Esattamente 25 anni fa, il 20 marzo 1994, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin venivano brutalmente assassinati a Mogadiscio. Non sono bastate due commissioni d’inchiesta e svariati processi per tentare di individuare gli esecutori materiali e i mandanti del loro brutale assassinio. Dopo oltre due decenni di battaglie giudiziarie coraggiose contro insabbiamenti e depistaggi di ogni genere e contro gli omissis dei segreti di Stato (che ancora permangono e impediscono di individuare i ruoli effettivi di molti faccendieri), è scomparsa anche mamma Luciana.
In questi 25 anni non siamo venuti a capo di niente. Peggio. Nel corso di questa terribile messa in scena politico-giudiziaria un ragazzo somalo (Omar Hassan Hasci) è stato ingiustamente condannato a 26 anni di reclusione (di cui 17 scontati in carcere) a causa di una falsa testimonianza di un altro somalo (Ahmed Ali Rage detto Gelle) che, sotto le promesse di compensi di ignoti, lo calunniò nell’ambito di un’attività di depistaggio di più ampia portata.
La sentenza della Corte d’Appello di Perugia che il 13 gennaio 2016 ha assolto Hasci ha scritto di “condotte che generano sconcerto” e sottolineato le “mancate concrete ricerche” del Gelle, che pur risultando alle autorità italiane “irreperibile” fu agevolmente intervistato da una nota trasmissione di RaiTre a Londra. Questa sentenza, nonostante il contenuto esplosivo dei rilievi dei giudici di Perugia, è passata incredibilmente sotto silenzio mentre avrebbe dovuto generare un terremoto istituzionale. Mamma Luciana pubblicò a sue spese un comunicato sulla stampa il 20 marzo 2017: al dolore di madre si aggiunsero anche l’umiliazione e il tormento di un’attesa che alla fine ha ucciso anche lei, nell’indifferenza dei più.
Ma, lo sappiamo, in Italia spesso la verità giudiziaria è sempre altro rispetto a quella storica. Ce lo ricordano le tante, troppe stragi di Stato che ancora restano impunite. Malgrado centinaia di fascicoli intestati a faccendieri di ogni risma rimangano secretati, la verità storica su Ilaria e sulla Somalia appare comunque in modo incontrovertibile. Con un percorso senza soluzioni di continuità dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Novanta del secolo scorso il colonial-fascismo italiano si è espresso per quello che effettivamente è stato. Dalla Società del Benadir alla Tangentopoli della Cooperazione italiana, che ha bruciato ben 1.400 miliardi di vecchie lire, la Somalia è stata per decenni il terreno delle nostre scorrerie, delle nostre malefatte e dei nostri (immutabili) vizi: lottizzazione politica, corruzione, abusi di potere, malversazioni, conflitti di interessi e uso disinvolto del denaro pubblico per finalità e ruberie private, opacità della politica e mancanza di controlli. Gli italiani non lo sanno e non lo vogliono sapere.
Ogni tanto riemerge da questo blob qualche spezzone di notizia e/o di verità ma poi tutto ritorna nell’oblio: la maggioranza degli italiani forse preferisce coltivare il suo immaginario collettivo intriso di falsi miti, di convinzioni e teorie giustificazioniste, e ancora oggi ignora gli sviluppi delle lobby colonialiste e le lottizzazioni che la Cooperazione allo sviluppo degli anni Novanta del secolo scorso avviò impunemente. Oggi nuovi speculatori si affacciano sul suolo somalo: i turchi stanno costruendo la loro nuova base militare a Mogadiscio, e sia turchi che emiratini si stanno impadronendo dei porti somali.
L’unico modo per ricordare oggi degnamente Ilaria e Miran è cercare di aiutare la Somalia ad uscire dalla sua crisi e cercare di tutelare ciò che rimane del suo passato e della sua identità. Anche Mogadiscio dovrà lasciarsi alle spalle una lunga storia di “damnatio memoriae” e ripartire. Qui operò tra gli Anni Venti e Quaranta l’architetto Carlo Enrico Rava, che realizzò nel 1934 l’albergo Croce del Sud e l’Arco di Trionfo valorizzando i caratteri costruttivi dell’architettura tradizionale banaadiri e declinandoli in chiave razionalista. Oggi l’albergo Croce del Sud, gravemente danneggiato dagli eventi bellici, è stato parzialmente inglobato in un centro commerciale. Tutto il quartiere di Shingaani (Cingani) è ormai ridotto a un cumulo di macerie dopo vent’anni di guerre tribali e a causa della totale mancanza di norme che tutelino il patrimonio. Hamarwweyne (Amaruini) è rimasto miracolosamente quasi intatto, anche se soffre di grandi problemi infrastrutturali. Molti speculatori vorrebbero impadronirsi di ciò che resta di Shingaani, le cui rovine oggi restano orrendamente desolate a pochi metri dalla battigia, masticate dal sole e dilavate dal vento, abitate solo da profughi disperati.
Nonostante i continui attentati dinamitardi di al-Shaabab, tutto però non è ancora andato perduto per Mogadiscio e per la Somalia. Gli italiani oggi possono cercare di rimediare alle loro colpe e alle loro responsabilità storiche dando un concreto contributo alla tutela e valorizzazione di ciò che resta del patrimonio somalo. Ma occorre tornare sulle piste di Ilaria, e riscoprire il senso civico di questa giovane giornalista italiana caduta vittima dei turpi traffici della Cooperazione e che ebbe il coraggio di investigare in nome della verità. Per questo “ricordare” ha sempre la sua forza, e ridà una prospettiva profonda di giustizia e dignità, orientando l’eticità dell’azione.