Se pensiamo alla parola martire, ci viene in mente una figura lontana, troppo lontana. Talmente lontana da risultarci persino estranea.

In realtà, il sangue versato e le angherie patite tuttora da sempre più cristiani nel mondo, specialmente nel Grande Medio Oriente, la rendono un’espressione che trasuda contemporaneità.

La storia di Shahzad Masih, 27 anni, e sua moglie Shama Bibi, 24, costringe quel mondo occidentale che continua a professarsi – un po’ per pigrizia, un po’ per abitudine  ma sempre meno per autentica convinzione – cristiano, a liberare dalla polvere un termine troppo presto archiviato come primitivo.  La morte di questi due giovani sposini cristiani, come un cazzotto scagliato in pieno stomaco, ci scaraventa in un passato tanto remoto da sembrarci – nostra culpa, nostra culpa, nostra maxima culpa – quasi leggendario.

I fatti: siamo in Pakistan, o meglio, nella Repubblica Islamica del Pakistan dove trovò prima rifugio, e poi la morte, lo Sceicco del terrore Osama Bin Laden.

L’anno è il 2014, il mese è Novembre. Non a caso, il mese dei Santi e della commemorazione dei martiri, oltre che dei defunti.  La coppia è in lutto per la morte del padre di Shahzad e, secondo un testimone, Shama brucia alcune pagine del Corano trovate tra i beni personali del suocero appena deceduto.  Il testimone ha poi sparso la voce su quest’episodio nei villaggi limitrofi tanto da attirare l’attenzione degli imam locali che, servendosi degli altoparlanti, incitano alla vendetta contro la giovane “blasfema”. In poche ore da cinque villaggi confinanti, una folla invasata di fanatici mussulmani circonda la casa dei coniugi e vi irrompe trascinando Shama e Shahzad in strada. Qui, armati di bastoni, i manifestanti colpiscono a sangue i due sposini e poi, con un trattore, falciano più volte i loro corpi già tramortiti dalle violente percosse. Secondo la testimonianza di una sorella della vittima, alla scena avrebbe assistito anche un poliziotto che però non ha voluto seguire il suggerimento di sparare in aria per disperdere la folla. L’atteggiamento dell’autorità non stupisce dal momento che in Pakistan, nonostante i recenti propositi di revisione,  vige una legge sulla blasfemia  che prevede anche la condanna a morte ed è facilmente soggetta a strumentalizzazioni contro la minoranza cristiana.

Ma l’orrore conosce un epilogo ancora più atroce: dopo averli cosparsi di benzina, i manifestanti infilano i due moribondi nella fornace di una fabbrica di mattoni dove trovano la morte, arsi vivi come San Lorenzo  1757 anni fa.  Due settimane più tardi, la polizia locale scagiona la donna da ogni accusa di blasfemia mentre arresta 42 persone accusate di aver partecipato al brutale assassinio.

Nonostante i ripetuti tentativi di corruzione e le pesanti intimidazioni subite, la famiglia dei due sposi ha continuato a reclamare a gran voce giustizia soprattutto per i tre bambini rimasti orfani. A distanza di un anno, nessuno dei 42 uomini incriminati è stato condannato.

Nella bocca della fornace assassina, insieme al padre e alla madre che mai conoscerà, la vittima più giovane dell’odio accecante del fanatismo è la piccola creatura che Shama cullava in grembo. E se i media occidentali sono soliti intraprendere martellanti campagne di sensibilizzazione come quella contro lo “hate speech”, cioè l’incitamento all’odio tramite commenti virtuali, al contrario, non hanno dato spazio – con qualche lodevole eccezione – alla testimonianza di un odio concreto, sfociato nella sofferenza disumana delle due vittime e nel dolore ingiustificato dei loro figli.  Ma d’altronde, non sono altro che il megafono calzante di una società che si vergogna sempre più della propria cultura originaria cristiana e che prova stupore e quasi fastidio di fronte alla prova di un sacrificio tanto estremo per un aspetto così marginale come la fede.

Nico Spuntoni