Con le elezioni presidenziali statunitensi dell’8 novembre ormai sempre più vicine, e senza ulteriori confronti diretti tra Hillary Clinton e Donald Trump in programma, è tempo di dare un’occhiata alle proiezioni elettorali, alle novità di questa agguerita campagna elettorale e di tentare un’analisi delle diverse variabili di queste elezioni, con la coscienza che nulla è già stato scritto: viste le infinite variabili di queste strane elezioni, ogni sicumera ha il dovere di essere accantonata.

Prima di procedere allo studio della morfologia del voto, è opportuno prendere in considerazioni i sondaggi e le proiezioni elettorali; sondaggi che, come i media continuano a martellare con ferma convinzione, danno la Clinton in testa con distacchi netti. A livello numerico si assiste, certamente, a cifre che danno ad ampia maggioranza la candidata democratica in testa: la Abc news dà ad Hillary Clinton un vantaggio del 12% (50% contro 38%), 270 to win del 19 ottobre dà un vantaggio dell’8,5% (49,9% contro 41,4%), il Politico/Morning Consult del 19-20 ottobre 6 punti percentuali, e così molti altri.

I sondaggi fuori dal coro sono effettivamente pochi, anche se alcuni certamente autorevoli: USC/Los Angeles Times (14-20 ottobre) ha dato Trump in vantaggio dell’1%, e la Investor’s Business Daily/TIPP ha conferito a Trump un vantaggio del 2,4%. Eppure l’esistenza di un «gap» percepibile esiste, anche la campagna di Donald Trump lo ha ammesso, dichiarandosi ancora «indietro» rispetto alla Clinton. Insomma, sembra che per adesso il tycoon debba lottare per recuperare un certo margine di svantaggio (che certamente, come vedremo, anche esistendo non sarà mai così ampio come pronosticato da Abc news), ma sarebbe assurdo credere già scritte queste elezioni, ad ancora una ventina di giorni dal voto (come invece ha stimato la Reuters, accreditando ad Hillary Clinton il 95% di possibilità di vittoria).

Il sistema elettorale statunitense, tuttavia, ha delle peculiarità che rendono effettivamente possibile una vittoria ottenuta con meno voti: l’elezione del Presidente avviene a livello federale, dove ogni Stato elegge un numero prestabilito di “grandi elettori”, i quali andranno a comporre lo United States Electoral College, con 538 membri (270 la maggioranza) che eleggeranno il futuro Presidente.

In quasi tutti gli Stati federali il candidato che vince in uno Stato ottiene tutti i candidati eleggibili, il cui numero varia sensibilmente da Stato a Stato (dai 55 della California, ai soli 3 del Montana). È su complicati calcoli stato-per-stato che si gioca, sul filo di lana, la vittoria, e nei quali si confondono il “retaggio” (repubblicano o democratico) che ogni Stato possiede e le capacità di un candidato di accaparrarsi i consensi in una situazione particolare.

A quanto risulta fino ad ora dai sondaggi, Hillary Clinton e Donald Trump stanno tendenzialmente vincendo negli Stati tradizionalmente più vicini ai rispettivi partiti. La democratica è in vantaggio sulla East Coast, tradizionalmente cosmopolita, democratica e “progressista” (Stato di New York, Maine, New Jersey, Connecticut) e sulla West Coast (California, Oregon, Stato di Washington). Il tycoon, invece, è in vantaggio negli Stati dell’entroterra statunitense, quello dove più forte è il retaggio tradizionalista (Idaho, Texas, Wyoming, Nord e Sud Dakota, Kansas, Arkansas, Oklahoma, Missouri, Alabama, Kentucky, e altri). Gli esiti in questi Stati federali, probabilmente, sono in gran parte già decisi a favore di un candidato o di un altro: la vera battaglia elettorale si gioca in quello che i media definiscono “swing states”, Stati tradizionalmente in bilico tra i due schieramenti, e attraverso i quali si arriva alla vittoria.

Gli “stati in bilico” sono circa una quindicina, e la loro storia, la loro posizione geografica e le influenze culturali, hanno fatto sì che si ponessero a metà tra le due idee di America, storicamente propugnate da repubblicani e democratici, ma che queste elezioni probabilmente scardineranno o modificheranno irreversibilmente. La percezione di una vittoria della Clinton è data dal fatto che i sondaggi le conferiscono un vantaggio in vari “stati in bilico”, anche se di pochi punti: Nevada, Colorado, Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Virginia, New Hampshire, sembrano intenzionati a portare i loro grandi elettori verso lo schieramento democratico. Solo Iowa, Georgia e forse Florida e Arizona, secondo i sondaggisti, sarebbero gli Stati nei quali Trump è in vantaggio, mentre quelli che vedono una parità sarebbero Utah, Ohio e Nord Carolina; anche se in questi ultimi il candidato repubblicano trionfasse, non sarebbe tuttavia sufficiente a scalfire la vittoria della candidata democratica nel caso essa ottenesse la vittoria in tutti gli altri “stati in bilico”.

Non è certamente semplice fare previsioni accurate per ogni singolo “stato in bilico” (appunto perché effettivamente “in bilico”, per pochi voti, tra i due candidati!), soprattutto ad una ventina di giorni dalle elezioni e con numerosi convegni dei candidati ancora in programma. Va tuttavia rilevata la possibilità, tutt’altro che remota, che un candidato vinca ottenendo meno, come avvenne, di recente, nelle elezioni del 2000, nelle quali Bush divenne Presidente nonostante 500.000 voti in meno (il suo sfidante democratico Al Gore ottenne uno 0,5% in più di consensi). La battaglia elettorale, dando per assodato (anche se “assodato” non dovrebbe essere affatto, in queste elezioni nettamente in controtendenza!) che ogni candidato vinca negli Stati tradizionalmente favorevoli al proprio partito, esiste ancora un buon margine di manovra per delle sorprese elettorali: una vittoria, ad esempio, nella sola Florida (che porta con sé 29 grandi elettori) avrebbe più peso di una vittoria in Arizona (11 grandi elettori), Georgia (16 grandi elettori) e Iowa (6 grandi elettori) messi insieme!

Un’altra incognita da tener presente è quella dell’astensionismo, da mezzo secolo un problema irrisolto negli Stati Uniti: nelle elezioni del 2012, ad esempio, i votanti sono stati il 54% degli eventi diritto, ma in anni recenti si sono registrate anche percentuali molto più basse (50% nel 2000, 49% nel 1996, ad esempio). Tuttavia, queste elezioni probabilmente saranno in controtendenza: fino ad ora, sembra che si siano registrati per votare circa 200 milioni di persone (secondo Politico), il che sarebbe un vero e proprio record assoluto nella storia degli Stati Uniti.

Probabilmente la cifra è inverosimilmente alta, perché ciò significherebbe un aumento nelle registrazioni di quasi 70 milioni di persone, ma più o meno tutti i rilevatori sono concordi nel rilevare un grande aumento delle registrazioni al voto. Certamente il clima elettorale da aut aut che domina questa radicale campagna ha spinto molti indipendenti e cittadini in passato non interessati alla politica a scendere in campo: aver la possibilità di votare, decidere, in una fase storica estremamente delicata e particolare, più probabilmente per decidere “contro qualcuno”, che “a favore di qualcuno”. I rilevatori indicano che la maggiore affluenza di nuove registrazioni provengono da votanti indipendenti, non affiliati ad una fazione o ad un’altra: questo potrà rendere più imprevedibili le prossime elezioni, che forse toccheranno la quota del 60% di affluenza (quota raggiunta per l’ultima volta nel 1968), mostrandosi ben più rappresentative del paese.

Nel frattempo, il candidato che si sta muovendo di più e sta manovrando maggiormente è quello che percepisce di dover colmare lo svantaggio: Donald Trump. Mentre il ciclone mediatico di donne che lo accusano di aver subito molestie da parte sua decenni fa ha fatto emergere ben 12 accusatrici (tra cui una pornostar), il tycoon sta agendo per riguadagnare consensi nell’elettorato statunitense, con un mix di nuove ed inedite proposte ed una retorica vulcanica, come da lui ci si aspettava.

L’ultima sua proposta è un “piano di governo” (molto berlusconiano, per come concepito) per i primi 100 giorni di presidenza, una sorta di “patto con gli elettori” che Trump ha sottoscritto. Tra i punti di maggior rilievo, innanzitutto, spicca la battaglia contro i conglomerati dei media che monopolizzano l’informazione, ma anche riforme dell’Obamacare, una politica sull’immigrazione interamente nuova (compreso il tanto dibattuto Muro con il Messico) e manovre per combattere la corruzione nel governo di Washington, al motto di “Onestà, Responsabilità, Cambiamento”.

Merita grande considerazione la lotta contro lo strapotere dei media, la grande battaglia che Trump vuole intraprendere e che ha de facto condotto fino ad ora: nello specifico si oppone all’acquisto da parte di AT&T della Time Warner, e quindi della CNN, una concentrazione troppo grande di potere nelle mani di troppo poche persone”, ma anche ad altre manovre simili che sono secondo Trump una “distruzione della democrazia” ed un “avvelenamento all’animo del cittadino americano”, riferendosi, indirettamente, alla palese disparità di trattamento che i media mostrano a favore di Hillary Clinton. Un’opposizione, quella a questa unione, che vede Bernie Sanders dalla stessa parte della barricata, perché “questo accordo si tradurrà in prezzi più alti e meno scelta per i clienti”.

Come abbiamo detto e ribadito “le variabili sono infinite”, ma qualcosa di abbastanza certo c’è: anche se dovesse vincere Hillary Clinton non ci sarà nessuna “vittoria schiacciante”, nessuna doppia cifra di vantaggio come qualcuno vuole suggerire.

I due candidati, qualunque vincerà, avrà la presidenza con un vantaggio non eccessivamente consistente. Vanno infatti considerati numerosi fattori che non depongono a favore del “plebiscito clintoniano” tinteggiato dai democratici ottimisti: il libertario Gary Johnson, e in minore misura la verde Jill Stein, possono raggiungere insieme poco meno del 10% (voti presi a “sinistra”, e spesso ignorati dai sondaggi). Ma, per una questione di buon senso, bisogna prendere assai con le pinze i sondaggi, dove spesso esiste una marcata tendenziosità ed un sottile riflesso psicologico: l’aumento spropositato e voluto della posta e delle cifre, in un clima di “vittoria ormai sicura”, non rispecchia la realtà, e certamente può indurre molti a restare a casa, appunto perché ormai convinti della vittoria della Clinton.

Il fatto centrale, però, è la polarizzazione degli schieramenti, della quale abbiamo già parlato: essa ha sempre lasciato a Trump uno zoccolo duro di sostenitori fedeli, almeno il 40% dei votanti che nonostante le accuse e le calunnie che ha subito sono rimasti compatti e non hanno mutato intenzioni di voto.

Insomma, quando la polarizzazione è estrema, il proprio schieramento viene votato sempre in quanto spirito di appartenenza. Questo ragionamento vale un po’ meno proprio per la Clinton: è stato rilevato che essa gode di ben poca popolarità tra i suoi elettori (che mischiano repubblicani “moderati”, falchi, il deluso e scontento “popolo di Sanders” e uno stuolo di «Trump haters» che votano lei solo in sfregio del tycoon): in molti la voterebbero solo perché “alternativa a Trump”, senza grande entusiasmo né fiducia; tutto il contrario dell’entusiasmo che invece circonda i sostenitori di Trump, che hanno sviluppato un vero e proprio spirito di comunità.

Infine, bisogna elencare altre variabili che certamente non giocano a favore di Hillary Clinton (o almeno non sono favorevoli quanto sembrerebbe in apparenza): il fatto che la candidata goda di consensi quasi plebiscitari presso i neri, gli ispanici e le minoranze è un dato di fatto; ma allo stesso tempo bisogna considerare che le minoranze etniche sono storicamente quelle più astensioniste e quelle che vivono nelle periferie più degradate, dove l’accesso al voto è molto più complicato rispetto ad altre zone, spesso meno facile e condito da lunghissime file che limitano le possibilità. Dunque, il super consenso che la democratica può vantare presso le urne arrecherà certamente benefici minori del previsto.

Ad oggi, dunque, la battaglia è ancora ben aperta, e le trappole e i passi falsi sono dietro ogni angolo: alla fanfare che intonano già canti di vittoria, quindi, è consigliabile dire di aspettare l’esito degli scrutini.

Leonardo Olivetti

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Nato a Brescia nel 1996, studioso del Medio Oriente, dell'Asia Orientale e dell'Europa Orientale.