Nel nostro precedente articolo dedicato alla crisi in Sudan, abbiamo guardato soprattutto (ma non solo) al ruolo egiziano nel paese. Ora, nessuno critica il ruolo dell’Egitto come paese indipendente a livello internazionale e mediorientale; ma, se guardiamo al quadro dell’Africa Subsahariana ed ancor più Orientale, allora dobbiamo dire che in questo caso il suo ruolo non sia sempre stato pienamente costruttivo, poiché soprattutto sulla questione del Nilo ha spesso interferito negli affari interni degli altri paesi attraversati dal suo corso, in primo luogo il Sudan che tradizionalmente usa come propria testa di ponte, scontando in questo senso anche il forte ed occulto condizionamento che riceve da parte di Israele.

Per esempio l’Egitto polemizza con l’Etiopia per le acque del Nilo che a suo dire verrebbero ridimensionate dalla Grande Diga del Rinascimento Etiopico (GERD), cosa in realtà non proprio vera perché quelle stesse acque dopo il loro utilizzo a scopi idroelettrici vengono poi regolarmente reimmesse nel Nilo; ma al tempo stesso rifornisce, sempre con parte delle acque del Nilo, Israele attraverso apposite infrastrutture nel Sinai. Praticamente sulla questione del Nilo l’Egitto da decenni deve ormai fare “anche” la politica di Israele, che per questa faccenda lo usa come propria testa di ponte in tutta la regione sottostante. Israele ha infatti sempre un po’ interferito negli affari interni dei paesi della Valle del Nilo proprio perché considera quel fiume come qualcosa che in parte è anche sua, al punto che in Etiopia formò negli Anni ’60 e ’70 la Brigata Flamme, la guardia del corpo del Negus Haile Selassie, mentre negli Anni ’80 fornì aiuti militari a Menghistu Haile Mariam in lotta col FPLE eritreo e con la Somalia di Siad Barre, con tutto che in base alla sua appartenenza politica ed ideologica non apparisse, almeno teoricamente, un leader proprio filo-occidentale.

Una cosa che non andrebbe poi dimenticata, parlando proprio della questione del Nilo, è il potere di veto che sostanzialmente l’Egitto detiene in virtù di un vecchio trattato degli Anni ’20, rivisto negli Anni ’50, all’eventuale realizzazione di dighe ed invasi che potrebbero danneggiarne la portata. Tuttavia, come abbiamo già detto, questo non è il caso della GERD; di conseguenza si tratta di un uso abusivo di uno strumento di legge ormai certamente bisognoso di nuove revisioni, e proprio il continuo ricorso alle minacce (persino d’interventi militari diretti, come nel ’78, ai tempi di Sadat, allorché l’Etiopia progettava una diga sul Nilo Azzurro) col tempo finisce per privarlo sempre più di credibilità. Insomma, anche su questa materia è bene che i paesi della Valle del Nilo trovino insieme una soluzione politica tramite lo strumento della diplomazia e senza le ingerenze di altri attori esterni, che nella Valle del Nilo decisamente non sono e non devono essere di casa; mettendo quindi al bando diktat e situazioni di possibile e controproducente tensione.

Dopotutto, anche nell’attuale scontro in atto in Sudan, non bisognerebbe dimenticare che il capo delle Forze Armate sudanesi, Burhan, fa propria la linea egiziana contraria alla GERD, mentre per Hemedti, capo delle Forze di Supporto Rapido (RSF), essa non danneggerebbe minimamente gli interessi sudanesi, come effettivamente è. Proprio questo fa capire quanto il Nilo, con tutti coloro che vi sono in un modo o nell’altro coinvolti ed interessati come in primo luogo proprio i paesi sinora menzionati, su questa attuale crisi in atto a Khartum pesi e neppure poco.

Rimanendo sempre nel tema delle ingerenze di altri paesi negli affari interni del Sudan, non ci deve sfuggire la visita della Sottosegretaria di Stato USA Victoria Nuland a Khartum dello scorso 9 marzo, ovvero un mese prima che nel paese scoppiassero i disordini, e un mese dopo che il governo sudanese, formato da militari, paramilitari e civili (quindi rispettivamente le FFAA sudanesi, le RSF e le élites sia laiche che islamiste che controllano i primi due o parteggiano per l’uno o per l’altro o che svolgono una funzione di trasversalità, di garanti più o meno comunemente riconosciuti: per tutte queste dinamiche rimandiamo al nostro articolo precedente) aveva firmato un’intesa con Mosca riguardo una partnership per la difesa comprensiva anche di una possibile base russa sul Mar Rosso. La giunta sudanese, che dal 2019 ad oggi ha conosciuto vari rivolgimenti interni quando in senso filo-USA/UE e quando in senso filo-Russia/Cina, tra colpi e contro-colpi di Stato interni, ha a quel punto effettuato un rapido ritorno sui propri passi, evidentemente convinta o persuasa dalla controfferta americana.

Ciò, almeno, per quanto riguarda le Forze Armate sudanesi… con ovvia e prevedibile reazione delle RSF, mai sentitesi davvero integrate nella compagine di governo e guardate con diffidenza dalle élites di Khartum, diffidenza del resto ricambiata. L’avevamo già detto, Burhan guarda all’Egitto, mantenendosi possibilista sull’essere quando filo-occidentale e quando filo-russo, mentre Hemedti propende decisamente più per la seconda fazione, tanto che a febbraio aveva effettuato una visita a Mosca e così prima ancora al termine dello scorso anno. Insomma, s’è scatenato l’ennesimo regolamento di conti interno, che però stavolta si sta manifestando con modalità ben più feroci e guerreggiate di quelle viste nei rivolgimenti precedenti. Certamente, le garanzie politiche che la parte araba (ovvero l’Egitto e l’Arabia Saudita, che del Cairo è anche un importante sponsor finanziario) dovrà dare per favorire una ricomposizione rapida del conflitto dovranno essere generose, e tali da favorire e rappresentare un vero punto di svolta. Non a caso a Riyad è in atto una mediazione tra rappresentanti delle due parti in conflitto, e già in passato abbiamo visto che il ruolo saudita come valido mediatore regionale spesso e volentieri può fare la differenza.

Considerando certi equilibri sovranazionali venutisi nel frattempo a creare, a cominciare dall’emergente ruolo russo e cinese in Medio Oriente, che già ha favorito la ricomposizione della frattura tra Iran ed Arabia Saudita, reso possibile una pace di quest’ultima con gli Houthi dello Yemen ed implementato il processo di pace e recupero della sicurezza interna in Siria, è dunque più che possibile che finalmente anche in Sudan s’approdi a quel “cambio di passo” che palesemente già si ravvedeva nei primissimi giorni di questa ennesima crisi e che sta contrassegnando sia il Medio Oriente che l’Africa Settentrionale e Subsahariana.

Del resto, a lavorare perché vi siano la pace e prima ancora le condizioni per un suo attecchimento sono già in molti, a cominciare per esempio dall’Eritrea il cui ruolo di fondamentale attore regionale negli anni è andato imponendosi sempre di più. Importantissima, in tal senso, l’intervista rilasciata dal Presidente eritreo Isaias Afewerki ai media nazionali e ben presto notata anche all’estero, che riflette il ruolo diplomatico ed umanitario che l’Eritrea può rivestire nella crisi in Sudan. Secondo il Presidente Isaias Afewerki, infatti, le varie fazioni sudanesi devono trovare una soluzione politica e quindi unicamente pacifica al loro conflitto, così da riportare alla stabilità il paese; e ciò deve avvenire con gli strumenti della diplomazia e del diritto, avvalendosi se necessario anche dell’assistenza fornita dagli organismi regionali locali come l’IGAD (l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo, che unisce tutti i paesi della regione), e senza naturalmente le ingerenze di soggetti esterni. Tale linea era già stata espressa a suo tempo per la Somalia, allora divisa nelle lotte tra fazioni interne.

Inoltre, sempre secondo il Presidente, molti mali attuali sono frutto del regime di Bashir, che dal 1989 al 2019 ha posto l’agenda islamista al di sopra degli interessi del Sudan, privandolo degli importanti risultati che aveva raggiunto nei decenni precedenti, quando il suo sviluppo era risultato persino al di sopra della media del Continente. Infine l’Eritrea, che non dimentica l’importante aiuto che anche il Sudan diede alla sua causa di liberazione ospitando molti suoi cittadini negli Anni ’80, a sua volta terrà ora “senza fanfare” i suoi confini aperti, affinché nel suo territorio possano trovare rifugio molti cittadini sudanesi, condividendo con costoro tutte le proprie risorse ed assicurandogli piena e sicura ospitalità. Il grande debito di gratitudine che gli eritrei provano per il Sudan come per la Somalia, che ugualmente in quei duri anni diede loro un importante aiuto, non è mai stato dimenticato. Già nei giorni scorsi molti civili d’altri paesi, cominciando da quelli cinesi, hanno infatti potuto mettersi in salvo proprio grazie all’appoggio fornito dall’Eritrea, che ha collaborato alla loro evacuazione mettendo a disposizione il proprio territorio e le proprie infrastrutture.