Il Tibet è spesso oggetto delle attenzioni della stampa occidentale come mezzo di discredito nei confronti del governo cinese. Secondo i luoghi comuni propinati da costoro, il Tibet sarebbe stata una regione abitata da una popolazione pacifica improvvisamente sottomessa e repressa dalle autorità cinesi dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, il 1° ottobre 1949, da parte di Mao Zedong. Tale visione è smentita dal curatore Zhang Yun sin dalla prefazione: “Nei tempi antichi, il Tibet non era il leggendario Shangri-La, come a volte è stato affermato, bensì una servitù feudale sottomessa a un regime teocratico. In passato, quella tibetana era una società oscurantista caratterizzata da una gerarchia rigida e da un sistema punitivo crudele” (p. 11).
Al contrario, la fondazione della Repubblica Popolare Cinese e l’inizio del governo di Pechino sulla regione tibetana, divenuto effettivo nel 1959, hanno portato a un importante progresso sociale ed economico, a vantaggio della maggioranza della popolazione, un tempo costretta da un rigido sistema di caste: “La riforma democratica lanciata nel 1959 ha cambiato radicalmente il tessuto sociale di questa regione e le vite di oltre un milione dei suoi abitanti. Fu in quell’anno che il Tibet abolì l’autocrazia teocratica feudale che durava da quasi un millennio, operando una grande transizione da nuova società democratica a socialista” (p. 12).
Il primo capitolo, “Oscurantismo nel vecchio Tibet”, analizza in maniera approfondita quelle che erano le dinamiche della società tibetana del passato, attraverso testimonianze, documenti ufficiali e ricostruzioni storiche. La rigidità gerarchica della società tradizionale tibetana è sancita da antichi codici, nei quali si legge chiaramente: “Le persone sono divise in tre classi (superiore, media e inferiore). Ogni classe è ulteriormente suddivisa in tre gradi secondo il lignaggio e lo stato sociale. Data questa suddivisione, anche il valore della vita di una persona sarà alto o basso” (p. 18).
La suddivisione gerarchica istituiva di fatto una teocrazia nei quali alcuni monaci di alto rango disponevano di un potere e una ricchezza spropositati nei confronti del resto della popolazione, secondo un modello feudale: “Per un periodo piuttosto lungo, in Tibet è esistito un serio fenomeno di polarizzazione gerarchica. Funzionari, nobili e monaci di livello superiore possedevano la terra e controllavano la vita, la morte e il matrimonio dei servi della gleba che venivano considerati proprietà privata” (pp. 24-25). Anche studiosi occidentali, come il lussemburghese Albert Ettinger, hanno affermato: “Sebbene il Tibet non fosse la sola area nella quale si perpetravano punizioni barbare, è stata l’unica o comunque una delle pochissime che ha portato avanti un sistema penale così crudele fino alla metà del XX secolo” (p. 39).
Non va poi dimenticato che, nell’ottobre del 1903, l’esercito britannico invase il Tibet a partire dalla propria colonia indiana, al fine di indebolire ulteriormente la dinastia Qing. Questo avrebbe dato origine alla cosiddetta “questione tibetana” al momento della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Proprio di questa fase si parla nel secondo capitolo, “Storia e scelta del popolo”. Nel momento stesso in cui Mao Zedong proclama la nascita della RPC, infatti, le forze occidentali divennero improvvisamente sostenitrici dell’indipendenza del Tibet: “Istigata dalle forze straniere anti-cinesi, l’autorità di Lhasa creò continuamente incidenti volti a scacciare la popolazione Han, nel tentativo di impegnarsi in una vagheggiata “indipendenza del Tibet”, riportando di nuovo al centro dell’attenzione la questione tibetana” (p. 50).
Il 23 maggio 1951, si concluse la liberazione del Tibet con un accordo tra l’autorità centrale di Pechino e quella locale di Lhasa. L’articolo 1 dell’Accordo afferma chiaramente: “Il popolo tibetano si unirà alla madrepatria della Repubblica Popolare Cinese e caccerà via dal Tibet le forze di aggressione imperialiste”. L’articolo 4 precisa: “L’autorità centrale non apporterà modifiche all’esistente sistema politico del Tibet e tanto meno agli statuti e prerogative prestabiliti del Dalai Lama. I funzionari ai vari livelli continueranno a svolgere le loro mansioni come al solito” (p. 52).
Tuttavia, tale situazione di concordia non durerà a lungo: “Le forze reazionarie estremiste delle classi sociali più elevate, diffusero deliberatamente voci per creare uno scontro tra la gente e le forze militari, scatenando un certo panico nel periodo iniziale” (p. 52). Questo nonostante l’esercito cinese offrisse prestiti senza interessi e cure mediche gratuite alla popolazione.
Nonostante alcuni moti fomentati dalla classe dominante dei monaci di alto rango e dei proprietari terrieri, “La liberazione pacifica del Tibet mise fine all’umiliante storia della nazione cinese che aveva subito l’oppressione esterna, il colonialismo e le invasioni straniere nei tempi moderni, e che aveva iniziato una nuova marcia per costruire una grande famiglia nazionale fatta di uguaglianza, solidarietà e aiuto reciproco” (p. 57). La liberazione della regione ha cambiato la vita dei Tibetani che occupavano il livello più basso della società attraverso numerose misure come la bonifica dei terreni incolti, lo sviluppo dell’istruzione e della sanità e altre misure a favore della maggioranza della popolazione.
Con la repressione della rivolta delle classi abbienti, il 1959 segnò l’inizio della nuova fase di riforma democratica in Tibet, affrontata nel terzo capitolo, “Il popolo padrone del proprio destino”: “Dopo che la ribellione fu sedata, un milione di servi della gleba, oppressi per generazioni, iniziarono una nuova vita ottenendo terre e altri mezzi di produzione, esercitando i diritti democratici e diventando padroni di loro stessi” (p. 83). Tale cambiamento radicale viene significativamente riassunto nel motto: “Il sole del Dalai Lama splende solo sui nobili, mentre il sole del Presidente Mao splende su noi poveri. Il primo è tramontato, il secondo sorge” (p. 93).
La riforma democratica in Tibet, parte del più ampio processo rivoluzionario cinese, ha permesso la liberazione di milioni di servi che si sono ritrovati protagonisti della nuova società: “I servi e gli schiavi emancipati, cambiarono completamente il loro status di “strumenti parlanti” e per la prima volta salirono sulla scena politica tibetana da protagonisti” (p. 97). Nell’ambito di questa democratizzazione, nel 1965 venne istituita la Regione Autonoma del Tibet e per la prima volta le autorità politiche vennero elette direttamente dal popolo, operando una netta separazione tra politica e religione.
Il testo prosegue con il quarto capitolo, “Dal vecchio al nuovo”, nel quale si analizzano i progressi effettuati dal Tibet nei decenni successivi, soprattutto dopo la riforma economica del 1978: “La riforma ha permesso al Tibet di fare un salto storico dalla servitù feudale al socialismo. Lo stabilimento del socialismo ha liberato e sviluppato le forze produttive della zona e ha continuamente aumentato la sua crescita economica, promuovendo un progresso sociale significativo” (p. 109). Alcuni dei miglioramenti hanno riguardato le vie di trasporto, sia su strada che su rotaia, nonché l’instaurazione di rotte aree, che hanno permesso la riduzione dei tempi negli spostamenti e hanno contribuito ad abbassare i prezzi dei beni provenienti dalle altre regioni, aumentando il potere d’acquisto della popolazione.
Altri importanti progressi hanno riguardato l’accesso all’istruzione da parte di tutti i gruppi etnici minoritari, lo sviluppo della sanità e un ambiente culturale fiorente, favorito anche dalla libertà di culto, al contrario di quanto accadeva in precedenza, quando tutta la popolazione era di fatto obbligata a seguire il culto dei Lama: “Il rispetto e la garanzia della libertà di culto è una politica fondamentale del PCC e del governo centrale. Ogni cittadino è libero di credere o meno, di scegliere la tipologia e la setta di quella determinata religione, e da credenti diventare atei e viceversa. […] Nell’esercizio di questi diritti, i credenti non dovrebbero interferire nei diritti legali di altre persone, o cercare una conversione forzata; non dovrebbero esercitare nessuna discriminazione nei confronti dei non credenti o di coloro che seguono un’altra religione; non dovrebbero usare la religione per interferire nei diritti e negli interessi legittimi dei cittadini” (p. 132).
L’ultimo capitolo, “Ingresso nella nuova era”, analizza gli sviluppi successivi al XVIII Congresso Nazionale del PCC e all’ascesa di Xi Jinping alla presidenza della Repubblica Popolare Cinese: “Nella nuova era, il Tibet insiste sul concetto di sviluppo condiviso per aumentare la felicità della sua popolazione e accrescere il senso di partecipazione e guadagno per tutti i gruppi etnici, assicurando che i risultati dello sviluppo siano condivisi da tutti. Si sta impegnando per migliorare costantemente il livello di vita della gente e portare avanti la costruzione di una società moderatamente prospera” (p. 164).
In conclusione, “Verso un futuro più luminoso” offre una visione chiara e documentata sulla realtà tibetana dell’ultimo secolo, smentendo numerosi luoghi comuni e promuovendo una visione del Tibet che può risultare nuova al lettore occidentale: “La storia e la pratica hanno dimostrato che la riforma democratica del Tibet e l’abolizione della servitù feudale hanno permesso a un milione di servi e schiavi di diventare veramente padroni di sé stessi. Ha scritto una pagina importante nella storia dei diritti umani della Cina, così come nel loro percorso di sviluppo internazionale. Senza la riforma, il popolo tibetano non sarebbe stato mai in grado di vivere una vita felice e il Tibet non avrebbe potuto mai raggiungere uno sviluppo sociale così rapido” (p. 171).
Fonte: https://www.lacittafutura.it/esteri/verso-un-futuro-pi%c3%b9-luminoso