ILVA: dall’inizio del secolo al secondo dopoguerra
La storia dell’ILVA iniziò nel 1905, quando esponenti della finanza genovese decisero di approfittare delle agevolazioni previste dalla legge per il risorgimento economico di Napoli varata nel luglio del 1904 e che prevedeva la creazione, entro il 1908, di un grande impianto a ciclo integrato a Bagnoli.
Grazie al sostegno pubblico, che si sostanziava anche nella fornitura di minerale di ferro a prezzo agevolato e nella concessione di forti barriere doganali che mettevano il nuovo gruppo al riparo dalla concorrenza dei più forti colossi esteri, il primo febbraio del 1905 avvenne la fusione dei gruppi Elba e Terni, a cui si aggiunse la famiglia romana Bondi, che aveva realizzato un altoforno a Piombino. Il capitale sociale era di dodici milioni di lire d’allora, ma salì ben presto a venti milioni.
Durante la Prima Guerra Mondiale, per meglio sfruttare le opportunità offerte dalle commesse belliche, l’ILVA acquisì diverse aziende dedite alle lavorazioni cantieristiche ed aeronautiche; ciò ovviamente comportò cospicui investimenti, sostenuti dalla potente Banca Commerciale Italiana (COMIT), presso la quale a guerra finita il gruppo si ritrovò così gravemente indebitato.
Dal primo dopoguerra alla rivoluzione dell’acciaio
Così nel 1921 la COMIT ne rilevò la proprietà, e quando anche quest’ultima venne nazionalizzata l’ILVA si ritrovò a sua volta in mano allo Stato. Collocata per la precisione sotto il controllo della finanziaria pubblica Finsider, l’ILVA svolse un importante ruolo anche nel Secondo Conflitto Mondiale ma, soprattutto, col ritorno della pace, quando la ricostruzione prima ed il boom dell’automobile e degli elettrodomestici poi diedero un grande impulso alla produzione dell’acciaio.
Si pose così l’esigenza di dar vita ad un nuovo stabilimento, che affiancasse quelli già esistenti, per soddisfare una crescita del consumo d’acciaio da parte del mercato che a quel tempo ancora sembrava infinita. Nacque così lo stabilimento di Taranto, il più grande d’Europa, la cui costruzione fu avviata nel 1961 e completata, con la trionfale inaugurazione da parte del Presidente della Repubblica Saragat, quattro anni più tardi. Contemporaneamente l’ILVA diventava a tutti gli effetti Italsider.
La crisi degli anni ’90 e l’ingresso dei Riva
Le cose andarono abbastanza bene fino agli Anni ’80, quando il mercato dell’acciaio cominciò a declinare precipitando il gruppo in una nuova e grave crisi. Così nel 1988 Finsider e Italsider furono messe in liquidazione e scomparvero, lasciando il posto alla rinata ILVA. Ma ciò non servì comunque a curare la crisi: in vista della privatizzazione, il gruppo venne smembrato, con la chiusura dell’impianto di Bagnoli e la vendita di quello di Cornigliano a Genova, mentre l’acciaieria di Piombino veniva ceduta alla bresciana Lucchini. Rimaneva solo il grande polo siderurgico di Taranto, che nel 1995 venne venduto al Gruppo Riva, un’azienda privata storica e dalla struttura profondamente verticistica.
E che i Riva fossero davvero i classici “padroni delle ferriere”, dal pugno di ferro, non ci volle molto per capirlo: a Taranto la nuova proprietà organizzò subito un sistema di punizione dei dipendenti che non accettavano le direttive aziendali sulla novazione dei contratti di lavoro, che si sostanziava nell’esiliarli nella “palazzina LAF” (l’edificio adiacente al Laminatoio a Freddo) lasciandoli senza lavorare.
Gli scandali e il passaggio al gruppo Marcegaglia
Gli scandali sull’ILVA di Taranto si sono rapidamente succeduti fino al 2012, quando lo Stato ha avviato la procedura di commissariamento dell’azienda ed avviato una gara internazionale per la sua riassegnazione. Al momento la scelta è caduta sulla AM Investco, formata da ArcelorMittal e Gruppo Marcegaglia. Com’è noto, l’ILVA è al centro di un vasto dibattito per il suo forte impatto ambientale a Taranto ma anche a Genova, e sulle sue emissioni si sono tenuti diversi processi penali conclusisi in alcuni casi con la condanna di Emilio Riva e di altri dirigenti del gruppo.
L’impatto economico e ambientale dello stabilimento di Taranto
Lo stabilimento di Taranto, che occupa 15.450.000 metri quadrati, e che tra dipendenti diretti ed indotto nell’ormai lontano 1981 dava da lavorare a 43.000 persone, ancora nel 2005 garantiva l’esistenza a 188 imprese pugliesi per un giro d’affari di 310 milioni di euro. Nel 1970 il cosiddetto “IV Centro Siderurgico” di Taranto sfornava il 41% della produzione totale della Italsider, percentuale che nel 1980 era addirittura salita al 79%.
Adiacente allo stabilimento vi è il famoso quartiere Tamburi, con 18.000 abitanti, il più colpito in termini d’ambiente e di salute dalle attività dell’acciaieria. Nel 2012 sono state depositate due perizie presso la Procura della Repubblica di Taranto, una chimica e l’altra epidemiologica, in un’inchiesta che coinvolgeva Emilio Riva, il figlio Nicola, il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso ed il responsabile dell’area agglomerato Angelo Cavallo. A loro carico sono state ipotizzate accuse di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose ed inquinamento atmosferico.
Nell’autunno del 2012 il Ministero della Salute ha presentato due diversi studi nell’ambito del Progetto Sentieri dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha valutato il livello di salubrità dell’area di Taranto in rapporto al resto della Puglia e del paese. E’ stato sì notato un calo della mortalità a partire dal 1980, ma comunque inferiore rispetto alla media regionale, e un’incidenza molto alta di alcune patologie come ad esempio il tumore alla pleura, attribuibili comunque non soltanto all’attività dell’ILVA ma anche del vicino polo petrolchimico e dell’Arsenale Militare.
Il fallimento delle trattative tra politica e i vertici dell’ILVA
Nel dicembre del 2008 la Regione Puglia aveva approvato a maggioranza una legge regionale contro le diossine. La norma sarebbe dovuta entrare in vigore a partire dall’aprile del 2009, obbligando l’ILVA insieme ad altre aziende a scendere a 0,4 nanogrammi per metro cubo entro il 2010. Tuttavia, nel febbraio del 2009 una modifica alla legge regionale ha allungato i tempi per il primo taglio dei limiti di diossina a 2,5 nanogrammi per metro cubo, spostando dal primo aprile al 30 giugno l’entrata in vigore del limite stesso.
Nel marzo del 2012, di fronte alle perizie inviate dalla Magistratura tarantina e all’emanazione di nuove norme europee che sarebbero entrate in vigore del 2016, Corrado Clini riaprì con urgenza l’AIA (Autorizzazione Ambientale Integrale) per l’ILVA, rilasciata già nell’agosto 2011 dal suo predecessore ma poi rimasta ferma, col fine di risanare lo stabilimento e di adeguarlo ai nuovi dati per l’autorizzazione a produrre.
Così il 26 luglio del 2012 venne firmato un protocollo d’intesa per urgenti interventi di bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione di Taranto, stipulato fra il Ministero dell’Ambiente, quello delle Infrastrutture, quello dello Sviluppo Economico, quello della Coesione Territoriale, la Regione Puglia, la Provincia di Taranto, il Comune di Taranto e il Commissario Straordinario del Porto di Taranto. L’accordo portò all’emanazione di un decreto, che ha stanziato i fondi per il risanamento e la riqualifica della città, con l’esclusione dello stabilimento.
L’arresto di Riva e il sequestro dello stabilimento
Ma lo stesso giorno, in base ad un rapporto dei Carabinieri del NOE, il GIP di Taranto ha disposto il sequestro senza facoltà d’uso dell’intera area a caldo dell’ILVA, apponendo così i sigilli sui parchi minerali, le cokerie, l’area d’agglomerazione, l’area altiforni, le acciaierie e la gestione dei materiali ferrosi.
Oltre al sequestro, il GIP disponeva anche l’arresto di Emilio Riva, fino al maggio del 2010 Presidente dell’ILVA SpA, del figlio Nicola, succedutogli nella carica e dimessosi pochi giorni prima dell’arresto, dell’ex direttore dello stabilimento tarantino, Luigi Capogrosso, del dirigente capo dell’area del reparto cokerie, Ivan Di Maggio, e del responsabile dell’area agglomerato, Angelo Cavallo. Il 30 luglio del 2012 i Carabinieri del NOE di Lecce notificarono il provvedimento di sequestro.
Il 7 agosto del 2012 il Tribunale del Riesame di Taranto ha confermato il provvedimento di sequestro senza facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo dell’ILVA, come già predisposto dal GIP di Taranto Patrizia Todisco, sequestro vincolato alla messa a norma dell’impianto. Il 28 settembre è stata ultimata la prima fase del lavoro di revisione dell’autorizzazione AIA allo stabilimento. Il riesame dell’AIA ha disposto una drastica riduzione del carico d’inquinanti rispetto all’AIA dell’agosto del 2011, con particolare riferimento alle emissioni di polveri e di benzopirene.
Il 12 ottobre del 2012 il ministro Clini ha presentato alla stampa il risultato del lavoro istruttorio per la concessione dell’Autorizzazione, che prevede fra le varie cose la riduzione della produzione siderurgica, la copertura dei parchi minerali onde fermare la diffusione delle polveri su alcuni rioni della città, l’arresto degli impianti a maggior impatto ambientale e l’ambientalizzazione degli altri. Allo scopo di sbloccare dai sequestri della Magistratura gli impianti sottoposti ai lavori di risanamento previsti dall’AIA e i prodotti già realizzati, il Governo ha poi emanato il 3 dicembre del 2012 un decreto legge successivamente convertito dal Parlamento nella Legge 231 del 24 dicembre del 2012, recante “disposizioni urgenti a tutela della salute e dell’ambiente”. Di conseguenza, la Procura di Taranto ha fatto ricorso contro la legge alla Corte Costituzionale, che il 9 aprile del 2013 con una sentenza ne ha confermato la legittimità costituzionale.
In seguito agli obblighi imposti dall’AIA all’ILVA SpA, quest’ultima ha così dovuto fermare l’altoforno 1 e le batterie di cokefazione 5 e 6, e nel gennaio 2013 sono poi state avviate le procedure per l’arresto delle cokerie 3 e 4. Inoltre è cominciata la chiusura dei nastri trasportatori dall’ambiente esterno, onde evitare che col vento disperdano polveri nell’ambiente. L’azienda ha avviato gli incarichi per la progettazione della copertura dei 70 ettari di parchi minerali, dove sono ammassati i minerali ferrosi ed il carbone, cosa che darà vita all’edificio più vasto al mondo. In attesa della sua realizzazione, è stata potenziata la spruzzatura d’acqua sui materiali allo scopo d’evitare che il vento ne disperda le polveri. Sempre in ottemperanza all’AIA, fra il 2011 e il 2012 gli stessi materiali sono stati ridotti in quantità e spostati di altri 80 metri dalle zone abitate. Secondo uno studio dell’ARPA Puglia, pubblicato il 19 dicembre del 2012, Taranto sarebbe nel frattempo divenuta una delle città meno inquinate d’Italia in termini di polveri sottili. Un successivo studio dell’ARPA Puglia ha confermato questa tendenza, collegandola alla riduzione delle attività industriali dell’ILVA.
Il commissariamento e la ripresa delle attività dello stabilimento
Tuttavia, nel maggio del 2013, gli ispettori dell’ISPRA hanno rilevato il persistere di violazioni ed inadempienze su diverse prescrizioni previste dall’AIA. Pertanto lo stabilimento è stato commissariato dal governo Letta per decreto ed affidato ad Enrico Bondi. Nel frattempo, però, a Taranto s’era svolto un referendum consultivo, a cui aveva partecipato il 19,55% degli aventi diritto al voto. Il mancato raggiungimento del quorum del 50% ne aveva in ogni caso invalidato il risultato e le finalità. I cittadini erano stati chiamati a scegliere tra la chiusura in toto dell’ILVA (opzione scelta dal 92,62% degli elettori) o solo la chiusura dell’area a caldo e il relativo smantellamento del parco minerali (5,30% dei votanti).
Il 4 giugno 2013 il governo Letta ha dunque approvato un decreto con cui è stato stabilito il commissariamento della società. L’amministratore delegato della società, Enrico Bondi, è stato nominato commissario, mentre a Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente, è stato assegnato il ruolo di subcommissario. Il 27 giugno del 2013 il commissario Bondi ha inviato alla Regione Puglia, all’ARPA Puglia e alle istituzioni locali uno studio commissionato dall’ILVA e condotto da noti epidemiologici in base al quale la mortalità a Taranto sarebbe ormai in calo da decenni.
Così, nel marzo del 2014, sempre su richiesta di Bondi e di Ronchi, il governo ha approvato il DCPM contenente il Piano Ambientale dello stabilimento di Taranto che chiude il riesame delle precedenti autorizzazioni ambientali del 2011 e del 2012. Sempre nel maggio del 2014 Piero Gnudi è diventato il nuovo commissario rimpiazzando Bondi, e nell’agosto dello stesso anno Corrado Carrubba ha sostituito Ronchi come subcommissario. Dal gennaio del 2015, poi, con l’ammissione di ILVA SpA come impresa strategica d’interesse nazionale all’Amministrazione Straordinaria per le Grandi Imprese in Crisi (ovvero la Legge Marzano), la Società e le sue sette principali controllate è stata sottoposta alla guida di un collegio commissariale composto da Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba.
La commissione europea e altre indagini
Giovedì 26 settembre 2013 la Commissione Europea ha avviato una procedura di messa in mora nei confronti dell’Italia, concedendole due mesi per rispondere prima del deferimento alla Corte di Giustizia, formulando l’ipotesi che il Governo italiano non abbia garantito il rispetto delle direttive comunitarie da parte dell’ILVA di Taranto, con le relative conseguenze in termini di salute ed ambiente, ed in particolare per “mancata riduzione degli elevati livelli di emissioni non controllate generate durante il processo di produzione dell’acciaio”. Il commissario all’Ambiente Janez Potocnik ha addirittura dichiarato che le autorità italiane “hanno avuto molto tempo per garantire che le disposizioni ambientali fossero rispettate, questo è un chiaro esempio del fallimento nell’adottare misure adeguate per proteggere salute umana ed ambiente”. La procedura di messa in mora aveva avuto avvio da un dossier di denuncia presentato a Bruxelles dalle associazioni Peacelink e Fondo Antidiossina.
Il 30 ottobre del 2013 sono stati quindi notificati gli avvisi di chiusura dell’indagine preliminare a ben 53 persone, fra cui l’allora governatore pugliese Nichi Vendola, gli imprenditori Emilio, Fabio e Nicola Riva, il commissario dell’ILVA Enrico Bondi, l’assessore regionale Lorenzo Nicastro, il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno, il direttore dell’ARPA Puglia Giorgio Assennato, il deputato di SEL Nicola Fratoianni, e altri vari dirigenti dell’ILVA e della Regione Puglia.
ILVA: un’altra occasione persa dal nostro paese
Il destino dell’ILVA, al momento, resta ancora molto nebuloso: sulla grande acciaieria tarantina, infatti, incombe la Spada di Damocle dell’indagine antitrust, che potrebbe concludersi in tempi brevissimi. Solo una settimana fa il ministro per lo Sviluppo Economico ha bloccato la trattativa sindacale, allo scopo di guadagnare tempo per convincere ArcelorMittal a rivedere le proprie posizioni. Compito comunque non facile, se consideriamo che ArcelorMittal non sembra affatto intenzionata a rivedere la sua offerta scritta. L’impressione è che anche ArcelorMittal voglia attendere il 26 ottobre, data per la quale s’attendono presumibilmente i risultati dell’indagine antitrust, per vederci più chiaro sulla situazione dell’ILVA.
Arcelor Mittal vorrebbe riassumere solo 10mila dipendenti sul totale di 14mila attualmente in forza a Taranto, e ha smentito anche il ministro Calenda, secondo il quale la società sarebbe stata disponibile ad accettare un costo del lavoro di 50mila euro mensili per 10mila addetti. Calenda ha poi giudicato come “svantaggioso” il tetto di produzione fissato a sei milioni di euro, criticando anche l’idea di ArcelorMittal di riassumere i dipendenti dell’ILVA da zero: “non è giusto che un operaio che ha lavorato vent’anni ricominci da capo”. Sul numero dei dipendenti invece l’intesa col ministero è stata raggiunta: “l’offerta è tenere 10mila dipendenti su 14mila, di cui oggi circa 2mila sono in cassa integrazione. Gli altri 4mila non verranno licenziati: rimangono sull’amministrazione straordinaria, che si occuperà di bonifiche con 1,1 miliardi di euro già in cassa”.
Calenda s’augura che “questa settimana Mittal riconosca che il punto di partenza è il salario attuale. Poi riconvochiamo il tavolo, si siederanno le parti e cercheremo di tutte sulle posizioni più pragmatiche. Se Mittal non accetta se ne assumerà la responsabilità. Se i sindacati non accettano, bisognerà ricominciare da capo, e questa prospettiva non la voglio neanche immaginare”.
La storia dell’ILVA, ed in particolare del suo stabilimento tarantino, è dunque molto lunga e viziata da anni di cattiva politica, di confronti strumentali tra Stato e sindacato risalenti ancora all’epoca della gestione pubblica e successivamente tramandatisi nella successiva gestione privata, funzionali a misurare i rapporti di forza fra le varie forze politiche in campo; ma è anche una storia di cattive commistioni fra politica ed impresa, sia a livello regionale che nazionale, e di speculazioni da parte di certe aree dell’ambientalismo dedite più ad un gioco politico che alla pura e semplice difesa dell’ambiente.
E, ancora, è una storia di strane e sospette ingerenze da parte anche delle istituzioni comunitarie e di una certa magistratura, anch’esse finalizzate più nel privare il paese di una produzione strategica come l’acciaio che a tutelare realmente gli interessi dei cittadini o di un’intera comunità. Di fronte a tutte queste considerazioni, viene sinceramente da chiedersi a chi giovi tutto questo. Lasciamo che sia il lettore a decidere e giudicare, secondo i suoi punti di vista e la sua sensibilità.
Se AlcerorMittali è l’azienda indiana che da alcuni anni opera in Francia, acquisendo acciaierie, perchè non ci si è informati sulla situazione delle acciaierie francesi e vedere i danni che sono stati fatti?. I sindacati europei non parlano tra di loro, e si vedono solo quando c’è qualche manifestazione dimostrativa, poi muore tutto lì, se i Sindacati collaborassero veramente tra di loro credo che la situazione dei lavoratori in Europa sia un pò migliore di quella attuale, stessa cosa per le cosiddette sinistre, che non si sa dove siano finite. alvaro