule algide e seriose. A questo, aggiungendoci una buona dose di comicità, delle tendenze quasi istrioniche, e un po’ di scandalismo, si conferisce a Trump una «umanità di tutti i giorni» che, se può venir disprezzata dalla parte più tradizionale della politica, raccoglie invece consensi e simpatie prima alla sua figura che alle sue idee. Su questa scia si collocano le dichiarazioni di Clint Eastwood: «Ci siamo tutti segretamente stancati del politicamente corretto, quella in cui siamo è una generazione di leccaculo e di fighette. Per questo voto Trump […] dice quello che gli passa per la testa».
Le idee di Trump, guardando nel panorama europeo, non sono qualcosa di strettamente nuovo: eppura è nuova la forma nella quale sono state elaborate e proposte ad un pubblico, quello USA, digiuno da qualcosa di simile. La crisi migratoria, che attanaglia ora l’Europa più che gli USA, ha portato alla ribalta il problema dell’immigrazione, facendo innalzare tanto i toni quanto la volontà di far barricate: fare quadrato attorno al proprio paese, capire che la minaccia (quella del terrorismo, nella fattispecie) è «esterna» e non proviene dal classico tessuto sociale USA. Nemmeno i repubblicani classici avevano mai usato toni eccessivamente drastici in una società diversificata e con una forte presenza di minoranze. Invece Trump ha dato la voce al cittadino legato alla propria, a colui che vede «in pericolo» la propria storia, la propria comunità, e che non si accontenta né dei giri di parole né della bonomia delle promesse elettorali, e che non crede all’idiotismo del concetto di “cittadino del mondo”: Trump promette soluzioni quasi draconiane ed è un uomo “esterno” alla politica, quindi è decisamente più credibile nella sua onestà di intenti e nella possibilità che davvero riesca a far ciò che promette perché non già legato da vincoli con l’establishment. Discorsi analoghi per quanto riguarda la difesa e la protezione dell’economia statunitense, fortemente sotto attacco da parte della concorrenza sleale di altri Stati e da parte della delocalizzazione: e chi meglio di Trump, imprenditore navigato, che ha dato lavoro a milioni di persone, può gestire questa situazione, anche (e soprattutto) attraverso vie drastiche? Molti cittadini statunitensi hanno dato il loro convinto appoggio, sia per la radicalità delle soluzioni proposte (visto che le soluzioni più blande hanno ormai solo il sapore di contentino) sia per chi le ha proposte, un personaggio così “fuori dagli schemi” che potrebbe essere davvero in grado di cambiare le cose.
La crisi del sistema repubblicano risiede qui: quella parte (sempre esistita, attualmente ancora maggioritaria ma della quale non fa parte Trump) del partito che è de facto simile, se non identica, a quella democratica per mentalità, per fedeltà allo status quo, per la sua attaccatura al politicamente corretto, è stata sconfitta dall’ala più radicale, più estrema, più ostile all’establishment, che aveva radici nel Tea Party. Ma in Donald Trump ha trovato un ricevitore totalmente inedito. Le faglie che si sono aperte esistevano dunque già in precedenza, ma erano sommerse ed avevano decisamente altri rapporti di forza; ora, con questa inversione, il Partito Repubblicano rischia o di mutare pelle (non per sempre ma comunque per molto tempo), o diventando una forza “anti-sistema” e identitaria, oppure, molto più probabilmente, trasformandosi in un fantasma di partito percorso da dure lotte interne tra varie anime (alcune delle quali preferiscono sostenere i democratici piuttosto che i loro stessi compagni di partito). Queste due ipotesi sono sul tavolo, ma la vera chiave di volta saranno le elezioni: se Donald Trump riuscirà a diventare Presidente, allora, sul lungo periodo, è plausibile che gran parte dei repubblicani lo seguiranno, e che il Partito muterà, lentamente ma inesorabilmente, la propria natura e il proprio stile.
Se è vero che Donald Trump è la novità più strana e imprevedibile nel panorama politico USA, essa non è affatto l’unica: Bernie Sanders, sconfitto alle primarie democratiche da Hillary Clinton, è un altro candidato dal profilo totalmente inedito e che, grazie alla fedeltà dei suoi sostenitori e alla presa che ha tra molti giovani, potrà essere una “spina nel fianco” in futuro. Definito come un «socialista» per certe sue idee economiche, per la sua opposizione al sistema finanziario e con un’ampia gamma di «pensiero libertario» ad accompagnarlo, Bernie Sanders si è tuttavia dovuto conformare alle direttive clintoniane: ha dato il suo endorsement alla candidata (rappresentante dell’establishment e dell’alta finanza più tradizionali), ponendo più di un dubbio sulla reale entità innovatrice del programma e delle convinzioni “socialiste” di Sanders. Una cosa però è piuttosto sicura: se dovesse mantenersi in futuro fedele alle sue idee, senza compromessi con quella parte del Partito Democratico che «è simile, se non identica» ad una cospicua parte dei repubblicani, Sanders può spaccare il campo democratico. Il conflitto, in questo caso, rischia di assumere i connotati di un conflitto quasi generazionale, vista la popolarità in ascesa del politico del Vermont, e, anche se Sanders ha scelto di sostenere Hillary Clinton contro Trump, è improbabile che la parte “conservatrice” dei democratici sosterrebbe senza fiatare un Sanders candidato alla presidenza. Ci sono troppe incertezze, troppi dubbi e troppe incognite su questo personaggio perché sia realmente accettato (salvo improbabili ma non impossibili ritorni su posizioni “moderate”). Dunque, se un particolare tipo di crisi è affiorata e si è completata nel Partito Repubblicano, un’altra, diversa eppure con qualche similitudine, si affaccia nel Partito Democratico, e ci fa assaggiare i suoi prodromi; forse toccherà riparlarne alle prossime primarie democratiche.
Hillary Clinton, in ogni caso, difficilmente si potrebbe considerare una «vincitrice» a tutto tondo, una «trionfatrice», anche nel caso diventasse tranquillamente Presidente. La sua incapacità di distanziare Donald Trump e di assicurarsi la vittoria, nonostante tutti gli scandali (veri, presunti o gonfiati) nei quali il suo avversario è stato impelagato ed un fronte di sostenitori veramente ampissimo dimostra, oltre che una grave idiosincrasia degli americani verso di lei, anche una certa inabilità mediatica nel ruolo di “politico della stabilità-continuità” che vuole ricoprire. A suo favore, si sono schierati (anche indirettamente) quasi tutti coloro che hanno una voce autorevole e tanti soldi, ma il tycoon, contando quasi solo su se stesso, le è sempre stato non troppo distante, e ora la distanza è quasi azzerata. Ma la vera debolezza di Hillary Clinton non sta nel non saper battere un avversario ad armi impari, quanto più nella dubbia capacità che avrà in futuro di fare qualcosa per dimostrarsi «alternativa», di legittimarsi non solo come “anti-Trump” ma anche come Presidente con una capacità di seguito ed egemonia. La capacità che la mega-coalizione che le si è formata attorno per contenere Trump si sfaldi, poco tempo dopo la sua elezione, è certa, come il fatto che l’ascesa di Sanders e di nuove leve nel campo democratico potranno metterla in crisi in futuro. Insomma, si tratta di una “vittoria reazionaria” che però non tiene conto del panorama magmatico, e alla lunga sfavorevole, che si muove sotto di essa. Più di una volta ho espresso dubbi sulle reali capacità di Hillary Clinton di gestire le presidenza, del suo discutibile carisma e della dubbia abilità di ottennere appoggi e consensi (salvo quando c’è uno spauracchio del calibro di Trump!). Questa convinzione si è rafforzata ogni giorno che passava: Hillary Clinton è stata scelta solo perché era una candidata «affidabile» (nel senso che «sappiamo dove andiamo a parare» con lei), con un cognome (nemmeno il suo vero, ma quello di suo marito) che fa appeal e che tranquillizza i potentati che hanno bisogno di essere tranquillizzati, mentre Sanders era troppo «rischioso» e altri candidati realmente capaci di avere un seguito non ce n’erano.
Queste elezioni, anche se non dovesse vincerle un candidato come Trump, avranno certamente due conseguenze di rilievo: una riforma, piuttosto sul lungo periodo, della politica interna USA e la probabile sanzione della fine dell’egemonia statunitense sul mondo. Il secondo fattore, in realtà, era evidente da molti anni: il lento declino degli Stati Uniti come superpotenza era dato da molte dinamiche interne (debito, sperequazione sociale, mancanza di coesione) e da altre dinamiche esterne (prove di inefficienza e di incapacità in Afghanistan, Iraq e Libia, ascesa di nuove potenze, smarcamento anche di Stati piccoli e medi dall’alleanza con Washington). Se dovesse vincere Trump e desse il via ad un ritorno degli Stati Uniti nel «loro cortile», ciò sancirebbe in maniera altamente significativa un mutamento di era; se anche dovesse vincere la Clinton, con gli scenari che si troverebbe di fronte (e non disponendo né di coesione interna, né delle capacità certamente superiori di Obama, né di situazioni troppo favorevoli a Washington), la lenta decadenza statunitense affiorerebbe ugualmente, in radicale contrasto con i silenziosi cambiamenti nella politica interna che si materializzeranno nelle prossime elezioni.
Leonardo Olivetti