La settimana scorso era cominciata con grandi speranze. Le parole del Professor Michio Hirano avevano fatto presagire che per Charlie Gard ci fosse una chance per migliorare. Così il giudice Nicholas Francis si era convinto a permettere al neurologo americano, con un team di esperti internazionali tra i quali anche un esperto di patologie mitocondriali che lavora per l’ospedale pediatrico Bambin Gesù, di visitare il bambino e di effettuare, insieme ai medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, una nuova risonanza magnetica ed altri esami per sincerarsi delle condizioni del piccolo Charlie.

Come è giusto in queste situazioni, le visite si sono svolte col massimo riserbo e anche dal meeting successivo, al quale ha partecipato anche mamma Connie, non sono trapelate che poche parole.

Da parte dei genitori c’era molta fiducia perché le condizioni di Charlie apparivano stabili e sembrava confermata l’assenza di problemi cerebrali strutturali che avrebbero impedito al bimbo di sottoporsi alla cura sperimentale. Ma da parte del GOSH, anche dopo il meeting, non c’è stato alcun cambio di opinione a riguardo.

Martedì 18 luglio, dagli States è arrivato il via libera da una commissione della Camera per concedere la residenza permanente a Charlie Gard e ai suoi genitori, Chris e Connie. La proposta passata all’unanimità  con la votazione di un emendamento presentato dalla repubblicana Jaime Herrera Beutler nell’ambito di un progetto di legge più vasto su immigrazione e sicurezza nazionale, se approvata sia dalla Camera che dal Senato USA, avrebbe garantito a Charlie e ai suoi genitori la cosiddetta green card, che da lo status di residente permanente e la possibilità di vivere e lavorare negli Stati Uniti. Il permesso di portare Charlie Gard negli USA spettava comunque al giudice dell’Alta Corte britannica, ma la residenza permanente sarebbe stata comunque una mossa politica importante.

Mentre avveniva tutto questo, si scopre qualcosa che lascia tutti molto perplessi, primi fra tutti Chris e Connie: Victoria Butler-Cole, legale nominato dalla CafCass, un ufficio statale che si occupa di rappresentare i bambini nelle cause legali familiari, è un’attivista per l’eutanasia e per il suicidio assistito. Victoria Butler-Cole è infatti presidente della “Compassion in dying”, associazione che si occupa di legalizzare ed estendere eutanasia e suicidio assistito. Un vero e proprio conflitto di interessi.

Leggiamo da un articolo de l’Occidentale:

“La brillante avvocato è poi presidente di “Compassion in dying”, una charity che vuole aiutare i cittadini in tutte le decisioni personali sul fine vita, supportando ad esempio le direttive anticipate di trattamento specie per trattamenti che si vorrebbero rifiutare nel caso non si fosse più in grado di dare il proprio consenso. Dal punto di vista finanziario, il miglior anno è stato il 2012, quando hanno raggiunto 1,023,133 sterline a fronte di 336,436 di spese. Particolarmente significative le brevi biografie dei dirigenti: nello staff, ad esempio, Chief Executive è Sarah Wootton (fra i fondatori di Abortion Rights) che è anche Cheif Executive nella associazione sorella – così viene definita – “Dignity in Dying”, esplicitamente dedicata al sostegno dell’eutanasia. Anche Davina Hehir – Director of Policy and Legal Strategy- e Lloyd Riley – Policy and Research Manager – rivestono la stessa carica nella associazione a sostegno dell’eutanasia, mentre l’attuale tesoriere, Niccola Swan, è stata solamente membro del board di “Dignity and Dying”. Ma soprattutto Victoria Butler-Cole ha seguito numerosissime cause in ambito medico, molte delle quali proprio riguardanti persone non più capaci di esprimere il proprio consenso alle cure.

Leggiamo che lo scorso gennaio, per esempio, il Times la incoronava “avvocato della settimana” per aver brillantemente curato gli interessi di Lindsey Briggs: suo marito, Paul Briggs, 43 anni, veterano della guerra del Golfo, era in stato di minima coscienza dopo un grave incidente stradale nel 2015, e la consorte chiedeva di portarlo in hospice per ricevere cure palliative e sospendere alimentazione e idratazione assistita. “La signora Briggs è certa che suo marito non avrebbe voluto continuare a ricevere questi trattamenti”, dichiarava ai giornali la Butler – Cole lo scorso novembre, e l’Alta Corte il gennaio successivo le ha dato ragione, nonostante i medici ritenessero che ci fossero possibilità di miglioramento. Non è certo la prima volta che accade qualcosa del genere in Gran Bretagna, ma – sottolinea The Times – “è la prima che una Corte ha stabilito che acqua e cibo vengano sospesi ad un paziente clinicamente stabile”.

Intervistata sul caso Briggs, alla domanda “Quale legge vorrebbe promulgare?”, la Butler-Cole risponde “Quando la Court of Protection (tribunale inglese chiamato in causa per chi non è in grado di dare il proprio consenso) decide che non è il miglior interesse di una persona continuare a ricevere nutrizione e idratazione artificiale, questa è interrotta e la persona muore disidratandosi lentamente. La Corte non può autorizzare invece una dose fatale di farmaci. Secondo me, questo è chiaramente sbagliato”. Meglio un colpo secco, insomma, in certi casi. Difficile darle torto, certo, ma vogliamo sommessamente osservare che l’idea molto ben illustrata di “best interest” ci lascia a dir poco perplessi.

Più recente, lo scorso maggio, un altro caso analogo: una donna di 70 anni che chiede la sospensione dei supporti vitali per sua figlia, che di anni ne ha 50, ha la Corea di Hungtinton, da più di venti non mostra consapevolezza di ciò che la circonda e sembra arrivata ormai alla fine. Victoria Butler-Cole rappresenta la mamma in tribunale. E alla domanda “come vorrebbe essere ricordata”, la Butler-Cole risponde “per il mio coinvolgimento con la charity Compassion in Dying, incoraggiando le persone a scrivere le proprie decisioni anticipate per rifiutare i trattamenti, così che le loro famiglie poi non abbiano bisogno di rivolgersi ai tribunali”. Ma siamo sicuri che una persona così possa rappresentare il “best interest” di Charlie?”

Venerdì 21, il giudice Francis ha ripreso l’udienza presso l’Alta Corte per trascrivere il rapporto del meeting tenuto dagli esperti che hanno visitato Charlie.

In questa occasione, l’avvocato difensore del Great Ormond Street Hospital, Katie Gollop, ha detto che i risultati delle analisi fatte su Charlie danno esiti molto “tristi”. Anche se i nuovi esami MRI e EEG non fanno intendere che ci siano problemi strutturali e irreversibili provocati dalle crisi epilettiche sofferte dal bambino, negli ultimi mesi il deperimento muscolare dovuto alla patologia mitocondriale è peggiorata e ciò renderebbe inefficace il volerlo sottoporre alla cura sperimentale.

Ciò vorrebbe dire che il tempo passato in questi mesi senza tentare alcun tipo di terapia ha peggiorato le condizioni di Charlie. Il GOSH ha in questi mesi, di fatto, rinunciato a curare il bambino, ostinandosi nel ritenere che l’encefalopatia del piccolo fosse irreversibile (cosa che i referti non confermano). Charlie poteva essere sottoposto a una tracheotomia per non costringerlo a stare col ventilatore artificiale attaccato, ma ciò non è stato fatto. I medici inglesi hanno rinunciato perfino a fare nuovi esami per monitorare le condizioni del bambino. Di fatto, da marzo, l’ospedale inglese ha rinunciato a curare Charlie e ciò ha fatto peggiorare il problema mitocondriale.

A questo punto non c’è nessuna possibilità di curare il bambino, nessun miglioramento sarebbe possibile.

Ed è per questo che oggi, davanti al giudice Francis, Chris Gard e Connie Yates hanno deciso di ritirare la loro richiesta di portare il piccolo Charlie negli Stati Uniti per sottoporlo alla cura sperimentale del Prof. Hirano.

 

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 “Non c’è più tempo” – hanno giustificato la loro decisione in aula – “Lasceremo andare nostro figlio con gli angeli. Passeremo questi ultimi giorni vicino a Charlie che purtroppo non potrà compiere il suo prima anno di vita, cosa che sarebbe accaduta tra due settimane. Siamo profondamente dispiaciuti per non essere riusciti a salvarti, ma ti amiamo moltissimo e continueremo a farlo in futuro”.

Il giudice Francis ha pertanto confermato la decisione presa ad aprile: Charlie morirà per eutanasia passiva attraverso il distaccamento della ventilazione artificiale.

“Ora devono affrontare la realtà, cioè che è nel migliore interesse di Charlie morire. Confermo il mio verdetto di aprile” – ha detto il giudice riguardo ai genitori, aggiungendo: “La notizia che Charlie fosse un prigioniero del Servizio sanitario inglese è l’antitesi della verità”.

A passare, quindi, è la linea del Great Ormond Street Hospital secondo la quale “non c’è qualità nella vita di Charlie” e che, non potendo far nulla per guarirlo, è giusto rinunciate ad ogni tipo di cura e provocargli una “morte dignitosa”.

Non importa che i nuovi esami non diano alcuna prova del fatto che Charlie stia soffrendo. Non importa il fatto che si sia sprecato solo tempo negli ultimi mesi, permettendo alla malattia di peggiorare le condizioni del bambino.

Charlie non può più essere guarito dall’uomo, quindi è giusto che muoia: “è nel suo miglior interesse”. Ecco il sunto della sentenza.

Ma il piccolo Charlie ci ha insegnato che dove non arrivano i grandi e i dotti, arrivano i piccoli. Charlie ci ha abituati ai miracoli e in quelli dobbiamo confidare.

 

Marco Muscillo