Spiegare la Turchia nel calcio significa fare un racconto. Significa raccontare un calcio. Un racconto molto descrittivo perché si tratta di un calcio peculiare. Un campionato peculiare, all’origine autarchico che quasi ispirava sfiducia all’estero, in un mondo del tutto particolare. Poco tempo fa, la gara di qualificazione per l’Europeo 2016 in Francia giocata in Olanda costituì una sfida molto istruttiva per i giocatori turchi. Un momento rappresentativo della situazione sportiva turca dentro e fuori campo.
La realtà turca si divide su due piani per spiegare l’origine della situazione calcistica passata, odierna e forse futura.
Parlare del calcio turco può suscitare dubbio, incomprensione o polemica. Queste condizioni di dibattito sono dovute alla fama terribile e così particolare della nazione ottomana.
Parlare del calcio e della Turchia significa parlare di campi di riflessione generando dibattiti appassionati. Soprattutto quando i due argomenti si mischiano nelle discussioni europee ed europeiste.
Ad esempio, il calcio, più che altro in confronto agli sport, può provocare domande, riflessioni, risposte suggestive e talvolta obiettive da parte dai tifosi, allenatori, giocatori, cronisti e protagonisti vari. Ma anche protagonisti coinvolti indirettamente o non fanatici di calcio. In questa ultima categoria, il calcio va criticato per gli atti di tifosi che si comportano da teppisti. O a causa dell’eccesso di rumore nelle serate vittoriose.
La nazione turca genera scambi di pareri spesso rumorosi, sia per chi è turco, sia per chi non è turco. La storia dell’Impero Ottomano, se ne includiamo la fine, è ancora recente.
Sul piano sportivo, c’è stata per molto tempo una mentalità e una volontà autarchica. Aprirsi verso l’estero iniziò via via con il kemalismo. E a lungo i calciatori turchi furono all’immagine del pubblico più interessati dalle prestazioni durante i derby locali. Il che generò una mancanza di continuità e dunque di progressi regolari. Progredire si faceva a casaccio, con ogni tanto qualche partecipazione ad una competizione di primo piano (Giochi olimpici del 1948 e poi la Coppa del mondo 1954 in Svizzera, con una vittoria 7-1 contro i coreani) con qualche giocatore bravo ma isolato (Şükrü Gülesin, Metin Oktay). E qualche gara positiva ogni tanto nelle coppe europee dei club: il Fenerbahçe che eliminò i francesi del Bordeaux, il Trabzonspor che eliminò il Lione, il Beşiktaş che si fece notare ogni tanto in quarti di finale, il Galatasaray semifinalista nel 1989 per poi vincere la Coppa UEFA dieci anni dopo. Pure la nazionale diede qualche segno positivo a cavallo tra gli anni ottanta e novanta ma a singhiozzo. La doppia vittoria contro i tedeschi dell’Est illustrò quel potenziale (3-1 in Turchia, 2-0 in Germania). In quei tempi ormai storici gli eroi si chiamavano: Tanju Çolak, Engin İpekoğlu, Şenol Güneş, Rıdvan Dilmen, Erhan Önal, Gökhan Zan, Cüneyt Tanman, Yusuf Şimşek, Khayyam, Iskender, Feyyaz Uçar, Oğuz Çetin, Uğur Tütüneker.
Quel periodo rappresentò un momento di apprendistato. Più tardi le conseguenze positive arrivarono. Una qualificazione all’euro 96. Poi delle puntate memorabili al Mondiale Asiatico del 2002 (terzo posto) e all’euro 2008 (terzo posto). Tuttavia sempre con ritmi irregolari.
Il calcio turco è basato su una buona tecnica individuale, con gesti certe volte superflui ma spettacolari. Per finire sorprendenti. Poi, la resistenza fisica del calciatore turco di base non è solo una leggenda, si tratta di una realtà vera e propria. Tatticamente, i turchi hanno imparato con allenatori o giocatori stranieri (possiamo citare i precursori Jupp Derwall, allenatore tedesco ,e l’ala sinistra francese Didier Six, diventato “Dündar Siz” per l’occasione, nel 1988 al Galatasaray, assieme al portiere jugoslavo Prekazi).
Il punto di debolezza sarebbe l’aspetto mentale traballante. Due motivi lo spiegano: la mancanza di precisione strategica. Ci vuole una presa di coscienza dell’importanza della cultura tattica. Particolarmente riguardo la marcatura e il gioco senza pallone. Inoltre, la nostalgia fa spesso guardare la storia con lo specchietto e la retromarica quando saliamo nella macchina del calcio alla turca.
Definire i turchi attraverso il calcio costituisce proprio un’avventura. E come fare un viaggio. Una spedizione alla Marco Polo. Una spedizione con tappe e pause necessarie per riflettere. Ed eventualmente trovare soluzioni.
La Turchia è così vicina e così lontana: come la Turchia del calcio. Così vicina certe volte e così fuori tema certe altre volte. Un paese assai sensibile alla situazione geopolitica ed economica: un calcio sentimentale. Un aspetto generoso in pari tempo guerriero che conduce alla sorpresa. Anche alla precipitazione, nel senso positivo o negativo. Ci sono partite simboliche: Turchia-Cecoslovacchia dell’Euro 2008 .Cioè una vicenda fatta di combattività senza concentrazione assoluta. È quasi una sconfitta. E per finire la svolta eroica. Un trionfo grazie…al portiere e alla sua perseveranza fino ai supplementari.
Poi la ”saga” con i pirotecnici brasiliani. Dapprima l’anno 2002 al Mondiale. Due partite da ricordare come bellissimo spettacolo tecnico. La prima di queste due partite si svolse durante il primo turno con i turchi che a volte domarono il gioco. Una mancanza di esperienza e troppa umiltà. Ma un compito positivo nonostante una sconfitta. Qualche giorni dopo la semifinale Brasile-Turchia di quella coppa asiatica del 2002 si ritrovano le due squadre più avvincenti del torneo(anche se Corea del Sud, Giappone e Germania erano molto dinamiche anch’esse) e più creative tecnicamente. Di nuovo la Turchia perde “alla grande”. Per finire con questa saga, l’amichevole Turchia-Brasile del novembre 2014, finita sul 0-4. Una sconfitta più che meritata. Nessuna coesione, mancanza di precisione tattica, magari anche di preparazione.
Paragonare la Turchia del calcio, ad altri paesi, è difficile e con rischio di smarrimento a causa dell’aspetto di irregolarità che sembra perenne.
Paragonare la Turchia con la Grecia? con Cipro? con la Bulgaria? con l’Iraq? con l’Iran? Cioè con paesi vicini? Impossibile definire con certezza.
Forse con la Grecia ha avuto in comune la capacità di sorprendere, con un poco lo stesso ritmo di progressione. Ma uno stile di gioco diverso. I greci giocano più di testa quegli ultimi anni schierando giocatori alti e fisici in attacco (Charisteas, Samaras). Cipro non ha affatto lo stesso percorso e non ci sono tante somiglianze sul piano sportivo. L’Iraq e l’Iran hanno delle squadre diverse, e danno meno importanza alla dimensione del ruolo di portiere. La Bulgaria dell’epoca grande (Mondiale1994) aveva forti personalità tipo Stoichkov (ex pallone d’oro), Balakov, Ivanov, Lečkov, Mikhailov, Kostadinov, Dimitrov, Kolev, che corrispondevano, per quanto riguarda la tecnica, la determinazione e l’impegno fisico-mentale, rispettivamente a Rıdvan Dilmen, Hasan Şaş, Uğur Tütüneker, Suat Okyar, Rüştü Reçber, Tanju Çolak, Gökhan Zan o Erhan Önal. Però si tratta di una questione di sfumatura. I bulgari furono quarti ai mondiali americani del 1994,i turchi terzi nel 2002.Il che disturbò tanti opinionisti europei. Fra l’altro i giornalisti sportivi francesi che ebbero un atteggiamento perlomeno equivoco durante i mondiali asiatici nippo-coreani di inizio secolo. Ricordiamo che il Senegal aveva sconfitto i francesi campioni del mondo quattro anni prima ,per uno a zero, provocando in gran parte l’eliminazione dei galletti. Un po’ più tardi, nei quarti di finale, il Senegal sfidò la Turchia. Molti francesi tifarono per gli africani forse per obiettività riguardo alla qualità della rosa venuta dall’Africa Nera (El Hadji Diouf, Oumar Daf, Khalilou Fadiga).Quello sarebbe stato un punto positivo perché di rado obiettività, passione sportiva e critica si ritrovano per realizzare l’equilibrio della cronaca calcistica. Ma più che riconoscere la qualità della formazione africana, stranamente i giornalisti sportivi transalpini lodarono tanto i senegalesi da incoraggiarli addirittura a battere i turchi. Manifestando pure una certa delusione dopo il risultato finale(uno a zero per i turchi, gol di İlhan Mansız). La valuta euro esisteva da poco, l’adesione ipotetica della Turchia alla Comunità europea provocava quasi lo scandalo, il Trattato di Sèvres del 1921. Quando calcio e politica permettono di provocare vendetta invece di fratellanza…
Poi, paragonare la Turchia con il Marocco? In un certo senso ci può stare. Il Marocco fu la prima nazione africana e araba ad accedere ad un secondo turno mondiale. Ma non basta. Con l’Egitto? mica tanto. Con l’Arabia Saudita? Nemmeno. Con la Colombia? ambe le squadre hanno il proprio stile, una cultura locale di combattimento che si traduce nel campo con forza tecnica, movimento (il “toque” dei colombiani, i gesti tecnici alternativi dei turchi), vivacità e resistenza fisica.
Però i punti in comune sarebbero da ricercare da altre squadre per quanto riguarda il percorso e la fama mediatica: l’Algeria, una squadra mediterranea, arabo-maomettana, tecnica e con dei giocatori nati nel paese oppure nati e formati in Europa per l’emigrazione. E un’autocritica che condusse a un senso più grande dell’organizzazione tattica e di quella delle strutture (anche nelle serie inferiori, possiamo pensare al lavoro dell’allenatore Saadane di Tebessa, che ha studiato in Francia e che ha fatto risalire la squadra locale Tebessa nella serie B algerina). E una facoltà di sorprendere i pronostici. Khayr Al Din, pirata algero-ottomano deve osservare con piacere dall’insù.
Israele: sempre nel Mediterraneo, e una specificità storica e geografica visto che i club partecipano alle coppe europee. E una squadra nazionale alla quale nessuno bada (malgrado una qualificazione a “Mexico 70”). Dunque per molti anni uno scarso interesse mediatico.
Il Portogallo: cioè per un calcio tecnico, talvolta con poca concentrazione. E un progresso attraverso le epoche grazie ai club coinvolti sul piano europeo.
Forse potremmo stabilire un paragone con la Romania degli anni ottanta alla metà degli anni novanta. I rumeni avevano giocatori molto tecnici. Si trattavano di “slavi-latini” nello stesso tempo con qualità individuali (Lung, Hagi, Camataru nominato Scarpa d’Oro in Europa, Poescu, Lăcătuș) e senso del collettivo (un Florin Raducioiu, più o meno allo stesso livello sul campo, non aveva la stessa mentalità di Cristiano Ronaldo). Il parallelismo può sembrare ovvio con un lieve sfasamento. Negli anni settanta, i rumeni realizzarono progressi alternando tramonti diversi per la nazionale (presenza al Mondiale 1970 e poi quasi nulla). I progressi furono percepibili prima nel loro campionato (c’era gente come Iordănescu, Georgescu, Lucescu). Questo fu redditizio dal decennio seguente (Coppa dei Campioni vinto dalla Steaua Bucarest nel 1986, presenza della nazionale all’Euro 84 e due presenze successive ai mondiali, quello italiano del 1990 e quello del 1994 con lo splendido gol-pallonetto di Gheorghe Hagi soprannominato “il Maradona Rumeno”, realizzando un traversone sul bravissimo portiere colombiano di quei tempi René Higuita noto specialista del famoso “colpo dello scorpione”). Quindi un paese politicamente particolare (in quell’epoca Iliescu succedeva a Ceaușescu in circostanze drammatiche) che l’Europa stava scoprendo. Un po’ come con la Turchia dai propri metodi sportivi.
Infine, un ultimo paragone risuona come un’ipotesi poco probabile. Ma proviamoci. Si tratta del paragone con l’Italia. L’Italia la cui sagoma si prolungo dal Nord al Sud del nostro carissimo Mare Mediterraneo. Alcuni giocatori hanno militato nel nostro campionato: Gülesin, Oktay (anni cinquanta e sessanta) Hakan Şükür, Emre Belözoğlu (generazione 2002). De Sanctis ha giocato in campionato turco, Prandelli e Mancini ci hanno allenato e c’è pure la presenza di una bottega di abbigliamento uomo nominata “Fabio Capello” nel centro storico di Istanbul. Il calcio italiano è tecnico, come nella stragrande maggioranza dei paesi mediterranei. Tecnico ma di cultura più difensiva. Riflettendo possiamo trovare una caratteristica comune: quella di non rallegrare all’unanimità quando si ottengono dei successi. Ma più ancora quella di litigare con la stampa. L’Italia di Bearzot ci trovò un’origine di motivazione. Anche i calciatori turchi sono abituati a quell’esercizio di stile. Lo Sport è divertimento e il calcio è una guerra pacifica. Intanto ci sono le diaspore di tifosi italiani o turchi che sosterranno i propri rappresentanti dinanzi ai media internazionali.
In futuro la Turchia potrebbe di nuovo ottenere grandi obiettivi. Però in modo con pacato, senza impazienza. Sennò ci sarà ancora una cronologia a singhiozzo a caratterizzare l’evoluzione del calcio turco.
La Federazione Turca ha i mezzi di realizzare dei progetti materialmente perché dispone di numerosi stadi e infrastrutture. Basta praticare più regolarmente una politica di formazione e di preparazione serena. Senza impulsività. Imparando tramite le vicende positive (la partita svolta di recente in Olanda, finita sull’1-1, per esempio, con bravi protagonisti come Altintop, Erdinç, Burak Yilmaz, Umut Bulut, Arda Turan, Çalhanoğlu). Ma anche tramite gli episodi più sgradevoli (la sconfitta di novembre a domicilio con il Brasile di Neymar e Willian).
Se la Turchia decide di continuare a osservare e analizzare le cose metodicamente e con autocritica costruttiva, potrebbe farsi notare di nuovo. Prendendo il tempo gustando un “çay” per arrivare a Russia 2018 e imparare. Per poi partecipare molto positivamente, grazie all’esperienza, a Qatar 2022 che potrebbe rappresentare un appuntamento con la Storia. Difatti un mondiale che si svolgerà sul continente asiatico, in Medio-oriente, in una zona che faceva parte dell’Impero Ottomano. E perché non ritrovare l’Algeria, ex territorio dipendente in passato dai sultani ottomani, in una finale inedita arbitrata da un italiano? MAMMA LI TURCHI!
ma che buona sorpresa!
Sono contento per la turchia perche sono tifoso de la turchia ma sono anche contento per un’altra cosa:lozato l’autore era il mio professore d’italiano in B.t.s in 2003 in francia.Solo voi in europa giornalisti italiani guardate bene la qualità del calcio turco.grazie e buona fortuna per la turchia e per l’italia anche.