La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi dello scorso 5 novembre è oramai ufficiale da un paio di giorni, ma lo scorso election day non ha solamente segnato il ritorno del tycoon alla leadership della massima potenza imperialista mondiale, bensì ha rappresentato una vera e propria tragedia politica per tutto il Partito Democratico, uscito duramente sconfitto dalla fallimentare presidenza di Joe Biden.

Con Joe Biden chiaramente impresentabile, i Dem avevano tentato di ribaltare il tavolo con la nomina all’ultimo momento di Kamala Harris, ma questo chiaramente non è stato sufficiente per evitare il trionfo di Trump, secondo presidente della storia ad ottenere due mandati non consecutivi dopo il democratico Grover Cleveland (1885-1889, 1893-1897). Parliamo di trionfo, perché questa volta Trump ha ottenuto ha vittoria schiacciante e senza appello, imponendosi anche nel voto popolare per oltre 4,5 milioni di voti (cosa che invece non gli era accaduta in occasione della sua vittoria contro Hillary Clinton otto anni fa).

I media europei hanno fino all’ultimo diffuso la previsione di un testa a testa tra i due principali candidati alla presidenza, ma, come si dice in inglese, questo non era che un wishful thinking, quel processo che porta le persone a trasformare i propri desiderata in previsioni per il futuro, che tuttavia non rappresentano la realtà. Questa sconfitta clamorosa dovrebbe invece dare vita ad una vera analisi critica all’interno del Partito Democratico, cosa che tuttavia riteniamo che non avverrà, visto che la politica statunitense non vive di analisi serie, ma unicamente di propaganda mediatica.

Nel frattempo, Trump governerà la massima potenza imperialista per i prossimi quattro anni, potendo godere di una maggioranza netta in entrambe le Camere, distante da quel pareggio previsto dai nostri media al Senato. Al contrario, con i dati non ancora definitivi, il GOP di Trump si è già assicurato la maggioranza assoluta con 52 seggi contro i 44 dei Dem, in attesa che vengano assegnati gli ultimi otto scranni. Unica consolazione per la sinistra esterna ai Dem, l’ennesima vittoria di Bernie Sanders in Vermont, con l’ormai 83enne “socialista democratico” che a gennaio festeggerà diciotto anni consecutivi come senatore.

Proprio Sanders ha formulato una dura critica nei confronti del Partito Democratico, affermando che il voto dei lavoratori ha premiato Trump a causa delle gravi mancanze dei Dem: “Non dovrebbe sorprendere troppo che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe lavoratrice scopra che è stato a sua volta abbandonato dalla classe lavoratrice”, ha detto il senatore indipendente del Vermont. “Prima lo ha fatto la classe lavoratrice bianca, e ora anche i lavoratori latini e neri. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole un cambiamento. E ha ragione”.

Questo naturalmente non significa che Sanders appoggerà Trump, ma, come spesso accade, sembra essere l’unico dei principali esponenti politici statunitensi in grado di fare una lucida analisi della situazione. “Gli interessi legati al grande denaro e i consulenti ben pagati che controllano il Partito Democratico impareranno davvero qualcosa da questa campagna disastrosa?”, ha chiesto retoricamente Sanders. “Capiranno il dolore e l’alienazione politica che decine di milioni di americani stanno vivendo? Hanno qualche idea su come possiamo affrontare l’oligarchia sempre più potente che detiene così tanto potere economico e politico? Probabilmente no”.

In concomitanza con le elezioni federali, sono stati eletti anche i governatori di undici Stati, mantenendo inalterati gli equilibri tra i due partiti. Infatti, in tutti gli Stati andati al voto ha vinto il partito che già governava nel mandato precedente, con un bilancio di 8-3 in favore dei repubblicani. I Dem continueranno infatti a governare solamente il Delaware, il North Carolina e Washington, mentre i repubblicani hanno ottenuto otto vittorie con le conferme dei governatori uscenti Greg Gianforte (Montana), Spencer Cox (Utah) e Phil Scott (Vermont). Nel complesso, il GOP governa 27 Stati contro i 23 dei democratici.

Nel complesso, possiamo affermare che le elezioni del 2024 hanno segnato non solo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, ma anche una crisi profonda all’interno del Partito Democratico. La sconfitta dei Dem non può essere liquidata come un semplice incidente di percorso, ma piuttosto come il sintomo di un distacco crescente tra il partito e le fasce più ampie della popolazione, in particolare la classe lavoratrice e le minoranze etniche.

Da questo punto di vista, la critica di Bernie Sanders mette in luce la necessità di un cambio di rotta, ma resta da vedere se i Democratici saranno disposti a mettere in discussione il loro attuale modello politico. Con un Congresso a maggioranza repubblicana e un elettorato chiaramente orientato verso il cambiamento, i prossimi quattro anni saranno cruciali non solo per l’amministrazione Trump, ma anche per il futuro del Partito Democratico. Senza un serio esame di coscienza e una strategia mirata a riconnettersi con gli elettori, il rischio è che la sconfitta del 2024 diventi solo il primo di una serie di fallimenti elettorali.

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