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Tra pochi giorni ricorrerà l’anniversario della morte dell’ultimo premio Nobel italiano, Dario Fo.
Il “giullare” lombardo infatti si è spento all’età di 90 anni il 13 ottobre di un anno fa a causa di una crisi respiratoria. Da quel momento il nostro paese ha perso una figura di spicco nel panorama teatrale moderno (e soprattutto passato), laddove Fo, con il suo “Mistero Buffo” aveva trovato il successo totale a cavallo tra gli anni ’60 e ’70.
Il drammaturgo nostrano era stato una “ventata d’aria fresca” in un’epoca complessa, ricostituendo la cosiddetta “giullarata popolare” attraverso alcuni episodi a sfondo biblico raccontati con un inusuale linguaggio, definito Grammelot, ossia una mescolanza di suoni, cadenze e ritmi di più idiomi simili tra loro, la sua scelta ricadde essenzialmente in quelle locali venete. I suoi intenti parodici vennero poi replicati a oltranza per decenni, e si può affermare che il “teatro di narrazione” sia ri-nato in concomitanza di “Mistero Buffo”. Questi era divenuto poi uno strumento affilato di satira politica, attacchi che lo stesso Fo non ha mai smentito ma che in un secondo momento gli diedero ancora più spazio sia a livello politico che in quello sociale.
Da lì in avanti grandi nomi del settore artistico seguirono le orme di Fo, come ad esempio Paolini, Baliani o la stessa Giagnoni. Sulla scia di quest’ultimi la successiva generazione ne venne a sua volta influenzata, ed ecco svilupparsi anche in terre straniere gli attori solisti e gli affabulatori. Sempre in tempi recenti si è affermato il “teatro civile”, le cui opere sono mirate a contenuti attuali prettamente politici. Come si evince da questo istantaneo excursus è indubbio come l’autore lombardo abbia dato ampio risalto al teatro italiano e la possibilità di evolversi in sfaccettature simili (soprattutto a quella del teatro impegnato). Le varie onorificenze come il medesimo Nobel ne sono una prova tangibile e meritatamente gli vengono riconosciuti.
Ripercorrere passo dopo passo la sua vita artistica sarebbe superfluo, conosciamo a grandi linee ciò che Fo ha portato qualitativamente parlando sui nostri palcoscenici, conosciamo invece un po’ meno i risvolti politici e meramente umani dell’uomo dietro all’artista. Senza accuse e senza provocazioni, voglio riportare testimonianze e fatti che si celano all’interno di questa figura, spesso portata sul piedistallo dalla massa, e talvolta scaraventata nel burrone da altri.
Prima del grande successo artistico, Dario Fo aveva una macchia da levarsi di torno, ovvero quella da Repubblichino. Infatti nel 1943, a soli 17 anni, il futuro premio Nobel si arruolò di sua spontanea volontà (fatto che negò a più riprese negli anni successivi) nella Repubblica di Salò. All’epoca Fo apparteneva al Battaglione Azzurro di Tradate, il quale si fece autore di alcuni “rastrellamenti” nei confronti di partigiani. Una sentenza del 1979 lo definì “collaboratore” perché «è da ritenersi accertato che delle formazioni fasciste impegnate nell’operazione in Val Cannobina facessero sicuramente parte anche i paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate (…) Non è altrettanto certo, o meglio è discutibile, che vi sia stato impiegato Dario Fo. Ma (…) la milizia repubblichina di Fo in un battaglione che di sicuro ha effettuato qualche rastrellamento, lo rende in certo qual modo moralmente corresponsabile di tutte le attività e di ogni scelta operata da quella scuola nella quale egli, per libera elezione, aveva deciso di entrare. È legittima dunque per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore» (Processo Dario Fo contro il quotidiano Il Nord, sentenza del Tribunale di Varese del 15 febbraio 1979).
Poco dopo, Fo si tutelò da tali parole, definendosi dapprima un “infiltrato” per i partigiani, quindi doppiogiochista a favore della patria, e poi come una vittima, perché costretto ad arruolarsi nella R.S.I. per non essere deportato, viste le sue origini ebraiche. In un intervista al Corriere della sera del ’78, riferì come era spaventato all’idea di finire al fronte con i tedeschi oppure deportato, e di come essere “repubblichino” era diventata una necessità per sopravvivere piuttosto che un’idea politica convinta. L’arruolarsi nelle file dei paracadutisti di Tradate lo salvò, quando poi si diede alla fuga dopo l’addestramento, pensava di unirsi ai partigiani della zona in modo definitivo, ma oramai non vi era rimasto più nessuno.
Le diverse teorie che aleggiano sull’uomo Fo per quanto riguarda quegli anni sono state varie, lo stesso interessato cambiò versione dei fatti più di una volta, come un tentativo poco velato di “edulcorare” tali eventi spiacevoli per una nuova verginità politica che lo avrebbe poi proiettato ad essere un comunista convinto nonostante il suo passato “nero”. Un importante resoconto che scaturì subito dopo la fine della guerra venne dal sergente maggiore istruttore dei paracadutisti fascisti, Carlo Maria Milani. Per il processo che lo vide come testimone, asserì che Dario Fo partecipò effettivamente a diverse retate contro i partigiani comunisti e non nella Val d’Ossola. L’allievo paracadutista Fo, diceva, “era un fedelissimo fascista”, sotto deposizione al giudice. E ancora: «venne più volte con me durante i rastrellamenti della Val Cannobina e partecipò alle fasi della riconquista dell’Ossola occupata dai partigiani. Il suo compito era quello di portare esplosivi e munizioni». Fo negò tutto fino all’ultima virgola, ma la giustizia dell’epoca lo ritenne per l’appunto colpevole, anche se inspiegabilmente tutto l’incartamento della pena improvvisamente scomparve, era il 1946.
Il passato oscuro di Fo, non si è mai chiuso. Nelle decadi seguenti questa sua macchia divenne pressoché indelebile, anche se ormai sbiadita nel tempo.
A supportare invece la tesi di Fo e screditare i soliti “detrattori in malafede” c’è tutta quella porzione di pubblico che ha sempre amato l’attore/autore, definendolo un onesto e puro intellettuale, vittima del fascismo e impossibilitato a fare altrimenti. “Essere fascisti” in quegli anni era la normalità, l’adesione alla Repubblica di Salò per un giovane di 18 anni nato in provincia di Varese, era un fatto quasi naturale; specie sotto minaccia di fucilazione. La storia racconta di molti giovani antifascisti che vi aderirono volontariamente per scappare subito dopo in Svizzera, ma questo non fu il caso di Fo. Per quanto concerne il cambio di camicia, da quella fascista a quella comunista, era un fenomeno opportunistico diffuso all’epoca, tanto che un noto regista Bernardo Bertolucci ne fece anche un coraggioso film, “Il Conformista”, datato 1970.
Inutile dire che Fo non fu il solo uomo di spettacolo a fare “voltagabbana” in merito ai propri trascorsi, tra i tanti potremmo pescare nel mazzo e citare ad esempio Ugo Tognazzi, Luciano Salce o Enrico Maria Salerno e lo stesso Mario Volontè (padre di Gian Maria) e molti altri ci sarebbero da aggiungere.
Fo per la giustizia rimane a tutt’oggi colpevole, per il popolo (comunque diviso) solamente in parte. Famosa e accesa fu la diatriba con la scrittrice sempre controcorrente Oriana Fallaci, che definì lui e la moglie Franca Rame come “fascisti rossi”, sempre colpendo sul vivo il passato di Fo. In tutta risposta i coniugi le diedero della terrorista. Un certo clamore ebbe la famosa intervista della Fallaci nei loro confronti quando le venne chiesto cosa pensasse dell’autore, dell’attore e soprattutto dell’uomo Dario Fo: «A parte il disprezzo, intende dire? Una specie di pena. Perché v’era un che di penoso in quei due vecchi che per piacere ai giovani radunati in piazza si sgolavano e si sbracciavano sul palcoscenico montato dinanzi a Santa Croce, quindi dinanzi al porticato che un tempo immetteva al Sacrario dei Caduti Fascisti. In loro non vedevo dignità, ecco. A un certo punto l’amico che con me li guardava alla tv ha sussurrato: ‘Ma lo sai che lui militava nella Repubblica di Salò?’. Non lo sapevo, no. Come essere umano non mi ha mai interessato. Come giullare, non m’è mai piaciuto. Come autore l’ho sempre bocciato, e la sua biografia non mi ha mai incuriosito. Così sono rimasta sorpresa, io che parlo sempre di fascisti rossi e di fascisti neri. Io che non mi sorprendo mai di nulla e non batto ciglio se vengo a sapere che prima d’essere un fascista rosso uno è stato un fascista nero, prima d’essere un fascista nero uno è stato un fascista rosso. E mentre lo fissavo sorpresa ho rivisto mio padre che nel 1944 venne torturato proprio da quelli della Repubblica di Salò. M’è calata una nebbia sugli occhi e mi sono chiesta come avrebbe reagito mio padre a vedere sua figlia oltraggiata e calunniata in pubblico da uno che era appartenuto alla Repubblica di Salò. Da un camerata di quelli che lo avevano fracassato di botte, bruciacchiato con le scariche elettriche e le sigarette, reso quasi completamente sdentato. Irriconoscibile. Talmente irriconoscibile che, quando ci fu permesso di vederlo e andammo a visitarlo nel carcere di via Ghibellina, credetti che si trattasse d’uno sconosciuto. Confusa rimasi lì a pensare – chi è quest’uomo, chi è quest’uomo – e lui mormorò tutto avvilito: ‘Oriana, non mi saluti nemmeno?’. L’ho rivisto in quelle condizioni, sì e mi son detta: ‘Povero babbo. Meno male che non li ascolti, non soffri. Meno male che sei morto’».
Parole forti e allo stesso tempo tristi, che portarono da lì in avanti, sino alla morte della giornalista, ad un attacco continuativo da ambo le parti.
Negli anni di piombo vi è poi un altro tassello che non si incastra nel puzzle Fo, e che coinvolge la stessa compagna Rame. I due drammaturghi erano infatti l’anima della struttura organizzativa italiana chiamata “Soccorso Rosso”, che inizialmente doveva aiutare gli operai nelle lotte di fabbrica e ai militanti colpiti dalla repressione fornire assistenza legale ed economica. Infine tutto questo sarebbe servito per informare e migliorare le condizioni carcerarie di quei militanti che facevano parte della sinistra extraparlamentare.
Quello che accadde dopo però, non fu esattamente conforme a tale progetto. La spaccatura avvenne dopo la Strage di Piazza Fontana, quando il sospettato Pietro Valpreda venne protetto proprio dall’organizzazione suddetta, grazie ad una campagna massiccia a suo favore, fatta a sostegno anche di altri militanti anarchici detenuti. Molti detenuti godettero di vari favoreggiamenti, i comitati locali sensibilizzarono molto le condizioni carcerarie attraverso mostre fotografiche sulle lotte dei detenuti, volantini, manifestazioni politiche e assemblee di vario tipo. Arrivò poi la tutela per il caso Marini, condannato poi per omicidio preterintenzionale. Sulla vicenda Fo scrisse la commedia “Marino libero! Marino è innocente!”.
E infine le azioni del “Soccorso Rosso” votate ad aiutare i carcerati in fuga all’estero, un caso noto e che ebbe molta risonanza fu quello del rogo di Primavalle. Gli autori vennero assolti in primo grado grazie all’aiuto dei coniugi Fo, ma in secondo grado Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo, furono condannati a 18 anni di carcere per incendio doloso, duplice omicidio colposo, uso di esplosivo e materiale incendiario. Purtroppo, a causa della loro fuga facilitata dall’organizzazione suddetta, riuscirono a farla franca. Achille Lollo si rifugiò in Sud-America con il quale riteneva l’Italia non avesse trattati di estradizione, in realtà c’erano ma il reato era prescritto a causa del lungo tempo ormai trascorso al momento della domanda formulata. Manlio Grillo invece si stabilizzo in Nicaragua grazie alla complicità di cui aveva goduto anche il compagno Lollo, mentre Marino Clavo risulta a tutt’oggi scomparso.
Fatti gravosi che hanno indubbiamente macchiato la carriera artistica di un grande attore, drammaturgo, regista e scrittore. Che negli ultimi anni di vita ha voluto appoggiare attivamente i pentastellati, cambiando se vogliamo ancora una volta casacca in favore di una “rivoluzione giusta e necessaria”, che portasse maggiore libertà d’espressione, meno corruzione in parlamento e risolvesse i problemi che affliggono il bel paese. Ma Dario Fo è sempre stato un anticonformista, si è sempre schierato con ciò che all’apparenza sembrava giusto e coerente. In realtà, come appurato fin qui, lo è stato solamente in parte.
Nulla di tutto ciò che è stato riportato in questo contributo ha comunque scalfito davvero la sua integrità artistica, niente ha impedito che innumerevoli lavori di valore rimanessero nell’immaginario collettivo, il suo peso storico come autore e figura teatrale ha superato diverse generazioni, regalandoci emozioni, riflessioni su temi importanti e visioni della vita e di ciò che ci circonda, con una gestualità e una mimica innovativa quanto irripetibile.
Fo ha sempre attaccato i poteri forti ed è sempre stato dalla parte degli oppressi come dice la motivazione del Nobel 1997? In parte sì, in parte no. L’illustrazione delle maschere greche, per la commedia e la tragedia, rendono metaforicamente l’idea dell’eredità che Fo ci ha lasciato in termini artistici e umani.
Federico Camarin
Marco Cingolani
Non mi pare che Enrico Maria Salerno abbia mai fatto il “voltagabbana”: non ha mai negato i trascorsi nella Repubblica di Salò (a soli 17 anni, per altro). Luciano Salce non credo sia mai stato fascista, è stato anche prigioniero dei tedeschi in Germania
Mi sembra si dia eccessivo risalto alla sua presunta militanza a 17anni nelle file della repubblica sociale e anche se fosse vero, non gli butterei la croce addosso per il resto della vita, come hanno fatto i fascisti mentre a Napolitano, fascistissimo sedicenne che esaltava l’operazione Barbarossa nel 1941 fu risparmiato il calvario di Fo. Del quale invece mi preme sottolineare le sue terribili sbandate senili, quelle sì ingiustificabili, quando prese apertamente posizione a favore dei “ribelli” libici e siriani , plaudendo all’operato di Sarkozy e distruggendo così di colpo tutto il suo passato di militante. Comunque non mi sembra sia mai stato comunista, era in realtà un libertario compulsivo approdato alla fine come tanti altri alla sponda dell’imperialismo