Doveva essere il G-20 “Anti-ISIS”, ma quello che ormai é in fase di archiviazione sulle sponde della vecchia Attalea é stato un summit internazionale notevole più che altro per essere stato ospitato dallo Stato che, insieme ad Arabia Saudita e sceiccati petroliferi del GCC, si é distinto in questi ultimi quattro anni sicuramente il più fervido, generoso, premuroso finanziatore e sostenitore dei gruppi armati takfiri presenti in Siria ed Irak, ivi compreso il macabro ‘califfato’ dell’ISIS.

Analizzando gli scambi e le dichiarazioni dei capi di Stato e di Governo presenti nella località anatolica, insieme a quelle delle giornate e delle ore immediatamente precedenti (ricordiamo che poco prima a Vienna si era tenuto il secondo ‘round’ dei colloqui diplomatici per l’avvio di una soluzione concertata della crisi siriana) e mettendo il tutto a raffronto con i recenti, tragici fatti di Parigi, risulta piuttosto evidente che gli ‘sponsor’ dell’ISIS e quanti più o meno esplicitamente guardavano con interesse a questo gruppo come realizzatore (almeno parziale) dei loro obiettivi nell’arena mediorientale sono stati presi gravemente alla sprovvista dagli attentati nella capitale francese e non hanno una linea di condotta chiara da portare avanti, limitandosi a dichiarazioni episodiche, magari roboanti, ma senza sostanza.

Partiamo dall’anfitrione, Recep Erdogan si sarebbe dovuto presentare come rafforzato dalla recente vittoria elettorale che ha restituito al suo AKP un Parlamento capace di esprimere un Governo monocolore (ma non sufficiente a cambiare la Costituzione con una manovra di forza), ma di fronte all’attacco ISIS-sino alla Ville Lumiere non ha potuto che balbettare come dopo l’attentato di Ankara che segnò l’avvicinamento alle urne; allora, quasi tradendosi, aveva parlato di “ISIS ingrato”, adesso l’eco delle sparatorie e delle bombe del Bataclan e della pizzeria ‘Casa Nostra’ era ancora così fragoroso nelle orecchie dei convenuti da impedirgli di lanciare l’appello a una massiccia incursione militare nel Nord della Siria (che egli progettava non contro Raqqa e la zona del ‘califfato’, ma bensì a Nord di Aleppo per bruciare sul tempo le chance dell’Esercito di Assad di recuperare quella zona).

Non più pimpante si é dimostrata la delegazione di Riyadh, sulla quale pesavano come macigni le improvvide parole del giovane (per la gerontocrazia saudita) Ministro degli Esteri Adel al-Jubeir, che poco prima della strage parigina aveva annunciato, a Vienna:”Se Assad rimarrà al potere noi continueremo a sostenere i gruppi armati per spodestarlo”. Qualcuno dovrebbe spiegare al fresco cinquantaduenne Al-Jubeir che si possono sostenere tutti i gruppi di tagliagole che si ritiene necessario, ma non lo si va a dichiarare ai consessi internazionali. L’essersi pubblicamente legati ai gruppi estremisti proprio poche ore prima che uno di essi commettesse il più grave atto di terrorismo su suolo europeo che si ricordi da decenni ha causato profondissimo imbarazzo ai dignitari sauditi, che peraltro devono anche pensare a grattacapi come il disastro militare nello Yemen, il tracollo dei prezzi del petrolio che getta un’ombra pesantissima sul prossimo bilancio statale e il picco negativo delle quotazioni della borsa nazionale, ai minimi storici da 35 mesi a questa parte.

Non presente ad Antalya era il regime di Tel Aviv, che, però, si é segnalato per un basso profilo susseguente agli attentati di Parigi, del tutto diverso dal contegno tenuto a ridosso della strage di ‘Charlie Hebdo’; se 11 mesi fa il Premier Netanyahu si era precipitato in Francia (nonostante le preghiere dell’Eliseo affinché si astenesse da gesti plateali) e aveva fatto di tutto per cercare di stabilire collegamenti e parallelismi tra gli eventi occorsi e la situazione di Israele ‘vittima del terrorismo’, stavolta, eccettuate le formali esternazioni di condoglianze, non vi é stato nessun attivismo in tal senso; molto probabilmente per via dei giudizi più volte espressi sui gruppi estremisti siriani, giudicati dai politici e dai generali israeliani come “non poi tanto cattivi” e perfino utili “se servono a deporre Assad” (e a distruggere la Siria come stato).

Del resto un gesto inconsulto e violento come quello degli attentati di tre giorni fa si spiega solamente come risposta a un serissimo stato di sofferenza dell’ISIS come organizzazione, che deriva dalle sconfitte patite negli ultimi mesi non solamente dal momento in cui sono iniziati gli attacchi aerei russi, ma dal momento in cui a Bagdad si é formato il comando coordinato Russo-Iraniano-Irakeno e da quando il Generale dell’IRGC Qassem Soleimani (dopo una sua visita a Mosca alla fine della primavera scorsa) ha ricevuto l’OK a spostare dall’Irak (e anche da altri paesi) verso la Siria numeri sempre più importanti di combattenti sciiti. Il graduale (e, col passare del tempo, sempre più rapido) cambiamento di un equilibrio che se non totalmente favorevole pur consentiva all’ISIS di mantenere fruttuose posizioni tra Siria e Mesopotamia ha generato nel ‘Daash’ uno stato di sofferenza che si é tradotto nell’esplosione di violenza che ha martirizzato la capitale francese (e ancor prima ha abbattutto l’Airbus russo nel Sinai).

Non é strano che, di fronte ad essa, tutte quelle potenze locali e regionali che mantenevano solerti rapporti di contiguità e vicinanza con l’ISIS siano rimaste scioccate, interdette e incerte sul da farsi nel prossimo futuro; rimane da vedere quanto gli attori dell’Asse anti-ISIS (Russia, Iran, Siria, Hezbollah, Governo irakeno) saranno pronti ad approfittare di questa fase per portare ulteriormente avanti la propria agenda comune.