Col vittorioso risultato di ieri, andato ben oltre le già rosee previsioni, Viktor Orban ha ottenuto la terza riconferma a premie dell’Ungheria, stracciando tutti i concorrenti che, dall’alta affluenza degli elettori alle urne, speravano d’ottenere almeno dei risultati più decorosi.

Il suo partito, Fidesz, ha infatti ottenuto da solo il 49,5%, guadagnandosi così 133 dei 199 seggi al parlamento, praticamente quei due terzi abbondanti necessari a procedere in piena autonomia con le nuove e promesse riforme costituzionali. Festeggiando i risultati, Orban ha ribadito la linea fortemente patriottica che già aveva esibito in campagna elettorale: “Abbiamo vinto, ci siamo dati l’opportunità di un cambiamento per difendere la nostra madrepatria”.

La seconda posizione è toccata al partito d’estrema destra Jobbik, che aveva lievemente moderato i propri toni politici durante le elezioni presentandosi all’elettorato soprattutto come forza anti-corruzione. Il risultato, pari al 20%, ha dato al partito 26 seggi, ma il leader Gabor Vona ha già annunciato di volersi dimettere. Tutte le opposizioni, comunque, sono uscite da questa maratona con le ossa rotte: l’alleanza formata da socialisti e verdi, per esempio, s’è fermata al 12%, un risultato ben lontano da quello che negli Anni ’90 e 2000 le permetteva di governare saldamente il paese.

Al di là di tutto, comunque, colpisce il camaleontismo di Orban, che negli anni ha saputo reinventarsi fino a stravolgere quasi completamente la propria immagine iniziale, conquistando oltretutto un successo crescente. Alla fine degli Anni ’80 era solo uno studente anticomunista laureatosi con una tesi sul sindacato polacco Solidarnosc. Subito dopo aveva fondato il suo partito, Fidesz, con posizioni estremamente moderate, liberali e atlantiste. Quando, nel 1998, venne eletto per la prima volta premier, era il politico liberale fautore del netto avvicinamento dell’Ungheria alla Comunità Europea e alla NATO, disposto anche a far partecipare il proprio paese alla coalizione a guida USA in Iraq.

Da allora, però, di acqua sotto i ponti del Danubio ne è passata parecchia. Nel 2010 Viktor Orban è stato rieletto premier in una veste totalmente rinnovata rispetto al passato: euroscettico, più vicino alla Russia che a Bruxelles, fortemente patriottico se non addirittura nazionalista. E anche in economia è passato dal forte sostegno alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni di fine Anni ’90 ad una pratica sostanzialmente diversa, che gli ha però permesso di risollevare l’Ungheria che nel 2010 sembrava economicamente spacciata. Oggi il paese, economicamente parlando, “tira” e gli elettori non sono rimasti indifferenti a questo miglioramento, come del resto hanno apprezzato anche il rispolverato “orgoglio magiaro” che Orban ha più volte manifestato contro le autorità europee, in particolare in merito alla questione migratoria.

E’ comunque vero che quella ungherese di riuscire un po’ a distinguersi dal resto del coro europeo sia una tradizione di lunga data: il discusso predecessore di Orban in epoca socialista, Janos Kadar, aveva infatti reso l’Ungheria un paese un po’ anomalo fra tutti quelli al di là della Cortina di Ferro. Molto moderato da un punto di vista politico, era stato assai “controcorrente” in termini economici rispetto ai suoi omologhi del campo socialista, aprendo a partire dal 1968 all’economia privata in molti settori. E prima ancora, fra gli Anni ’20 e ’40, col sistema della reggenza guidata dall’Ammiraglio Horty l’Ungheria sapeva distinguersi nel panorama “post-asburgico” europeo. Si può insomma dire che quella che oggi viene definita come “anomalia ungherese” sia in realtà una tendenza storica che Budapest nel tempo è sempre stata in grado di fornire in modalità di volta in volta molto diverse fra di loro.