
Lo spettro di una nuova guerra civile incombe sul Burundi. Nonostante i media internazionali tacciano su quanto sta avvenendo nel Paese africano, incidenti, sparatorie e scontri sono all’ordine del giorno. Mercoledì, durante le celebrazioni del 53° anniversario dell’indipendenza del Burundi, sei persone sono rimaste uccise nel quartiere di Cibitoke, dopo un raid della polizia.
Un’ondata di violenza che non si è placata neppure nel giorno delle elezioni legislative e amministrative, avvenute domenica scorsa. Militanti dell’opposizione e forze dell’ordine si sono scontrati in diversi quartieri di Bujumbura, la capitale. In particolare, nei distretti di Cibitoke, Musaga e Nyakabiga uomini non identificati armati di machete, pietre, fucili automatici e granate hanno disseminato il panico, dando la caccia ai propri oppositori politici. Secondo l’Onu, in meno di un mese ci sono stati oltre 80 morti, 400 feriti e oltre 120mila profughi.
Di certo la guerriglia non ha facilitato il normale svolgimento delle elezioni: l’affluenza è stata molto bassa e la popolazione è rimasta rinchiusa in casa. Dati che hanno spinto la comunità internazionale a bollare le votazioni come “poco credibili” e a chiedere il posticipo delle elezioni presidenziali, previste per il 15 luglio.
Non è della stessa opinione il presidente Pierre Nkurunziza che, mercoledì, in occasione della festa della nazione ha invitato l’Occidente a “rispettare l’indipendenza” del Burundi.
Da oltre un mese, la popolazione, capeggiata da diversi gruppi politici d’opposizione, protesta contro la decisione di Nkurunziza
di candidarsi per la terza volta alle elezioni presidenziali, violando di fatto la Costituzione.
Gli animi si sono riscaldati dopo il fallito golpe, avvenuto il 15 maggio scorso, contro l’attuale governo. Da allora, la tensione è palpabile. A conferma, gli Stati Uniti hanno già evacuato i cittadini statunitensi, canadesi e altri stranieri ritenendo che la situazione nel Paese africano è “volatile”. Anche il personale non necessario delle Nazioni Unite ha lasciato Bujumbura, la capitale del Burundi, per Entebbe in Uganda, insieme ad alcune organizzazioni umanitarie.
Piccoli campanelli d’allarme che non promettono nulla di buono. Il Burundi è un Paese povero, ma la sua posizione geografica, così vicina alla Repubblica Democratica del Congo, lo rende appetibile agli occhi dell’Occidente, da sempre interessato agli immensi giacimenti minerali congolesi.
In questo contesto entra in scena George Soros, il magnate della finanza internazionale, che secondo fonti sul posto avrebbe finanziato corsi universitari, giornali indipendenti e radio private in Burundi.
Soros, ungherese di origini ebraiche naturalizzato americano, è noto al mondo per esser stato, attraverso il suo fondo d’investimento “Quantum Fund”, le sue numerose ONG e i suoi soldi, il finanziatore di tutte le rivoluzioni colorate dalla caduta del muro di Berlino ai giorni nostri, dalla Serbia alla Georgia, dai tentativi in Bielorussia al disastro ucraino.
Che ci sia lui dietro alla nuova ondata di proteste? Non è ancora chiaro. Sarebbe bello pensare che chi manifesta in Burundi non sia più lo sprovveduto africano inconsapevole dei propri diritti. Ma i tempi non sembrano ancora maturi. Lo abbiamo visto anche in Burkina Faso, dove i giovani burkinabé hanno cacciato il dittatore Compaoré, portando una ventata d’aria fresca che si è tramuta però in un niente di fatto.
La buonafede degli africani, che cercano il riscatto sociale, non è in dubbio. È quella della comunità internazionale, che tenta di cambiare la propria immagine, ad esserlo.
C’è infatti una nuova tendenza che sta prendendo piede. Ai vecchi dittatori l’Occidente preferisce, palesandolo pubblicamente, i nuovi volti, che comunque rimangono nella sfera d’influenza di Stati Uniti, Francia e compagnia bella. Il Senegal ne è un esempio lampante.
E il Burundi non fa eccezione. Il presidente Nkurunziza, che fino ad oggi ha goduto dell’appoggio occidentale, paga il prezzo più grande.
L’attuale situazione è infatti figlia degli accordi di Arusha in Tanzania, siglati nell’agosto 2000, e dell’adozione, cinque anni più tardi, di una costituzione che garantisce una rappresentanza alla minoranza tutsi nelle più alte cariche pubbliche e soprattutto nell’esercito. Gli accordi furono firmati dal governo e da rappresentanze hutu e tutsi, che costituiscono rispettivamente l’85 e il 14% della popolazione, dopo una decennale guerra civile. Promotori dell’intesa furono l’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki e l’ex presidente americano Bill Clinton. Gli Stati Uniti, appoggiati dalla Francia, miravano a mettere fine al conflitto in Burundi per concentrarsi sul Congo, afflitto da due guerre panafricane. Per le potenze occidentali, la guerra civile burundese rappresentava solo problemi e ostacolava la rapina delle risorse minerarie della regione dei Grandi Laghi.
Per la fretta di concludere, gli accordi di Arusha furono fatti male. Essi prevedevano la creazione di un periodo transitorio di tre anni durante il quale per i primi 18 mesi sarebbero stati al governo i Tutsi, mentre per i restanti 18 gli Hutu. Termini che non furono mai rispettati, il presidente Nkurunziza, è stato eletto per due volte consecutive.
Ora il suo terzo mandato potrebbe scatenare un nuovo conflitto. La storia del Burundi, come quella del Ruanda, è stata contrassegnata da uno scontro sanguinoso tra tutsi e hutu.
Una rivalità che parte da lontano, ovvero dal 1924. Anno in cui il Belgio ottenne dalla Società delle Nazioni il mandato di amministrare i due territori, fusi in un’unica colonia, chiamata Ruanda-Urundi. Fu infatti l’amministrazione coloniale ad alimentare l’odio interetnico. Queste etnie, che hanno patrimoni genetici quasi simili, si distinguono fra esse in base ad un criterio agricolo introdotto dal Belgio, secondo il quale chi possedeva almeno dieci capi di bestiame era un tutsi; chi ne possedeva meno era un hutu.
La situazione rimase pressoché uguale anche dopo che Ruanda e Burundi ottennero l’indipendenza dal Belgio nel 1962. I tutsi rimasero al governo per molti anni, nonostante gli hutu fossero la maggioranza nel Paese e in parlamento. Fu un periodo di violenze, scontri politici, falliti rovesciamenti di potere. Solo nel 1993 fu eletto il primo presidente hutu del Burundi, Melchior Ndadaye, ma fu ucciso un anno più tardi. Morì in una circostanza ancora da chiarire durante l’abbattimento dell’aereo, sul quale viaggiava anche il capo di Stato ruandese.
Nonostante i due Paesi presero strade politiche diverse, le loro vicende proseguirono su binari paralleli: con la fine del governo coloniale le tensioni fra hutu e tutsi in ambedue i Paesi degenerarono in una spirale di violenza, che in Burundi provocò la morte di 300.000 persone in 11 anni, e in Ruanda 800.000 tutsi in meno di 100 giorni di pura follia.
Francesca Dessì