Sono molte le mani degli artisti che abbiamo visto farci cenno di commiato negli ultimi quattro anni, nella famiglia allargata della musica pop. Alla consapevolezza di una perdita, intrinseca nel vedere un artista lasciarci, va aggiunta quella legata alla quasi totale insufficienza del mainstream moderno nel generare (o dare spazio a) personaggi incisivi, quindi autori di opere altrettanto incisive, dotate di uno spessore paragonabile a quelle degli anni ’70, ’80 e ’90; ciò detto con le dovute eccezioni del caso.
Uno degli ultimi artisti a lasciarci è stato Mark Hollis, leader del gruppo Talk Talk. Questo gruppo è uno dei pochi nati in un modo e finiti in un altro; una rarità nella storia della musica, in quanto si incamminò su di un sentiero artistico partendo già da standards molto alti, evolvendosi poi in qualcosa di più maturo, tenendo comunque fede ai parametri qualitativi degli inizi. Una mutazione quindi, che non cedette il passo alla mancanza di ispirazione tipica delle seconde fasi di carriera di certi artisti, e neanche ad una vanitosa cerebralità, malattia che affligge un numero molto elevato di autori i quali, ad un dato punto del loro iter artistico, si sentono maturi e decidono di presentarsi agli ascoltatori come tali, perdendo molti di essi nel farlo.
Dal Punk alla New Wave
I Talk Talk quindi partono, in termini temporali, da un’epoca molto importante della musica popolare, una delle sue età dell’oro: la fine degli anni ’70 e l’ inizio degli ’80, con l’esplosione cosmica data dal Punk, che assassinerà il già morente Prog Rock, colpevole di una stanca ripetitività, giustiziandolo in pubblica piazza, facendo così che tutto il Rock potesse essere rigenerato, partendo da un nuovo anno zero.
Ovviamente il Punk non poteva rimanere immutato nei decenni; esso rappresentava una rivoluzione barbarica e primitiva, e quindi tra il 1977 ed il 1979, in quell’interregno che viene chiamato dagli studiosi in maniera un po’ nebulosa “Post Punk” troviamo già i germi, i primi segni di una ricerca musicale profonda, volta verso una nuova complessità. Tale complessità, non più eccessiva e pomposa come in passato, aveva due compiti fondamentali: doveva essere inedita e doveva aprire una via di fuga dalla prigione fatta dai quattro accordi, dai ritornelli di facilissima assimilazione e dalle ritmiche aggressive che avevano reso il Punk tale.
Il gruppo fondamentale per la comprensione del Post Punk sono i Joy Division, proprio perché esemplificano i passi in avanti compiuti dalle origini intrinsecamente primitive del Punk verso qualcosa di sinistramente moderno. I loro dischi sono testimonianze ancora attuali di quanto quella ricerca fosse indovinata, sensibile rispetto ai tempi e soprattutto artisticamente rilevante.
Dal Post Punk si passerà alla New Wave; essa porterà in se molti sottogeneri. Uno di essi sarà, per esempio, la Dark Wave, capitanata dai Bauhaus, The Cure e dagli stessi Joy Division nel ruolo di padrini. Un altro di questi generi minori sarà denominato New Romantic. Questo tipo di musica avrà degli accenti più marcatamente pop rispetto agli altri gruppi New Wave, molti dei quali facevano ancora loro l’etica senza compromessi del Punk, e offrirà quasi esattamente quello che la sua denominazione promette (essa deriva da un verso della canzone Planet Earth dei Duran Duran: “Like some new romantic looking for a TV sound”): abbiamo, come caratteristiche di base, liriche inaspettatamente poetiche e degli arrangiamenti musicali che elegantemente andranno a sposarle.
L’eredità dei Duran Duran e l’indipendenza artistica
I Talk Talk cominciano con quel tipo di approccio. Succede, tuttavia, qualcosa di inaspettato: un equivoco li vorrà, inseguendoli per una buona fetta di carriera, essere i nuovi Duran Duran, con la stampa di settore a descriverli insistentemente come tali. Questo, sarà almeno parzialmente vero, perché gli arrangiamenti dei primi due LPs dei Duran sono intelligenti, misurati, moderatamente sperimentali, ed hanno dalla loro una vena elegante, in questo senso molto oltre la media dei gruppi dell’ epoca. In questo, i primi due dischi dei Talk Talk si presentano come delle collezioni di canzoni in qualche modo sorelle di quelle pubblicate sui primi due lavori targati Duran Duran. Ad un ascolto più attento, tuttavia, le differenze sono già evidenti: una malinconia più personale e profonda; alcuni episodi come ad esempio “Renè” e “Such A Shame” dal secondo disco, sono lì a testimoniare una capacità di introspezione che mai sarà drammatica ma al tempo stesso più metafisica di quella messa in opera dal loro paragone più prossimo, i Duran Duran come detto.
Ci sarebbe quindi, dopo due dischi di grande successo, da aspettarsi una continuità che dal periodo ’81-’84 ci portasse, al grido di “formula vincente non si cambia”, a lavori presentanti le consuete linee guida. Invece, questo non succede; succede che i Talk Talk, nei dischi più tardi (due su tutti, “The Spirit Of Eden” e “The Laughing Stock”) diventano un gruppo sostanzialmente irriconoscibile rispetto agli esordi, con presumibile fastidio della loro casa discografica, che li mette sotto contratto con delle mire da alta classifica, per poi vederli progredire in maniera praticamente ingestibile.
La musica introspettiva di Hollis e il commiato artistico
È difficile poter contemplare nella storia del Rock, gruppi che nell’arco della loro discografia riescano a progredire mantenendo certi standards, come abbiamo accennato all’inizio. I Talk Talk ci riescono, ed è questo il loro risultato più importante, non con i due singoli che hanno scalato le classifiche ad inizio degli anni ’80 e che tutti o quasi conoscono. I dischi finali sono decisamente maturi, più interessanti e ancora più personali dei lavori che li avevano preceduti. Essi parlano con una voce totalmente personale che nessuno nel panorama britannico poteva o può vantare. I Talk Talk da qui in poi non somiglieranno più a nessuno; ciò è talmente vero che l’esperienza data da questa mutazione darà un contributo fondamentale alla creazione di quello che agli inizi degli anni ’90 sarà chiamato “Slow Core” e poi “Post Rock”: atmosfere sognanti, tempi dilatati, canzoni che non temono le barriere commerciali dei 3/4 minuti canonici, un certo spazio dato all’improvvisazione e voci quasi dimesse, prive di qualsiasi velleità da protagonista.
Dopo l’ultimo album con i Talk Talk, Mark Hollis realizza un disco solista. Un intro di solo piano e voce può essere considerato in retrospettiva un sereno addio, sia al mondo della musica (Mark non avrà alcun output discografico dopo questo) sia ai suoi ascoltatori. Collaborerà, al fianco del bassista dei Talk Talk, Rustin Man a sporadici progetti di produzione discografica.
Il talento immaginativo di Hollis
Difficile giudicare il genio di Mark Hollis sulla base di oltre trent’anni di carriera e dei pochi ma incisivi album lasciatici in eredità. Un senso di mistero avvolge quelle note, alle volte in contesto minimale, altre in immersione caleidoscopica nel suo mondo immaginale. C’è un talento in quelle note, che a parte alcuni sporadici episodi di classifica è maturato nel silenzio, e nel silenzio da pochi compreso. Una forma poetica unica, ineguagliabile come detto, che gli anni futuri proveranno essere indimenticabile.
Elias G. Fiore