L’Italia non può e non deve perdere la straordinaria opportunità della nuova Via della Seta. La firma dell’accordo con la Cina, darebbe al nostro Paese la possibilità di muoversi da attore autorevole sullo scacchiere multipolare, consegnando agli archivi l’appiattimento sulle posizioni dell’unipolarismo statunitense che ne hanno caratterizzato la politica estera dal dopoguerra in poi, al netto dei circoscritti e limitati sussulti di Mattei, Moro e Craxi.

Il memorandum con la potenza asiatica non prevede obblighi, ma principi condivisi per l’organizzazione di forme specifiche di cooperazione economica. L’esatto contrario di quel pericolo di “colonizzazione” che gli atlantisti di sangue, di ideologia o confessione paventano.

E’ sfacciato, inaccettabile ed immorale che a vestire i panni degli amici premurosi siano i cantori delle gesta di Washington, Bruxelles, Parigi e Londra, fonti di sventure e disastri economici e geopolitici per l’Italia. Se gli “alleati” sono quelli delle 113 basi militari sul nostro suolo, del Britannia, del pareggio di bilancio nella Costituzione e della sciagura libica, meglio starne alla larga.

Nell’esecutivo gialloverde non mancano gli sbarratori delle porte del treno della Via della Seta, anche se fortunatamente i sottosegretari allo Sviluppo Economico Geraci e ai Trasporti Rixi (entrambi leghisti) e diversi esponenti di peso del M5S (il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano in primis), riescono a far sentire la propria voce con argomentazioni serie, suffragate da dati.

Il negoziato è in dirittura d’arrivo e potrebbe essere firmato durante la visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping a Roma (prevista per il 22 e 23 marzo) o a fine aprile, tra il 25 e il 27, quando a Pechino si svolgerà il secondo Forum sulla “Belt and Road Initiative”.

Il nostro sarebbe il primo Paese del G7 a beneficiare dei vantaggi strategici ed economici di quella cintura economica lungo l’antica Via della Seta che aprirà un mercato di tre miliardi di consumatori. “Yi Dai Yi Lu”, in mandarino.

“Una Cintura Una Strada” nella nostra lingua. Una “cintura” di strade, ferrovie per il trasporto delle merci, gasdotti e oleodotti, linee di telecomunicazioni che partendo dalla Cina attraverseranno l’Asia centrale, la Russia, il Medio Oriente per arrivare in Europa. Una “strada” marittima che comincia dai grandi porti di Shanghai e Canton, fa rotta lungo il Mar Cinese meridionale e l’Oceano Indiano, fa tappa in Kenya, risale il Mar Rosso, arriva nel Mediterraneo con uno scalo al Pireo e termina a Venezia.

Sessantasette Paesi hanno già sottoscritto la Belt and Road Initiative. Sono già 13 i Paesi dell’Ue che hanno siglato un memorandum di intesa con la Cina. Si tratta di Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. La Cina è il principale partner commerciale di 126 nazioni; gli Stati Uniti di 56.

A chi pende ancora dalle labbra di tromboni da salotti buoni come il politologo Luttwak, secondo il quale “la scelta di stare con la Cina dimostrerebbe che l’Italia si rivela essere ancora una volta provinciale e fuori dai giochi”, è appena il caso di snocciolare qualche numeretto sonante: i progetti cinesi prevedono investimenti per 900 miliardi di dollari nei prossimi 5-10 anni; 502 miliardi in 62 Paesi entro il 2021, secondo i calcoli degli analisti di Credit Suisse.

Il premier Conte, che pare aver colto l’importanza della nuova Via della Seta, faccia il Marco Polo e dia all’Italia la possibilità di esplorare un mondo sconosciuto che si chiama sovranità piena, con la libera scelta delle migliori opzioni strategiche sul piano economico e politico. Nell’esclusivo interesse del popolo italiano.