La frammentazione dell’Europa unita e la solidarietà internazionale
Nello stato di emergenza, o di eccezione, emerge la natura del sovrano, o – per dirla con Carl Schmitt – chi è davvero sovrano. Non è stato il presunto sovranismo ad aver inferto un pesante colpo all’Unione Europea e ai suoi pilastri fondamentali, quali la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone (accordi di Schengen). A mettere in crisi l’UE, nonché tutto il sistema globalizzato, è stato lo spettro del COVID-19, il quale ha provocato una grave emergenza sanitaria che ha portato i singoli stati membri, finanche i più europeisti, a riportare in auge le frontiere ed attuare capillari politiche restrittive come non vedevamo dal secolo scorso sul territorio del Vecchio Continente.
Ad esclusione dell’Italia che si è trovata a fronteggiare la virulenza del contagio del virus covid-19 sin da fine febbraio, negli altri paesi europei l’emergenza è scoppiata – o per meglio dire, è stata presa seriamente in considerazione – in ritardo e questo ha portato ad una tardiva risposta e presa di coscienza a livello comunitario. Una volta ammessa la gravità della situazione, gran parte dei paesi dell’Eurozona, tra cui Germania, Francia e Spagna, hanno prontamente invocato la sospensione di Schengen, chiudendo unilateralmente le frontiere nazionali. Decisione presa nelle principali cancellerie europee, mentre Bruxelles si opponeva timidamente ad essa, almeno in prima battuta, per poi però adeguarsi alla realtà dei fatti, proclamando la chiusura dell’area Schengen per 30 giorni.
In questi giorni drammatici di lotta tra la vita e la morte per migliaia di persone, diversi stati della Comunità Europea si sono arrogati il diritto di sequestrare e bloccare l’afflusso di dispositivi medici, di vitale importanza nella lotta al COVID-19. Ne sono clamoroso esempio gli spiacevoli episodi perpetrati da paesi UE, come Francia, Germania e Repubblica Ceca, che hanno bloccato e sequestrato materiale medico acquistato per conto dell’Italia. A tal riguardo, è stato il capo della Protezione Civile a denunciare il sequestro di 19 milioni di mascherine. In barba non solo ad ogni principio di solidarietà, ma anche a quello di libera circolazione delle merci, caposaldo dell’europeismo e del neoliberismo impunemente calpestato all’occorrenza. Solo a seguito di questo scandalo, la Commissione si è vista costretta a rimuovere le barriere alla circolazione di materiale sanitario all’interno dell’UE e, al contempo, a bloccarne l’esportazione fuori da i suoi confini. Misura necessaria – che in un’Europa davvero unita e solidale non avrebbe nemmeno avuto ragion d’essere – sebbene incompleta, poiché Bruxelles avrebbe potuto fin da subito vigilare ed istituire corridoi umanitari che tenessero conto del fabbisogno sanitario di ogni paese in base allo stato di virulenza del contagio e alla capacità degli stessi di fronteggiarne la diffusione.
Per quanto ora la Commissione Europea stia cercando di impegnarsi nel sostegno agli stati membri, l’iniziale titubanza e mancanza di risolutezza di Bruxelles hanno evidenziato i suoi limiti in fase di emergenza, generando dubbi e perplessità anche negli spiriti più europeisti. Pur non possedendo competenze che permettano di fornire servizi sanitari, Bruxelles detiene la facoltà di coordinare ed integrare le politiche sanitarie nazionali; un’opportunità che avrebbe potuto cogliere meglio e con tempestività fin dall’inizio, se avesse davvero voluto porsi come arbitro garante e ago della bilancia nella più grande crisi sanitaria di questo inizio di secolo. Il fatto che ancora non ci sia una profilassi sanitaria comune dimostra ancora una volta l’impotenza delle istituzioni europee in situazioni del genere, ma soprattutto far risaltare la mancanza di coesione che certifica la frammentazione dell’UE.
D’altro canto, a fronte di una claudicante risposta europea in sostegno ai paesi più colpiti dall’epidemia di covid-19, sembra essersi attivato un flusso di solidarietà dagli altri paesi. Tra i maggiori sostenitori materiali dell’Italia, spiccano paesi extra UE, come Cina, Russia, Cuba, India, Brasile, Egitto e addirittura Venezuela. Questi stanno fornendo milioni di mascherine, nonché respiratori polmonari ed intere equipe di medici per far fronte alla pandemia. Colpisce la magnanimità internazionale anche di paesi piccoli o poveri, nonché l’imponente solidarietà proveniente dai cosiddetti paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, ma anche Sudafrica), mentre stupisce, in negativo, l’esitante solidarietà europea.
Ricordiamo nel secolo scorso la “solidarietà internazionalista” dei paesi socialisti a favore delle lotte nazionali di emancipazione, dalle lotte civili alle guerre di indipendenza contro l’imperialismo; al netto della tradizione di solidarietà di alcuni paesi, non è necessario nascondere un seppur lieve risvolto geopolitico, di cosiddetto soft power, presente anche in questa crisi sanitaria da COVID-19, come volano per rafforzare legami con alcuni paesi. Non vi sarebbe comunque nulla di strano o scandaloso, se l’interscambio sanitario rilanciasse – una volta conclusa l’emergenza con i risultati positivi sperati – progetti di cooperazione e sviluppo tra paesi. Quello che più fa discutere è sicuramente l’aiuto cinese. Ma a tal proposito la collaborazione sanitaria tra i governi di Roma e Pechino era già pattuita negli accordi siglati esattamente un anno fa. Infatti, tra i 29 accordi della “Nuova Via della Seta”, ve ne erano ben tre riguardanti la cooperazione sanitaria, i quali furono così commentati dall’allora ministro della salute Giulia Grillo: “La firma di questi accordi conferma come il settore sanitario sia parte significativa del partenariato strategico italo-cinese”.
Il fatto che il Segretario di Stato USA, Mike Pompeo, abbia ammonito l’Europa e in particolare l’Italia esortando a diffidare della propaganda cinese sul virus covid-19, è ascrivibile alle potenzialità di riassetti geopolitici come conseguenza della pandemia. Difatti, gli USA temono che, sulla scia dell’emergenza sanitaria, la Cina possa rafforzare i rapporti con gli Stati europei, incrinando l’egemonia statunitense. Pompeo ha già avvisato gli alleati che verranno giudicati per come hanno risposto alla propaganda di Pechino. Le preoccupazioni USA sembrano comunque eccessive, in quanto non è ipotizzabile alcun capovolgimento di alleanze sullo scacchiere internazionale. L‘Italia e i paesi UE rimarranno fedeli al Patto Atlantico, sebbene non siano da escludere leggeri riassestamenti e riposizionamenti di alcuni paesi, come l’Italia, nei confronti di Cina e Russia, con il conseguente rafforzamento di relazioni bilaterali.
La reazione economica dell’Unione Europea al COVID-19
A livello economico l’UE, nelle vesti della BCE, – dopo aver toccato uno dei suoi punti più bassi nella ormai tristemente nota conferenza di Christine Lagarde – ha provato a correre ai ripari promettendo l’acquisto senza limiti di titoli degli stati membri per un ammontare di 750 miliardi. Salvo il fatto che l’impatto della manovra sull’economia reale dei singoli paesi sarà giocoforza inferiore, questa sancisce il ritorno del “whatever it takes”, reinterpretato ai tempi del COVID-19. La stessa Lagarde ha affermato che “non ci sono limiti all’impegno della BCE per l’Euro”. Un buon punto di partenza per immettere liquidità nel sistema, ma che potrebbe non essere sufficiente, qualora non seguissero altri provvedimenti, anche più coraggiosi. Le banche nazionali faticano a riversare liquidità a tassi accessibili nelle tasche di imprese e cittadini. Per ovviare al problema, la BCE dovrebbe garantire, tramite le stesse banche nazionali, un’erogazione diretta di prestiti a tasso zero a favore di famiglie, imprese ed istituzioni, come sostiene il professor Gianpaolo Rossini, docente di Economia Internazionale dell’Università di Bologna.
Finora i provvedimenti più evidenti ed impattanti da parte dell’UE sono state paradossalmente manovre che fino a ieri erano soltanto nei sogni dei più fervidi euroscettici, ovvero la sospensione di Schengen, del Patto di Stabilità e della disciplina che vieta gli aiuti di stato. Queste misure possono essere utili nel breve e medio periodo, non solo in tempi di pandemia. Il primo tangibile risultato è lo sdoganamento del debito pubblico; in una tale emergenza, si può e si deve fare debito per sostenere l’economia e salvare posti di lavoro, come ribadito anche dallo stesso Mario Draghi. La criticità rimane però la condivisione del debito, argomento di punta degli ultimi giorni, su cui si sta definitivamente dividendo l’Unione Europea.
L’obiettivo a cui punta il governo Conte, spalleggiato da Mattarella e supportato da altri otto paesi europei favorevoli agli “eurobond”, è proprio quello di “europeizzare” e “mutualizzare” il debito pubblico, tramite il rilascio di obbligazioni con garanzie di tutti gli stati dell’Eurozona; rinominati “Coronabond” per l’occasione, essi potrebbero rappresentare un precedente importante per la successiva normalizzazione degli eurobond, che però i paesi del Nord non sono disposti ad accettare. Questi, capeggiati da Germania ed Olanda, rappresentanti da sempre della linea dura di austerity, si stanno opponendo fermamente alle richieste dei paesi del sud Europa.
Finora infatti l’unico risultato ottenuto dal Consiglio Europeo è stato quello di non scegliere, rimandando la decisione sulla crisi economica innescata dal COVID-19 ai prossimi giorni ed esacerbando i contrasti interni ad esso. Nel frattempo però è arrivata una prima risposta, non dall’Eurogruppo come ci si aspettava, ma dalla presidente della Commissione Europea, che ha prematuramente bocciato gli eurobond. A seguito delle polemiche suscitate, la Von der Leyen è dovuta subito correre ai ripari dopo poche ore, affermando di “non escludere nessuna opzione nei limiti dei trattati”; una rettifica piuttosto tautologica visto che, stando ai trattati europei, gli eurobond non sono in alcun modo previsti.
Pertanto, la solidarietà europea per i falchi d’Europa rimane al momento confinata all’interno del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Qualora prevalesse la loro linea, si prospetterebbe uno scenario in salsa greca, che concederebbe prestiti senior (da ripagare con priorità) agli stati in difficoltà colpiti dal covid-19 solo a stringenti condizioni, stabilite da BCE e FMI se necessario, quali severi tagli negli anni a venire con manovre “lacrime e sangue”. Una finta boccata d’aria nel breve periodo per ritrovarsi poi in futuro con un cappio al collo.
Conclusioni
Questa crisi sanitaria da covid-19 e la conseguente crisi economica saranno un banco di prova fondamentale per il futuro dell’integrazione europea. C’è il rischio che possa fare, mutatis mutandis, la fine della Società delle Nazioni, la quale, fallendo nell’obiettivo primario di salvaguardare la pace e mantenere l’equilibrio tra le potenze continentali, si sgretolò con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ora – si dice retoricamente – siamo di fronte ad un’altra guerra, non militare, ma economico-sanitaria; oltre alle sue tragiche conseguenze umanitarie, potrebbe anch’essa far capitolare o mutare radicalmente soggetti politici, quali organizzazioni ed istituzioni, come già successo in passato.
Appurato che la dimensione sovranazionale dell’UE è stata in larga parte erosa (o smascherata?) dalla crisi vigente, si possono azzardare diverse ipotesi in merito:
- il ritorno al realismo politico nella gestione delle relazioni internazionali all’interno dell’Eurozona, con la conseguente rivalutazione del ruolo degli Stati nazionali come attori primari; tornerebbe in tal caso in auge la logica intergovernativa della Comunità Economica Europea, così come strenuamente difesa dal presidente francese Charles De Gaulle negli anni ’60. Tale scenario, portato ai suoi estremi, condurrebbe allo scioglimento dell’UE, o a un suo importante ridimensionamento, con la ridiscussione dei suoi paradigmi e principi. Ciò faciliterebbe la creazione di nuove forme di cooperazione, sia a livello bilaterale che regionale, magari più adatte ai tempi e alle esigenze reali dei popoli europei; esigenze che finora sono state spesso ignorate e disattese, soprattutto nei momenti di criticità.
- alla luce dell’inconciliabilità degli interessi nazionali di paesi quali Olanda e Germania da un lato e Italia e Spagna dall’altro, con l’ondivago atteggiamento della Francia nel mezzo, sembrerebbe quasi spontaneo procedere verso la divisione politica dell’UE in due blocchi, uno del nord e uno del sud; invero nei rapporti di forza dell’UE tutto ciò già esiste da decenni, ma si è sempre cercato di far prevalere la retorica di un’Europa unita; a questo punto si tratterebbe soltanto di riconoscerlo pubblicamente e riorganizzare l’EU su tale dicotomia;
- perseverare sulla via di un’Europa del rigore, (dis)unita e non solidale, sacrificando, sull’altare del debito, i paesi più in difficoltà, con il rischio di forti squilibri economico-sociali, che potrebbero avere ripercussioni non solo entro i confini dei singoli paesi, ma anche nelle relazioni tra gli stessi; data poi la stretta interdipendenza delle economie europee, il contraccolpo ricadrebbe anche sugli stati più virtuosi.
Tutto dipenderà da quanto la situazione si farà critica in termini economici e dalla forza persuasiva che avranno i paesi del Sud nella lotta per i “coronabond”. Al momento non è dato sapere se i governi del Sud Europa abbiano deciso di andare all-in, anche a costo di rottura, o se, piuttosto che rompere definitivamente, finiranno per accontentarsi di un compromesso. Di certo i governi del Nord sembrano irremovibili e difficilmente cederanno su questo fronte, poiché significherebbe rinnegare l’austerity in toto, perdere consensi elettorali ed accollarsi parte dei debiti altrui, pur avendo sinora ottenuto maggiori benefici dalle policies comunitarie, in termini economico-commerciali, a discapito dei paesi del Sud.
Dunque, si va da improbabili (ma non impossibili) scenari di rottura più o meno aperta, passando per scenari di divisione fino ai più probabili scenari di continuità, basata sulla definizione di un piano di emergenza su cui convergere obtorto collo e rimandare così la resa dei conti, posticipando momentaneamente le divergenze tra paesi che si riproporranno alla prossima crisi.
Di certo l’Europa, come continente, si trova di fronte ad un bivio. Se la presente crisi da covid-19 dovesse perdurare ed inasprirsi, essa potrebbe non solo ridisegnare l’assetto europeo, ma addirittura stravolgere o quanto meno sospendere il sistema di mercato neoliberista, con il passaggio ad un’economia di guerra caratterizzata dal ritorno del massiccio intervento dello Stato nell’economia, spostando il paradigma dal profitto sopra ogni cosa alla salute pubblica sopra ogni cosa; ovvero da un interesse particolare a quello generale. Ciò significherebbe rimettere in discussione le fondamenta dei trattati europei e il sistema economico alla sua base, nonché il sistema di alleanze a livello regionale e globale. Le cancellerie del Nord Europa, già riluttanti ed insofferenti, sono saldamente coalizzate contro questo spettro e faranno di tutto per scongiurarlo. Così non fosse, la vittima illustre di questo virus potrebbe rispondere al nome di Unione Europea.
Complimenti caro Alessio!