Quando, ormai due anni fa, i cittadini britannici s’espressero per la Brexit, certamente gran parte di loro s’aspettava che a quest’ora il paese fosse ormai completamente uscito dall’UE. La lentezza con cui Theresa May, succeduta a David Cameron, ha intrapreso questo percorso, ha finito così con lo scontentare la gran parte dei sostenitori della Brexit, senza del resto accattivarsi alcuna simpatia in coloro che invece vi s’opponevano. Anzi, le voci secondo cui prima o poi Londra potrebbe addirittura indire un secondo referendum, con la speranza d’invalidare il risultato del primo, hanno portato molti elettori del Partito Conservatore a giudicarla come una figura ben poco affidabile.
Mercoledì scorso Theresa May ha annunciato il raggiungimento di un accordo con Bruxelles per la Brexit, dopo un anno e mezzo di non facili trattative. Tuttavia è stato proprio quell’incontro a suscitare ulteriori malcontenti nel suo governo e nel suo partito, con nuove defezioni che hanno lasciato il suo premierato in bilico.
In teoria, la cosa più difficile da ottenere per Theresa May, in questo momento, sarebbe quella d’ottenere l’approvazione del Parlamento sul suo accordo per la Brexit. Il Guardian sostiene che nelle prossime settimane la premier britannica dovrebbe riuscire a portare dalla propria parte un’ottantina di parlamentari al momento contrari. In ogni caso, ciò non risolverebbe i problemi di leadership di Theresa May all’interno del proprio partito.
La questione dovrà essere puntualizzata almeno prima del prossimo 25 novembre, quando si terrà il summit straordinario del Consiglio Europeo, finalizzato alla valutazione e all’approvazione dell’accordo raggiunto mercoledì scorso. Per Theresa May, a questo punto, potrebbero aprirsi diversi scenari, non tutti proprio piacevoli: se, ad esempio, la procedura già avviata per la sua rimozione da capo del partito trovasse la firma di 48 parlamentari conservatori, dovrebbe non soltanto mollare le redini della segreteria ma anche quelle del governo, dando le dimissioni da premier.
I sostenitori della “hard Brexit” dichiarano di poter contare su almeno ottanta firmatari, dunque molto di più del numero minimo richiesto dal regolamento del partito. Naturalmente se non fosse così, e non riuscissero neppure a raccogliere 48 firme, incorrerebbero in un grande danno d’immagine che per Theresa May costituirebbe un’importante boccata d’ossigeno. Alla BBC Graham Brady, capo del comitato interno del partito, ha dichiarato di non aver ancora ricevuto le 48 lettere necessarie, ed i tempi per agire a disposizione dei sostenitori della “hard Brexit” sono decisamente brevi.
Se la mozione di sfiducia interna al partito dovesse essere avviata, Theresa May dovrebbe cercarsi 159 voti, ovvero la metà dei suoi 316 deputati più uno, per rimanere in sella. Alcuni sostengono che se fosse sfiduciata da più di 100 membri, si ritroverebbe politicamente delegittimata, ma ciò non implicherebbe comunque alcun obbligo di dimissioni, a maggior ragione se teniamo conto che un avvicendamento alla guida del governo in una fase così delicata per Londra apparirebbe a molti come assai inopportuna.
Se invece la mozione di sfiducia venisse presentata ed avesse pure successo, verrebbe avviato d’ufficio la procedura per sostituirla alla guida del partito, un incarico che per tradizione in Inghilterra coincide con quello di primo ministro. Probabilmente si dovrebbe chiedere una proroga sulle trattative per la Brexit all’UE, con la certezza che comunque quest’ultima rifiuterebbe.
In una simile situazione, sono in molti a presentarsi già come nuovi possibili eredi di Theresa May: in primo luogo l’ex ministro per la Brexit, Dominic Raab, dimessosi proprio mercoledì scorso in dissenso con l’accordo raggiunto da Theresa May con Bruxelles. Vada come vada, è in ogni caso probabile che il prossimo leader del partito conservatore sarà un sostenitore della “hard Brexit”.
Questo per quanto riguarda la situazione interna al partito: ma a livello esterno, cominciando dal Parlamento, è ancora tutta un’altra sfida. Il governo non ha più una maggioranza parlamentare da quando il Partito Unionista Democratico dell’Irlanda del Nord ha ritirato la propria fiducia, e non ci si dovrebbe meravigliare se quei parlamentari che hanno battagliato contro Theresa May dentro il partito decidessero, coerentemente, di continuare a farlo anche in parlamento, allineandosi agli ex alleati nord irlandesi.
Il 29 marzo 2019, in ogni caso, sarà il giorno in cui la Brexit diverrà realtà, e dal giorno seguente l’Inghilterra non sarà più un paese comunitario. Ovviamente, in caso di mancata approvazione da parte del Parlamento inglese dell’accordo raggiunto tra Theresa May e l’UE, sarà una Brexit che riporterà Londra ad un livello totalmente precedente alla sua adesione alla Comunità Europea. Pertanto, Theresa May spingerà molto su questo punto, parlando delle conseguenze sui mercati, dei rischi derivanti dalla mancanza di un accordo, ecc, per costruirsi una maggioranza anche dell’ultima ora.
Del resto, se nel frattempo cambiasse il primo ministro, la situazione non sarebbe molto più semplice: il nuovo leader, infatti, dovrebbe negoziare con l’UE un altro accordo in poche settimane, quando per Theresa May sono stati necessari 17 mesi a creare il suo. Non sembra una prospettiva molto realistica, soprattutto se pensiamo che Bruxelles non si dimostrerebbe di certo molto collaborativa e che poi quell’accordo dovrebbe poi guadagnarsi, in Parlamento, anche i voti dei parlamentari rimasti fedeli a Theresa May. L’ipotesi di una Brexit senza accordi, quindi, anche in questo caso apparirebbe tutt’altro che remota.
Se invece il governo di Theresa May cadesse per sfiducia del Parlamento o per dimissioni dopo un’eventuale bocciatura dell’accordo, ci sarebbero solo 14 giorni per formare un nuovo esecutivo. In caso contrario bisognerebbe andare a nuove elezioni, ma in tal caso servirebbero sei settimane, proprio nel bel mezzo della bufera politica fra Londra e Bruxelles. Per giunta, in caso di nuove elezioni, stando ai sondaggi, il Partito Laburista di Jeremy Corbyn sarebbe avanti ai Conservatori di tre punti: 39% contro il 36%.
Una tentazione potrebbe essere rappresentata da un nuovo referendum, ipotizzabile però solo nel caso in cui l’accordo ottenuto da Theresa May affondi completamente. In tal caso, però, per i Conservatori potrebbe essere un bagno di sangue, perché ammetterebbero neppure troppo implicitamente di non aver voluto rispettare la volontà popolare dopo aver detto il contrario per due anni. E, comunque, nulla vieta di pensare che il sì alla Brexit non possa vincere di nuovo.
Jeremy Corbyn, in ogni caso, ha già manifestato la sua perplessità in merito ad un secondo referendum, pur essendosi espresso già ai tempi del primo affinché Londra rimanesse nell’UE. Ha però detto che in futuro tale ipotesi potrebbe essere rispolverata. Per quanto concerne l’accordo raggiunto da Theresa May, ha invece dichiarato che il Labour non lo voterà, contribuendo molto probabilmente a farlo naufragare. E’ però anche vero che, fra i laburisti, non sono pochi i parlamentari che invece sarebbero tentati di sostenerlo.
Insomma, la situazione politica inglese appare a dir poco nebulosa. Se, nel 2019, i conservatori dovessero collassare del tutto ed il paese dovesse tornare alle urne, una probabile vittoria dei laburisti darebbe poi fiato a nuove possibilità fra Europa ed Inghilterra. A Bruxelles, per esempio, potrebbero ritrovarsi a fare i conti con un nuovo premier inglese che vorrebbe rientrare nell’UE, ma chiaramente secondo le proprie condizioni, e con forti critiche rispetto ai modelli economici finora seguiti dai vertici comunitari. In un momento in cui i vertici di Bruxelles devono fare i conti con la forte avanzata delle destre populiste o sovraniste che dir si voglia, e che potrebbero essere le vincitrici delle prossime elezioni Europee, ciò costituirebbe una nuova ed inedita spina nel fianco, stavolta non da destra ma da sinistra.