Molti di noi, in questi giorni, assistono alla crisi politica in atto in Sudan, senza davvero riuscire a darsene una chiara spiegazione. Spesso e volentieri non sono poi di grande aiuto neanche i vari resoconti ed approfondimenti giornalistici, o più raramente televisivi, che nel trattare questa situazione tendono ad ignorare o a trascurare due grandi protagonisti della vita sudanese come il Nilo e l’Egitto.

Nella storia del Sudan, infatti, il rapporto con l’Egitto è stato sempre determinante. Potremmo per certi versi considerare il Sudan una prosecuzione dell’Egitto verso il cuore dell’Africa Subsahariana, e certamente così le leadership egiziane hanno sempre aspirato a considerarlo. Tale visione, del resto, era per molti versi reciproca tant’è che, guardando anche alla storia più remota, la simbiosi tra Regno Egizio ed Alta e Bassa Nubia era base e centro di floride civiltà che avevano nel Nilo il loro essenziale, principale ma non unico, fattore di contatto e di prosperità.

Passando attraverso le varie epoche, per giungere sino ai nostri giorni, non andrebbe sottaciuto il ruolo di “condominio” che il Sudan si trovò a rivestire per l’Egitto; sia quando quest’ultimo era provincia turco-ottomana sia successivamente, quando conobbe una certa emersione politica nelle vesti di regno arabo, retto da una dinastia turco-albanese, sia pur sempre sotto la formale autorità della Sublime Porta. Da “condomino” turco-egiziano quale occultamente era, non tardò a divenire ufficialmente “condominio” anglo-egiziano quando sull’Egitto, che pur ufficialmente rimaneva legato all’Impero Ottomano, Londra stabilì il proprio protettorato.

Passò il tempo e cambiarono gli equilibri internazionali, ma il Sudan restò sempre a suo modo vincolato al suo vicino settentrionale: la rivoluzione del 1952 in Egitto, con la caduta della monarchia egiziana, portò ben presto all’addio agli inglesi, con Khartum che a sua volta nel 1956 divenne indipendente. Indipendente, ma non svincolata dall’Egitto, a cui i suoi governi grossomodo sempre un po’ guardarono. In epoca nasseriana l’Egitto era tra gli animatori dei Non Allineati e vicino all’Unione Sovietica, mentre a partire dal tardo Sadat tornò su posizioni più filo-occidentali, stavolta di vicinanza con gli Stati Uniti mantenutesi anche col successivo Mubarak. In Sudan, sia sotto i lunghi domini di Nimeiry che del successore Bashir quel filo conduttore s’è sempre grossomodo mantenuto, e così anche col successivo ed attuale Consiglio Militare di Transizione.

In generale, indipendentemente dalla regia internazionale a cui di volta in volta s’affidava, che fossero gli Stati Uniti o l’Unione Sovietica, per l’Egitto il Sudan continuava a costituire una sorta di “rifugio peccatorum” di cui servirsi per tutti quei compiti e quegli impieghi per i quali non era il caso d’utilizzare il proprio territorio o di scomodare le proprie Forze Armate: dalla domiciliazione ed addestramento di al-Qaeda negli Anni ’80, che per note ragioni la Casa Bianca aveva allora molto a cuore, all’uso di Khartum come ariete contro l’Etiopia in anni più recenti, per le questioni ufficialmente dovute allo sfruttamento delle acque del Nilo legate alla Grande Diga del Rinascimento Etiopico (GERD).

E’ dunque un ruolo di “condominio” stavolta condiviso con gli USA, che non a caso in questa situazione manifestano preoccupazioni per la possibile perdita di certi loro “interlocutori” a Khartum paragonabili a quelle manifestate dal Cairo. E’ qualcosa che a molti può sorprendere, essendo portati ad immaginarsi un Egitto marcatamente distanziato dagli USA rispetto al passato; e in un certo qual modo lo è, ma a sua volta nemmeno può esserlo del tutto, per i tanti e chiari retaggi che si porta dietro, per la sua variegata natura politica interna e per le relative scelte strategiche ed ottiche di riequilibrio interno che ne derivano. E’ importante per la comprensione della complessa realtà egiziana cogliere la trasversalità di certi interessi tra tutte le sue fazioni, e quindi la relativa fluidità, a maggior ragione considerando l’attuale cambiamento in atto negli equilibri mediorientali e subsahariani che di certo ci riserverà anche molte altre future novità.

Di conseguenza, anche nel caso del Sudan, non possono mancare rapidi, frequenti e spesso imprevedibili cambi di alleanze e “giri di valzer”, che s’inquadrano nelle grandi complessità e fluidità politiche e sociali del paese. La trasversalità di certi interessi, legati a varie dinamiche, fa sì che le posizioni dei vari protagonisti risultino così assai mutabili. Anche l’attuale conflitto in seno al vertice sudanese, tra le Forze Armate guidate dal Generale Habdel Fattah Burhan e le Forze di Supporto Rapido (RSF) guidate dal Generale Mohamed Hamdam Dagalo detto “Hemedti”, riflette il dualismo tra due diverse visioni di paese, la prima tradizionalmente più filo-egiziana e l’altra mirante invece ad una maggiore autonomia finalizzata più al perseguimento degli interessi nazionali che alla tutela di quelli del proprio vicino e tutore settentrionale. Dopotutto pur con tutte le sue peculiarità l’Egitto in questa situazione è parte in causa da sempre, nonché attore “ombra” in campo tramite le Forze Armate sudanesi e non solo.

Le RSF per esempio sono pur sempre un frutto degli ultimi anni di Bashir, ed hanno avuto nel Darfur, da cui pure lo stesso Hemedti proviene, la loro vera e propria “prova del fuoco”. Eppure la loro azione politica, oggi, non riflette quella discendenza, quell’eredità politica, cominciando ad esempio dai settori islamo-radicali che invece preferiscono guardare alle Forze Armate. Quella delle RSF emerge così come una volontà di riaffermare e rivendicare un’identità sudanese maggiormente autonoma da quella egiziana, mentre le Forze Armate sudanesi ne riflettono facendolo proprio il modello. Non a caso tanto in Egitto quanto in Sudan il ruolo dei militari è storicamente centrale, non soltanto come tradizionali garanti della stabilità interna, ma anche per l’influenza rivestita nella vita politica ed economica: si pensi ad esempio al controllo di agglomerati produttivi e industriali o a quello degli apparati d’intelligence. Facile da qui comprendere anche il conflitto sociale, se consideriamo lo scontro tra le RSF attuali e le élites di Khartum, le prime espressioni proprio delle aree più povere di confine col Ciad cominciando dal Darfur e le seconde legate invece alle Forze Armate secondo uno schema oligarchico e militare che ricorda un po’ quello delle famose “duemila famiglie” egiziane.

In un simile quadro, conseguentemente, parlare del Sudan senza nominare l’Egitto ed il Nilo che riguarda ben più che la geopolitica d’entrambi rischia di condurre a valutazioni, per così dire, piuttosto zoppicanti.