Dopo Mohamed Beji Caid Essebsi, se ne va anche un’altra figura di rilievo nella storia della Tunisia: Zine El Abidine Ben Ali, caduto dopo la “Rivoluzione dei Gelsomini” nel febbraio 2011 e da allora in esilio in Arabia Saudita. Proprio un mese fa il suo avvocato, Mounir Ben Salha, aveva dichiarato che l’83enne Ben Ali era “molto stanco” dopo anni di cure per un tumore alla prostata.
Figura indubbiamente controversa, Ben Ali aveva saputo comunque garantire al proprio paese una transizione morbida dopo la lunga era del Padre della Patria, il “Combattente Supremo” e “Presidente Eterno”, Habib Bourghiba, che nei suoi ultimi anni non era più perfettamente in sé, con forti ricadute sulla politica interna ed estera della stessa Tunisia (si pensi all’appoggio dato nella prima metà degli Anni ’80 all’OLP di Yasser Arafat, che stabilì per un breve tempo il suo quartier generale proprio a Tunisi, col risultato di un’incursione aerea israeliana). La Tunisia, a sua volta, era pungolata dal crescente fondamentalismo islamico contro cui proprio il futuro “Presidente Poliziotto” Ben Ali scatenava, ancora nelle vesti di Generale, una lotta serrata e non di rado sanguinosa.
Nominato primo ministro nel tardo 1987, dopo circa un mese col famoso “golpe medico” Ben Ali destituiva Bourghiba, che da allora in poi avrebbe vissuto con tutti gli agi e gli onori propri di un capo di Stato ancora nelle sue funzioni in una lussuosa residenza di proprietà dello Stato (al punto che Bourghiba, sempre più senescente, quando nel 2000, all’età di 97 anni, morì nella sua Monastir, ancora credeva d’essere il vero Presidente della Repubblica e nessuno, per rispetto, lo contraddiceva al riguardo).
Il Partito Socialista Desturiano di Bourghiba si trasformò così, a partire da quel momento, nel Raggruppamento Costituzionale Democratico (sciolto nel 2011, dopo la caduta di Ben Ali), ed il paese tornò su livelli politici più moderati, oltre ad aprirsi maggiormente coi suoi vicini, ovvero l’Algeria ma soprattutto la Libia del Colonnello Muhammar Gheddafi, coi quali il Combattente Supremo non sempre aveva avuto rapporti molto distesi.
Col tempo, comunque, anche la figura di Ben Ali cominciò ad appannarsi, rendendosi sempre più evidente la sua difficoltà per la crescente età e i nuovi problemi di salute nel gestire appieno la situazione politica ed economica del paese, in particolare col progressivo affermarsi nelle istituzioni di un sistema vieppiù clanico (dov’era soprattutto il clan della moglie, Leila Trabelsi, a svolgere un vero e proprio ruolo di “asso pigliatutto”, anche con comprensibili ricadute in senso nepotista e clientelare). Prima che la famosa “Rivoluzione dei Gelsomini” spazzasse via Ben Ali dando inizio al grande “domino” delle “Primavere Arabe”, in Tunisia e fra gli osservatori internazionali ci si confrontava su chi avrebbe rimpiazzato il vecchio Presidente, che già aveva annunciato di non volersi più ricandidare. Un po’ come in Egitto, dove già si sapeva che il vecchio Hosni Mubarak intendeva lasciare le redini del potere, sebbene in quel caso fosse praticamente certo che il successore sarebbe stato il figlio Gamal.
Nel 2011 non fu quindi difficile, per chi promosse le “Primavere Arabe” tese proprio a rovesciare in Medio Oriente quei regimi ritenuti meno gradevoli o affidabili dall’Occidente e dai suoi alleati delle petromonarchie del Golfo, provocare la caduta di quel governo, di per sé già molto più fragile di quelli dei paesi vicini per varie ragioni legate alla minore disponibilità di risorse e all’ugualmente minor controllo dello Stato sull’economia. La crisi globale del 2008-2009 aveva fortemente limitato molte entrate del paese, basate sul turismo e sulle rimesse dei migranti, in parte tornati in patria dopo aver perso il lavoro, mentre la bilancia commerciale era in passivo dato che la Tunisia di per sé non produceva a sufficienza dovendo importare dall’estero gran parte di ciò di cui aveva bisogno; e, naturalmente, tali “commodities” erano soggette alla volubilità dei mercati, con effetti contro cui un paese con tali caratteristiche poteva fare ben poco per difendersi.