
Negli ultimi anni molte parole dapprima usate solo da tecnici di settori specifici hanno acquisito grande diffusione, talvolta con la conseguenza d’uno scivolamento di senso o perlomeno di un fraintendimento. Il termine ‘empatia’, che di certo è più conosciuto rispetto a un paio di decenni fa, tutto sommato viene usato con un significato non troppo dissimile da quello tecnico, se si fa un confronto col destino di altri vocaboli: in genere lo si considera un sinonimo di comprensione, cosa non del tutto precisa se si vuole essere puntigliosi, ma neppure troppo errata.
L’empatia permette di comprendere l’altro in un modo specifico: si può parlare allora di ‘comprensione empatica’. Già Sigmund Freud l’aveva indicata come un prezioso strumento di conoscenza dei vissuti del paziente, in campo psicanalitico fu poi Otto Kernberg a teorizzarne anche il valore curativo, al di fuori dell’ambito psicanalitico è stato Carl Ransom Rogers a considerarla come il fattore terapeutico centrale. Carl Rogers (Oak Park, Illinois, 1902-La Jolla, California, 1987) è stato uno degli esponenti di maggior rilievo di quella corrente della psicologia detta ‘umanistica’ o ‘umanista’ che, contrapponendosi alla prevalente visione meccanicista e determinista dell’essere umano, valorizzava l’autorealizzazione e la creatività individuali.
In ‘A Way of Being’ (pubblicato nel 1980 e tradotto in italiano col titolo ‘Un modo di essere’) sottolineava il grande numero di definizioni ricevute dalla parola in questione ammettendo, con una certa autoironia, d’aver contribuito a far sì che ciò accadesse, quindi riproponeva quella che aveva proposto più di vent’anni prima e che a suo dire rimaneva la più rigorosa: “Lo stato di empatia, dell’essere empatico, è il percepire lo schema di riferimento interiore di un altro con accuratezza e con le componenti emozionali e di significato ad esso pertinenti, come se fossimo una sola persona, ma senza mai perdere di vista questa condizione di ‘come se’. Significa perciò sentire la ferita o il piacere di un altro come lui lo sente e di percepire le cause come lui le percepisce, ma senza mai dimenticarsi che è ‘come se’ io fossi ferito o provassi piacere”.
E’ facile comprendere la differenza con la simpatia, che significa gioire con chi ci racconta la sua gioia e soffrire con chi ci racconta il suo dolore, identificandosi coll’altro proprio perché ci è simpatico, mentre nell’ascolto empatico si può sì percepire l’altrui gioia o dolore, ma senza la sensazione di provarle come nostre. L’empatia è efficace dal punto di vista terapeutico solo quando si verifichino alcune condizioni: l’assunzione del punto di vista e l’accettazione positiva e incondizionata dell’altro, la separazione delle emozioni altrui dalle proprie e il feedback empatico.
Rogers ha sempre insistito molto sull’ultimo punto: non è sufficiente che il terapeuta provi empatia ma è necessario che l’altro se ne accorga, che possa percepire di essere capito o perlomeno rendersi conto dello sforzo che viene fatto per capirlo, per questo motivo ha sviluppato una specifica tecnica per condurre il colloquio. L’idea rogersiana di una psicoterapia non direttiva e centrata sul cliente andò espandendosi a sempre più campi d’applicazione, ad iniziare all’educazione centrata sul minore e all’insegnamento centrato sullo studente.
Nell’introduzione all’opera succitata, Rogers arrivò ad affermare che “ciò che è vero nella relazione tra terapeuta e cliente può essere altrettanto vero per un matrimonio, una famiglia, una scuola, un’amministrazione, nel rapporto tra culture e nazioni diverse”. Ciò che egli intendeva dire è che non solo l’empatia fa parte dei cosiddetti ‘fattori terapeutici aspecifici’, che sono comuni alle diverse psicoterapie, collegati alle caratteristiche personali del terapeuta, tanto da emergere anche in contesti dove la teoria sottesa alla tecnica applicata non ne tenga conto, ma che essa ha un effetto benefico anche al di fuori dell’ambito di cura.
Recenti studi nel campo delle neuroscienze sembrano confermare quello che Rogers ha sempre sostenuto: l’empatia sarebbe una potenzialità innata dell’essere umano, anche se con una grande variabilità interindividuale e con un forte impatto delle esperienze di vita nel farla diminuire oppure nell’accrescerla. Chi ha la fortuna di rapportarsi con una persona empatica tenderà a sentirsi più libero di esprimersi che con altri e ne beneficerà dal punto di vista psicologico: questo fatto si verifica tanto se l’empatia è consapevole, magari ottenuta mediante anni di duro addestramento, che quando è una dote naturale di una persona che i conoscenti tendono semplicemente a definire “buona”.
L’empatia sembra inoltre essere contagiosa, per così dire: a quanto pare chi intrattiene relazioni con persone empatiche tende a diventarlo a sua volta. In Danimarca gli alunni delle scuole dell’obbligo, che va dai 6 ai 16 anni, ricevono un’ora di lezione di empatia alla settimana: si potrebbe dire che come sempre gli scandinavi sono all’avanguardia, ma considerata l’importanza della “materia” forse non lo sono neppure abbastanza e un’ora è davvero troppo poco.
Magari varrebbe la pena di sacrificare qualche ora d’insegnamento di altre materie, visto e considerato che le ricerche scientifiche sembrano dimostrare che alti livelli d’empatia correlano con buone prestazioni cognitive: essa allora non costituirebbe soltanto una delle principali componenti di ciò che Daniel Goleman definì, nel titolo di un suo fortunato libro, ‘Intelligenza emotiva (1995)’, bensì una componente dell’intelligenza ‘tout court’, una delle più alte forme dell’intelligenza possibili per l’essere umano.